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Autore: LauFleur    15/12/2010    13 recensioni
OS prima classificata al contest di Natale di "Twilight Fanfic Contests".
Questa è la storia di un fratello e una sorella, di una madre e un figlio, di un ragazzo e una ragazza. Ed è la storia dei loro cambiamenti, delle loro scelte, del loro Natale.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Esme Cullen, Rosalie Hale | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Ho scritto questa OS per il contest di Natale di "Twilight Fanfic Contests", meraviglioso forum ideato da Stupid Lamb, Lele Cullen e federob.
L'argomento sul quale sviluppare la storia erano i Cullen e il Natale, e questo è quello che ha partorito la mia testolina.
Ci tenevo a farla leggere anche qui, sperando che nessuno si addormenti a metà!
Grazie fin da ora.

____________________________



È la mattina del 22 dicembre.
Me lo ricorda il calendario colorato appeso sopra il camino. Rosalie ha aperto tutte le caselle ed ha mangiato i cioccolatini che contenevano, fino a lasciare coperto il numero 23. È diventato il suo piccolo e felice rituale mattutino: si sveglia, apre la casella del giorno e mangia il cioccolatino con un solo boccone.
Sono sveglio da parecchie ore, ma gli occhi bruciano ancora per il troppo sonno arretrato.
Ho fatto due lavatrici ed ora i panni profumati sono stesi davanti al camino. Davanti al focolare che ho acceso io, accanto all'abete che ho decorato io, con l'aiuto di mia sorella.
Ho messo in ordine le nostre camerette, ho rifatto i letti con cura. I nostri, non quello di mamma perché lei c'è ancora dentro, immersa tra le coperte, con la testa nascosta sotto due cuscini.
Dopo aver dato una ripulita veloce anche alla cucina, mi sono preso qualche minuto per riposarmi, abbandonato sulla poltrona. Avvicino i piedi sempre gelati al focolare, inspiro il profumo di detersivo, di pulito, di fatica. Chiudo gli occhi ed abbandono la testa sull'imbottitura morbida.
Sembra passata un'eternità, ed invece sono solo tre mesi.
Tre mesi da quella sera, tre mesi dalle lacrime, tre mesi dal cambiamento.
Avevo trascorso una giornata intera in biblioteca, impegnato a ripassare le ultime cose prima di dover affrontare il college. Mi ricordo di aver pedalato come un pazzo per riuscire ad arrivare a casa in tempo per la cena. Perché a casa nostra dovevamo essere puntuali, non era ammesso neanche un minuto di ritardo. Perché è così che si fa in ogni famiglia che si rispetti: si cena tutti insieme, tutti sorridenti, tutti allegri, Com'è andata la giornata caro?, Mi passi l'insalata?, Certo tesoro prendi anche un po' di patate.
Ma il sorriso in realtà era finto, era solo una maschera che tutti dovevano attaccarsi alla faccia per far contento il padre, il marito. Ed io quella maschera non avevo mai avuto voglia di indossarla.
Una storia simile si ripeteva la mattina, a colazione. Lo scambio dei buongiorno, mamma indaffarata ai fornelli, mio padre che non ci rivolgeva neanche uno sguardo. Ma non era questo l'importante, quello che contava era stare tutti insieme e recitare al meglio la tua parte nella perfetta famiglia da spot pubblicitario. Poco importava se gli unici a rivolgersi la parola eravamo io e Rosalie, poco importava se nessuno vedesse la faccia di Carlisle, sempre nascosta dietro il giornale spalancato. E non importava nemmeno che mia madre avesse sempre lo sguardo fisso sul piatto, con il respiro affannato e le mani che le tremavano, terrorizzata dall'idea di dire la cosa sbagliata nel momento ancora più sbagliato.
Ed io non riuscivo mai a stare zitto, non riuscivo a non ribellarmi. Quell'enorme farsa mi è sempre andata troppo stretta. Ho perso il conto di tutte le volte in cui mio padre mi ha spedito in camera senza cena, per poi sentire mamma che durante la notte saliva le scale in punta di piedi per portarmi qualcosa da mangiare. Ho passato l'adolescenza in punizione. Per aver parlato troppo, per aver preferito per l'ennesima volta la schifosa verità all'insopportabile recita, per aver lasciato a briglia sciolta quello che ormai era diventato il mio compagno di giochi: il sarcasmo.
A scuola sono sempre stato in disparte, perso in un mondo che non apparteneva a nessuno se non a me. Ero il ragazzo solitario, quello con il libro in mano e i capelli spettinati. Ed andava bene così.
Sono sempre riuscito a trovare un equilibrio fra tutte le cose che mi interessavano. Ed in questo equilibrio ci facevo entrare anche le ragazze. I primi anni le cose non andavano benissimo, i pochi appuntamenti che riuscivo ad ottenere li rovinavo al massimo alla seconda uscita, senza neanche riuscire a capire dove avessi sbagliato. Ma poi sono cresciuto, ed il mio corpo con me. Non mi dovevo più sforzare per far colpo, per attirare uno sguardo, per avvicinare una ragazza. Mi bastava essere quello che ero, stare in disparte dov'ero sempre stato, e le ragazze arrivavano da sole. Non ero costretto a trascinarmi a feste idiote per rimorchiare, mi bastava sfoderare un sorriso sghembo, passarmi una mano tra i capelli 'di un colore che non avevano mai visto fino ad allora', al massimo aggiungere quant'ero bravo a destreggiare le mie dita anche sui tasti di un pianoforte. Ed il gioco era fatto.
Le quattro mura di casa traboccavano di problemi e quando ne uscivo non volevo ulteriori complicazioni. Solo cose semplici, nessun rompicapo sentimentale. Solo parole dritte al punto, nessun romanticismo. Solo scopate, nessun amore.
Ma tutto l'equilibrio è stato spazzato via quella sera, nel momento in cui ho aperto la porta di casa ed ho trovato mia madre accasciata sul divano, con le mani tra i capelli. Sono corso ad abbracciarla, straziato dal suo dolore e terrorizzato dall'idea di scoprire cosa fosse successo. Singhiozzava parole senza senso, io continuavo a ripeterle di calmarsi. Dov'è Rose? le chiedevo preoccupato, ma lei non aveva la forza di parlare. Dopo qualche bicchiere d'acqua e cascate di lacrime, mi ha confessato disperata che nostro padre se n'era andato. Era tornato dal lavoro e, borbottando le sue solite parole tanto inutili quanto ipocrite, aveva fatto i bagagli per non tornare mai più. Aveva deciso di lasciare la sua moglie perfetta e la sua famiglia da pubblicità così, come un vigliacco. Il vigliacco che in fondo era sempre stato.
In quel momento scese le scale la piccola Rosalie, che a sette anni era costretta a vedere sua madre a pezzi tenuta insieme soltanto dalle braccia di suo fratello.
È stata quella la prima volta di una lunga serie in cui tutto quello che volevo era solo tapparle occhi e orecchie ed evitarle di vedere e sentire tutte quelle urla e quelle lacrime. Ma non potevo. Allora mi sono limitato a stringerla, e tra le mie braccia ho fatto posto ad entrambe le donne della mia vita.
Con le labbra premute sui capelli profumati di Rosalie ed una mano sulla spalla di mia madre, mi sono quasi vergognato quando mi sono accorto che io non avevo bisogno di essere consolato. Io non stavo male, non ero distrutto, non avevo voglia di piangere.
Io ero sollevato.
Carlisle se n'era andato, portandosi via le sue idee del cazzo, e forse per noi la vita sarebbe migliorata, forse avremmo trovato una felicità tutta nostra, fatta di risate sguaiate e cene consumate sul divano alle nove di sera.
Ad un tratto ricordai mia madre, vista con i miei occhi di bambino. Quando ancora sorrideva, scherzava, correva. Passava interi pomeriggi a dipingere con suo figlio sulle ginocchia, canticchiando canzoni d'amore, aspettando con trepidazione il ritorno a casa del suo uomo. Ma quell'uomo negli anni è cambiato, è stato risucchiato dai soldi, dal lavoro, dalla sua merdosa clinica. E la mamma frizzante e piena di vita che conoscevo è sparita. Il tempo e il matrimonio le hanno portato via tanti piccoli pezzettini di lei, fino a lasciare soltanto un involucro, triste e vuoto. Ed io speravo che quella donna sempre entusiasta e sorridente potesse tornare, come se non se ne fosse mai andata.
Ma mi sbagliavo. Niente è migliorato, è soltanto cominciato un altro orribile capitolo della nostra vita. Un capitolo che mi ha costretto a caricarmi sulle spalle una casa e una famiglia, a fare i compiti insieme alla mia sorellina ed a ripetere le tabelline con lei. Mi ha costretto ad imparare come si fa una lavatrice, come si pagano le bollette e come si cucina un pasto per tre persone, che di solito restavano in due.
Tutto questo perché lei non ce la fa. Esme, mia madre. Da quella sera non ha più smesso di piangere, non ha più smesso di disperarsi, ha solo cambiato posto dove farlo. Dal divano si è trascinata nel letto e ci è rimasta per giorni, settimane, mesi. Si è tolta la maschera che indossava quando mio padre era qui, ma nel frattempo si era scordata come si fa a sorridere, ad accarezzare tua figlia, ad abbracciare tuo figlio. Si ricorda soltanto quanto le piace la vodka e non fa altro per tutto il giorno. Si attacca alla bottiglia, dorme, piange, torna alla bottiglia. Esce di casa soltanto quando la sua migliore compagnia si svuota ed io le urlo contro che nemmeno morto vado a comprargliela. Ecco, in quelle occasioni si sforza, si mette un giaccone sopra il pigiama ed esce nel mondo, per tornare a casa solo qualche minuto dopo, con una bottiglia piena stretta tra le mani.
Non è servito a niente scuoterla, sgridarla, ripeterle che deve farsi aiutare, che non si può scordare di essere una madre. Non è servito a niente nemmeno abbracciarla, coccolarla, consolarla.
Non serve a niente, tutto resta uguale: io con il suo vomito da lavare dal pavimento.

Lo sguardo si posa sull'orologio che porto al polso e all'improvviso i ricordi vengono spazzati via dalla paura di fare tardi: devo andare a prendere Rose a scuola.
Afferro il cappotto e le chiavi del lucchetto della bicicletta (Sì, una
bicicletta... perché naturalmente mio padre si è portato via l'unica macchina che avevamo). La stessa bici con cui l'ho portata a scuola a settembre, il primo giorno del nuovo anno scolastico. Quella mattina era una piccola forza della natura, con il suo zaino rosso sulle spalle e le guance arrossate dall'emozione. Si è rifiutata categoricamente di salire sul seggiolino attaccato al manubrio, me l'ha fatto smontare e mi ha costretto a portarla sulla canna 'perché i grandi fanno così'.
Sorrido a quel ricordo e comincio a pedalare.

Mi appoggio al grande cancello di ferro battuto proprio mentre sento suonare la campanella. Pochi secondi dopo il piazzale si riempe di un enorme sciame di bambini che escono correndo dal portone di legno scuro. Tra tutte quelle piccole teste cerco Rose e riesco a notarla perché è l'unica a non correre. Sta animatamente parlando con un suo amichetto, gesticola con foga, si sistema i lunghi capelli biondi dietro le orecchie. La guardo e non posso fare a meno di sorridere. Mi meraviglia ogni volta, ogni giorno. Con la sua spontaneità, la sua sincerità, la sua vivacità... tutto concentrato nella dolcezza di una bambina di sette anni. Appena mi scorge, in mezzo a tutti i genitori, la bocca le si spalanca in un sorriso largo quanto un abbraccio. Alza subito la sua piccola mano e la agita per salutarmi.
Ecco qual è la mia forza, ecco cos'è che mi salva dall'impazzire: quel meraviglioso sorriso.
Mi si avvicina ed io la prendo subito in braccio, sentendo le sue mani morbide circondarmi il collo. Le scompiglio i capelli, che lei si affretta a riordinare con le dita.
"Allora, principessa? Com'è andato l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze?"
"Tutto bene, come sempre." Abbassa lo sguardo, giocando con lo scollo a V della mia maglietta.
"Abbiamo fatto questo," apre una mano e mi mostra il regalino per le famiglie che fanno preparare ai bambini ogni anno. È un piccolo abete di ceramica, colorato con le tempere. "È molto più bello l'albero che abbiamo fatto noi a casa, vero Edward?" mi chiede sorridendo.
Ho fatto di tutto per prepararle un bel Natale, ho comprato tutte le decorazioni che le piacevano, l'ho sollevata per farle mettere la punta sull'albero. Voglio che ami il Natale, non voglio che lo detesti come ho sempre fatto io.
"È molto bello anche questo, Rose!"
Poi si rabbuia, il sorriso sparisce e sussurra "Ci dovevo scrivere dietro i nomi dei componenti della mia famiglia... io non sapevo cosa scrivere." L'ultima parola la sento a malapena.
Con il cuore stracolmo di tenerezza, volto subito l'alberino che stringo in una mano.
Ha scritto
Mamma, Edward, io.
"Va benissimo così, mostriciattolo. Puoi scrivere quello che vuoi!" e le stampo un bacio sulla guancia.
Mi sento strattonare i jeans con forza e abbasso lo sguardo, trovando una testa coperta di capelli a spazzola, neri come la pece.
"Mia mamma ancora non è arrivata" borbotta timidamente il bambino.
"Non ti preoccupare Emm, l'aspettiamo con te" si intromette Rose, che ha già ritrovato tutta la sua allegria. "vero, Edward?"
"Certo, certo" provo a tranquillizzare entrambi i bambini.
"Possiamo andare a giocare mentre aspettiamo la sua mamma?" mi chiede mia sorella con un sorriso.
Io non so cosa risponderle. È una delle classiche situazioni, che mi si presentano ogni giorno, in cui vorrei dirle soltanto
E io che ne so?. Ma sta a me decidere perché sono l'unico a cui può chiederlo.
Guardo il piccolo parco giochi al centro del giardino della scuola: ci sono già altri bambini, posso comunque tenerla d'occhio e non mi dispiace rimanere qui per qualche altro minuto.
"Ok, va bene."
"Siiiiiii!" urlano in coro i due bambini.
"Ma non possiamo fare tanto tardi perché prima di andare a lavoro devo preparare il pranzo per te e mamma, capito Rose?" Ma lei sta già correndo verso l'altalena, marcata stretta dal suo amico.
Poi collego il nomignolo di quel bambino ad un episodio che mi ha raccontato qualche giorno fa, così la rincorro, la fermo e le bisbiglio: "Non è quell'Emmett che vuole diventare il tuo fidanzato, vero?"
"Edwaaaaaard, zittoooo!" strilla. Si copre la faccia con le mani e continua a correre.
Sbuffo e mi rialzo lentamente, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
E, proprio mentre vago con lo sguardo per cercare una panchina su cui sedermi, la vedo.
La mia ossessione, l'unica pazzia che mi concedo, il motivo per cui venire a prendere Rose a scuola non mi pesa neanche un po': Isabella Swan, la maestra.
È appoggiata al portone della scuola, con le braccia intorno ai fianchi per proteggersi dal freddo, osserva i suoi studenti che abbracciano i genitori.
Indossa una camicetta bianca, un golfino di lana ed una gonna a vita alta che le lascia scoperte le ginocchia. Ai piedi indossa un paio di scarpe con il tacco alto.
Come sempre, lascio che la mia mente malata immagini tutto quello che non riesco a vedere: il reggiseno che indossa sotto la camicetta, il reggicalze nascosto dalla gonna, il collo liscio e profumato coperto dal colletto bianco. Sento l'uccello indurirsi, imprigionato nei jeans.
Isabella si avvicina ad una mamma, che le dice qualcosa che non riesco a capire. Lei sorride, guarda con tenerezza il bambino aggrappato alla gamba della madre e gli fa una carezza prima che si allontanino. E poi il suo sguardo cambia perché si intreccia con quello dell'unico ragazzo presente nel piazzale, che se la sta mangiando con gli occhi.
Succede sempre così, ogni mattina: i nostri occhi si cercano e sono sempre pronti a trovarsi.
Arrossisce immediatamente, abbassa la testa con uno scatto, come se volesse scacciare un pensiero. Io ne approfitto e mi avvicino.
"Salve, signorina Swan." Lei è imbarazzata, io no.
"Ciao, Edward." risponde, dopo aver schiarito la voce.
"Le va di farmi compagnia?" chiedo, sfacciato come il mio sguardo.
"Smettila, ti ho già detto mille volte di non darmi del lei!"
"Mi scusi." insisto, alzando un angolo della bocca.
Le strappo un sorriso, che le scopre i denti bianchi e perfetti. Vedo le guance imporporarsi sempre di più, gli occhi color cioccolata si illuminano. Ed ogni volta che la vedo brillare mi sembra un regalo, una piccola conquista.
Una ciocca di capelli le scivola davanti agli occhi ed io, con un riflesso pronto, allungo la mano e gliela sposto dietro l'orecchio. Nel momento esatto in cui la tocco un brivido mi percorre la schiena. Un'emozione forte che però non riesce a distrarmi dai jeans che diventano sempre più stretti e fastidiosi. Lei si allontana di un passo, intimorita dalla mia iniziativa.
Si guarda intorno, controlla che nessuno ci stia osservando. È nervosa, si morde il labbro inferiore. Un movimento che butta benzina sul mio fuoco perché non fa altro che farmi notare le sue meravigliose labbra carnose.
Vorrei avvicinarmi di nuovo, ma mi ferma la paura di esagerare. Finora ci siamo sempre scambiati qualche parola, ci siamo punzecchiati, provocati. Le ho rubato un'informazione dopo l'altra, conservandole come se potessero scappare. Ho scoperto che non è fidanzata, che ha venticinque anni, che è in città da sola perché la sua famiglia vive lontano. Parole sussurrate, sorrisi nascosti dalla timidezza, domande azzardate, ma niente contatto. Ci sfioriamo a malapena, lei non si avvicina mai abbastanza. E tutte le volte io impazzisco. Pazzia mischiata alla paura che sia tutto un gran bel film girato nella mia mente deviata.
"Io lavoro alla RoadHouse, la tavola calda in centro." azzardo, senza smettere di sorriderle. "Faccio pranzo, cena e quando posso lavoro fino a tardi. Lì non saresti costretta a guardarti intorno con la paura che qualcuno ti stia osservando. Ed io con il grembiule sono uno spettacolo da non perdere." Le rubo un altro sorriso, un'altra piccola conquista. "Passi stasera?"
Mentre io prego che mi dica sì senza pensarci neanche due volte, lei scuote la testa, lasciandosi sfuggire un sospiro.
"Sei tremendo." dice fra sé e sé, evitando i miei occhi.
"Lo so. Vieni?"
Mi scruta con il suo sguardo luminoso e i suoi pensieri indecifrabili e, mentre indietreggia verso il portone, bisbiglia: "Ci penserò."
La vedo sparire e qualche secondo dopo si dissolve anche il rumore dei suoi tacchi.
Io torno ad osservare mia sorella, che sta ordinando ad Emmett di spingere l'altalena più forte, ed intanto comincio a pensare a cosa posso tirar fuori dal frigorifero per mettere insieme un pranzo decente.


***


Mezzanotte del 23 dicembre ed io sto ancora lavorando.
Non è stata una serata troppo impegnativa: pochi clienti, poche ordinazioni, poche distrazioni. Il Natale è sempre più vicino e la gente inizia a preferire l'atmosfera intima ed accogliente delle loro case ad una tavola calda piena di sconosciuti. Di solito a quest'ora sono sempre indaffarato tra drink e spuntini notturni, ma oggi posso già cominciare a riordinare tavoli e sedie.
Jacob Black, il proprietario del locale da quando suo padre Billy è venuto a mancare, esce dal magazzino tenendosi il cappotto su una spalla.
"Cullen, stasera ti è andata bene!" grida nella mia direzione, con una voce sottile sproporzionata al suo corpo ingombrante. "Appena finisci di pulire puoi andare a casa, sei libero! Ti dispiace chiudere al posto mio?" mi chiede, con una pacca sulla spalla. Io mi lascio sfuggire un sospiro, sollevato dal pensiero che stasera potrò tornare a casa ad un orario decente e, dopo un'eternità, riuscire a dormire per più di cinque ore. O almeno provarci.
"Voglio tornare a casa prima che Leah si sia addormentata, lo sai quanto diventa insopportabile quando la faccio innervosire!" Annuisco con un sorriso tirato, anche se in realtà non ne ho idea. Io sua moglie l'ho vista solo due volte, era lontana e nemmeno mi ha rivolto parola.
Gli dico di non preoccuparsi e che può stare tranquillo. Non aggiungo che sbrigare le ultime cose senza nessuno tra i piedi sarà ancora più piacevole. Mi saluta, mi augura la buona notte ed io ricambio.
Dopo aver passato velocemente la spugna sul bancone, mi avvicino ai tavolini ed alzo una sedia per poter cominciare a spazzare. Ma non faccio in tempo ad afferrare la scopa che il campanellino attaccato alla porta comincia a suonare, seguito dal rumore di qualche passo incerto. Per un attimo resto immobile, indeciso se servire l'ultimo cliente o cacciarlo dicendogli che siamo chiusi. Il sonno che mi è sfuggito per troppe notti ha la meglio e mi volto, annunciando con tono fermo: "Mi dispiace, ma stiamo chiud-"
Le parole mi muoiono in gola quando mi trovo davanti Isabella.
Tiene le braccia incrociate sul petto, forse per il freddo, forse per l'imbarazzo. Indossa un cappotto nero, stretto in vita, che valorizza la forma dei suoi fianchi. In testa porta un delizioso cappellino di lana rosso, dal quale sbuca una morbida cascata di capelli mossi.
Proprio quando mi rendo conto che sono in silenzio da troppo tempo e che devo assolutamente trovare qualcosa da dire, è lei a parlare.
"Mi dispiace," sussurra. "è tardissimo, stai chiudendo... me ne vado."
"No," mi affretto a rassicurarla. "resta."
Faccio un passo verso di lei, prima che possa voltarsi ed andarsene. D'istinto allungo un braccio per trattenerla, ma senza nemmeno sfiorarla torno ad appoggiarlo sulla sedia quando mi accorgo che non è necessario: non si è voltata, non ha fatto un passo, non se ne vuole andare.
Tolgo la sedia dal tavolo a e gliela indico. "Siediti pure."
E allora lei sorride. Come se all'improvviso qualcuno l'avesse liberata di un macigno caricato sulle spalle, come se ad un tratto fosse più leggera, più giovane, più spensierata.
Si siede timidamente, con le mani in grembo, e quando mi passa davanti sento che profuma di buono.
"Cosa ti porto?" le chiedo gentilmente, allungandole un menù.
"Ma stavi chiudendo, non voglio disturb-"
"Che ne dici di una cioccolata calda?" la interrompo.
Lei mi guarda per un secondo che sembra un anno, scuote la testa e dopo aver liberato un respiro pesante si arrende. "Vada per la cioccolata calda!"
Raggiungo il bancone e preparo la bevanda con la testa che rischia di esplodere: voglio impiegare meno tempo possibile per poter tornare subito da lei, ma nello stesso tempo voglio impegnarmi per prepararle con cura la cioccolata più buona che abbia mai assaggiato.
Quando lei vede la tazza, ricoperta fino all'orlo con una spruzzata di panna montata, sgrana gli occhi come di solito fa Rosalie quando è felice. "È perfetta!" sussurra.
"Come fai a dirlo? Prima assaggiala!"
Mi siedo accanto a lei e la vedo avvicinarsi la tazza alla bocca. Alla sua meravigliosa, carnosa, morbida bocca. Inizio a giocherellare con le mani per distrarmi, seguo con un dito le venature del tavolo per non pensare che mi basterebbe allungarmi di un paio di centimetri per toccarla, per accarezzarla, per...
"È perfetta davvero! Ora che l'ho assaggiata lo posso dire, giusto?"
Mi lascio andare ad una risata, che aumenta quando vedo la punta del suo nasino, arrossata dal freddo, macchiata di cioccolata. Allungo l'indice e la catturo con il polpastrello, che poi succhio portandomelo alle labbra.
La vedo imbarazzata, con gli occhi velati di un'emozione che non so tradurre, e per smorzare la tensione le sorrido. Quel sorriso sghembo che tante volte ho sfoderato, ma che mai mi era sembrato così poco convincente come adesso.
"Dimmi un po'..." mormora, guardandomi dritta negli occhi, con una sicurezza che fino a pochi minuti fa non c'era. "Quante ragazzine hai conquistato con quel sorriso storto?"
Scoppio a ridere, divertito e anche un po' imbarazzato. "Non abbastanza a quanto pare."
Stringe le dita intorno alla tazza e, dal cambiamento del suo sguardo, capisco che sta per iniziare un discorso che la mette a disagio.
"Senti Edward,"
"Dimmi"
"forse ho sbagliato a venire qui o forse no, non lo so. Il problema è che nemmeno io so perché sono venuta. Ero indecisa, tu ieri mi hai invitata ed io non sapevo cosa fare... ma poi mi sono detta che due chiacchere tra amici non avrebbero fatto male a nessuno"
"Tra amici?"
"Voglio solo che tu sappia" continua, ignorandomi. "che non sono qui per quello che pensi, per quello che vuoi. Perché l'ho capito quello che vuoi. Si vede, eccome se si vede... da come mi guardi, da come mi parli. E dovresti smetterla, davvero"
"Isabella."
"È una cosa completamente sbagliata, spero che tu te ne renda conto. Io sono l'insegnante di tua sorella, capisci? L'insegnante di tua sorella! E sono un'adulta, sono una donna, molto molto più grande di te. Ed è sbagliato... anche solo essere qui è completamente sbagl-"
"Isabella." la chiamo di nuovo, posandole una mano sul braccio. "Hai parlato abbastanza, non ti pare? Ora calmati, respira e lascia parlare me."
Annuisce seria, sfuggendo al mio sguardo.
"Non mi sono fatto nessuna idea, davvero." inizio, provando a nascondere l'insicurezza che mi sta rodendo lo stomaco. "So solo che sto bene. Ora, qui, con te... sto bene. E non dobbiamo etichettarlo, dargli un nome. Come non dobbiamo dare un nome a noi due." Mi guarda con i suoi occhi grandi e lucidi, aspettando di sentire le mie prossime parole. "Stasera non sei l'insegnante di Rosalie ed io non sono il fratello di una tua alunna. Sei solo una donna incredibilmente bella che ha deciso di prendere qualcosa da bere e per sua fortuna ha trovato un cameriere con cui adora parlare. Va bene? Ci stai?"
Sospira, scrutandomi per capire se sono sincero. Quello che vede forse la convince davvero perché mi sorride ed annuisce. "Ci sto", e a me sembra di aver appena scalato una montagna.
Le ore successive scorrono sull'orologio in modo strano, particolare, emozionante. Il tempo scivola veloce ed è scandito da emozioni diverse, contrastanti, una continua lotta tra sollievo e ansia. Sollievo per ogni parola che sento uscire dalla sua bocca e ansia perché temo sempre che possa essere l'ultima. Più lei parla e più capisco che io non ne avrò mai abbastanza. Della sua voce, del suo modo delicato di gesticolare, delle sue fossette che le addolciscono il viso più di quanto sia umanamente possibile.
Mi chiede dei miei studi, vuole sapere perché ho deciso di lavorare invece di andare al college ed io libero le parole come se fossero un fiume in piena. Le racconto della mia famiglia, di mia mamma, di quanto riesco ad amare quel piccolo scricciolo biondo che anche lei vede tutte le mattine. Le dico quanto sia stata naturale, sofferta e scontata l'idea di abbandonare per un po' gli studi per stare vicino a loro, per non abbandonare le persone a cui tengo di più al mondo. Le dico cose che non ho mai detto a nessuno e per la prima volta ascolto il suono dei miei pensieri, da sempre chiusi a chiave nella testa e nel cuore.
Le racconto la mia passione, la musica. Le racconto il mio sogno, diventare un medico. E le racconto anche il mio incubo, diventare un medico come mio padre.
Lei ricambia con foga ed emozione le mie parole, il mio interesse, la mia voglia di aprirmi ed aggiunge acqua al mio fiume in piena. Completamente rapito, l'ascolto parlare di sua madre e di suo padre. Capisco, dalla voce incrinata e dagli occhi turbati, quant'è stato difficile gestire i rapporti con i genitori separati, sempre divisa tra due case, due vacanze, due caratteri e migliaia di abitudini diverse. La vedo arrossire nominando i suoi pochi e sbagliati amori e mi emoziono davanti ai suoi occhi lucidi quando mi confessa di invidiare il mio rapporto con Rosalie, il rapporto che fin da bambina ha sognato di avere con una sorella che purtroppo non ha mai avuto.
Lei parla, io ascolto e poi ci scambiamo di nuovo i ruoli, come se fosse una danza che entrambi sappiamo eseguire alla perfezione, senza sbagliare i passi e senza pestarci i piedi. E sento ogni parola accarezzarmi la pelle come se fosse medicina per le mie ferite.
Poi cominciamo a parlare del Natale, di questo Natale. Io mi mordo la lingua per non dirle che tutto quello che vorrei è un Natale sotto le coperte con lei e, mettendo da parte per l'ennesima volta i pensieri sconci, le chiedo se partirà per trascorrere le vacanze con i suoi.
"No," borbotta timida. "preferisco rimanere qui, tanto non sarebbe un bel Natale nemmeno se tornassi a casa."
"Quindi sarai da sola?" Mi si stringe il cuore immaginandola sola in casa, senza l'abbraccio di nessuno, senza nessuno con cui fare un brindisi.
"Una mia collega, Angela, mi ha invitata a casa sua per la Vigilia. Una cena tranquilla, con i suoi amici."
"Ma?"
Mi sorride complice. "Ma... non credo di andare."
"Beh, vieni da noi!" le dico, spontaneo quanto convinto.
"Cosa?!" squittisce, sgranando gli occhi.
"Non sarà nulla di formale, non ti preoccupare. Proveremo a mangiare le schifezze che cucinerò, ascolteremo un po' di musica oppure guarderemo un film, quello che vuoi." Cerco la sua approvazione con lo sguardo, ma non la trovo perché lei evita di guardarmi. "Rose sarebbe pazza di gioia, e lo sarebbe anche mia madre se riuscisse a tenere gli occhi aperti."
La vedo abbassare all'improvviso la testa, rabbuiata dalle mie parole. Quando torna a guardarmi i suoi occhi sono più duri, più scuri, non ammettono repliche.
"No, Edward." Due semplici parole ed io rotolo giù per quella montagna che con tanta fatica avevo scalato.
"Va bene, ti capisco." mi affretto a precisare, con un sorriso che spero sembri tranquillo e comprensivo.
La vedo afferrare la borsa, infilarsi il cappello, rimettersi il cappotto. Tutto sembra andare a rallentatore ed io non sono cosa fare, come fermarla. Osserva per qualche secondo la tazza vuota di fronte a lei e poi cerca me, con gli occhi di nuovo dolci e sereni.
"Grazie" sussurra emozionata. "Grazie davvero. È stata una serata perfetta."
"Di più." mormoro, sentendo spuntare il sorriso storto contro la mia volontà.
Si alza lentamente e, come un mendicante sogna una manciata di spiccioli, io mi ritrovo a sperare che mi lasci almeno un bacio sulla guancia. Patetico, lo so. Ma lei non si avvicina, resta in piedi davanti al tavolo. All'improvviso mi passa una mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più. Sento le sue piccole dita sottili che scivolano sulla mia testa e non ho il tempo di fare niente, pensare a niente, riesco a malapena a socchiudere gli occhi e a godermi l'attimo. Si allontana subito, facendo risuonare i suoi tacchi nella piccola stanza vuota, e mi saluta con un ultimo sorriso.


***


Non ho idea di come si prepari una cena per la Vigilia di Natale. Mi ricordo che mia mamma ogni anno si chiudeva in cucina per ore, lavorando sui dettagli, cercando di accontentare i gusti di tutti. Ma io non so proprio da dove partire. Oggi pomeriggio sono salito in camera sua per chiederle qualche consiglio, lei mi ha risposto barcollando fino al bagno e chiudendocisi dentro. Per fortuna ho trovato il suo ricettario e mi sono procurato gli ingredienti per cucinare qualcosa di non troppo complicato.
Sospiro e mi porto le mani alle tempie. Se non fosse per Rose a quest'ora sarei in un bar ad ubriacarmi fino a svenire.
"Edward? Tutto bene?" Sento la voce di mia sorella che mi raggiunge dalla sala da pranzo.
"Arrivo!" rispondo urlando, mentre cerco le presine per aprire il forno.
Pollo al sale grosso e patate arrosto. Spero siano meglio delle lasagne bruciate con cui abbiano iniziato.
Corro in sala da pranzo con la teglia fra le mani e, sussultando, mi blocco. È come se per un attimo riuscissi a vedere la mia famiglia dall'esterno, con gli occhi di un estraneo: una bambina con un paio di treccine bionde che dondola le sue gambette avanti e indietro sotto il tavolo, una donna trasandata con i capelli in disordine e la testa tra le mani, e un posto vuoto.
Sento una stretta al cuore e scaccio quell'estraneo che compatisce la mia famiglia. Abbandono i suoi panni e, servendo pollo e patate nei nostri tre piatti, torno ad essere Edward.
Cominciamo a mangiare ed io mi scuso fin da subito per il cibo che ancora una volta sarà disastroso.
Rosalie mi sorride divertita e rassicurante, mia madre continua a tenere lo sguardo sul piatto. Come sempre, mi viene voglia di scuoterla arrabbiarmi urlare ma, come sempre, mi mordo la lingua.
In ricordo di quanto le piacesse riempire la tavola di candele, bicchieri di cristallo, tovaglioli colorati, piatti di ogni forma, poco prima dell'ora di cena le ho chiesto di apparecchiare. L'unica cosa che le avevo chiesto di fare, l'unica. Ha accettato, sfiorandomi una mano, e per un attimo ho sperato che potesse essere una bella serata. Ma quando si è accorta che per sbaglio aveva preso piatti e posate per quattro persone è scoppiata a piangere ed è tornata ad accasciarsi sul divano.
"Bravo Edward, è buono!" commenta Rose, un po' troppo entusiasta.
Io la guardo storto, fingendomi offeso dal suo finto complimento. In realtà, sono lusingato dal suo tentativo di coccolarmi.
"A me sembra sciocco e anche un po' crudo." borbotto.
"Vabbè... sempre meglio delle lasagne!" e ridiamo insieme.
La cena trascorre così, con la voce di mia sorella che mi fa compagnia e occhiate veloci lanciate a mia madre per controllare se sta mangiando. Rose prova a coinvolgerla nei suoi discorsi, a volte ci riesce per qualche minuto, altre volte invece si arrende quando si accorge che sua madre non ha proprio voglia di parlare.
Continua a raccontarmi della scuola e dei suoi amici, giocando con le ultime patate rimaste nel piatto.
"Lo sai Edward che c'è una bambina che mi copia? È insopportabile!" Io la guardo confuso e lei continua, ancora più agguerrita. "Fa tutto quello che faccio io,
tutto! Si veste come me, si pettina come me... Se io mi faccio le treccine lei il giorno dopo, indovina un po'?, arriva a scuola con le treccine!" Butta gli occhi al cielo, allarga le braccia e scuote la testa.
"Ed è una cosa grave?" chiedo ancora più confuso, provando a ricordare se durante la mia infanzia avessi mai fatto caso a come fossero vestiti o pettinati i miei compagni di classe.
"Ceeerto!" risponde indignata, sgranando gli occhi.
Io lancio un'occhiata a mia madre, sperando che lei – da donna – riesca a capirla meglio di quanto possa fare io, ma ci sta ascoltando a malapena.
"Beh..." inizio, non sapendo bene dove andare a parare. "Secondo me la stai prendendo nel modo sbagliato!" Lei, in risposta, mi guarda come si guarda un pazzo.
"A me sembra molto semplice..." continuo. "Se ti copia vuol dire solo che le piaci. Le piace come ti vesti, come ti pettini, e – chissà – se diventi sua amica le potrai dare anche qualche consiglio. Così sarete contente tutte e due, no?"
L'espressione nei suoi occhi cambia e posso vedere il momento esatto in cui le mie parole per lei diventano credibili. Si sistema sulla sedia, con la schiena sempre più dritta, e mi sorride.
"In effetti..." sussurra orgogliosa.
Ricambio il suo sorriso e, ordinandole di finire tutte le patate che ha lasciato nel piatto, le do un leggero pizzicotto sulla guancia. Proprio mentre lei risponde con una linguaccia, mia madre rompe il suo silenzio.
"Ragazzi," sussurra, con una voce sottile che sembra sul punto di spezzarsi. "vi dispiace se mi vado a stendere sul divano?"
"Sì" rispondo veloce, senza lasciare il tempo a mia sorella di dire la sua. Rose mi guarda preoccupata e mi rendo conto che ho usato un tono un po' troppo forte. Provo ad addolcirlo ed aggiungo "Ho preparato una torta di mele seguendo una tua ricetta, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Va bene, mamma?"
Lei mi rivolge un sorriso che sembra quasi compatirmi ed io mi incazzo ancora di più.
"Perdonatemi, ragazzi... ma proprio non ce la faccio. Non mi sento molto bene." e si alza.
Io sento la testa in fiamme, un fischio nelle orecchie, la mascella tesa e mi affretto a bere un po' d'acqua per calmarmi. Quando avvicino la mano al bicchiere mi accorgo che trema, e la vede anche Rose.
"Io la mangio volentieri la torta!" mi dice.
La guardo, così piccola e forte, così dolce e sveglia. Ha gli occhi grandi e lucidi, pieni di preoccupazione.
Mi risuona nella mente la sua voce, mi specchio nel suo sorriso timido che tenta disperatamente di consolarmi e sono costretto a distogliere lo sguardo per evitare di scoppiare a piangere.

Laviamo i piatti insieme, come sempre. Io con le braccia immerse nella schiuma e lei in piedi su una sedia, pronta ad asciugare tutto quello che le passo. Canticchiamo una canzoncina insieme, io comincio il verso e lei lo finisce. Quando si stanca di cantare, mi schizza con la schiuma, balla come se fosse una cubista, finge di cadere dalla sedia per impaurirmi, non sta ferma neanche per un secondo. Poi, dopo avermi raccontato per l'ennesima volta una barzelletta sentita dal suo amico Emmett, cambia argomento.
"Secondo te la mamma vorrà giocare con noi dopo?" chiede. "Almeno un po'?"
"Non lo so." rispondo, con l'ennesima stretta al cuore.
"Forse vuole guardare un film, un cartone animato... oppure giocare a Monopoli!"
"Non lo so, tesoro."
"Speriamo!"
Sì, speriamo.

Rosalie cammina davanti a me mentre raggiungiamo la sala. La vedo zampettare fino al divano, dov'è sdraiata mamma. La raggiunge e la scuote delicatamente, chiedendole sottovoce se ha voglia di giocare con noi. Esme tentenna lentamente la testa. Preferisci guardare un film? e, oltre a ciondolare la testa, emette un lamento. Aiutandosi con il bracciolo del divano, si mette seduta e, con un filo di voce e lo sguardo perso nel vuoto, ci dice che preferirebbe salire in camera per stendersi un po' sul letto.
Ed io impazzisco.
Sento salire la rabbia e, questa volta, le permetto di esplodere. Lascio che la testa scoppi e che la vista resti appannata. Con la voce roca e la gola che raschia fino a farmi male, le rovescio addosso tutte le parole che trattenevo. Sento ogni cosa sfuggirmi dalle mani: il controllo, la ragione, il Natale che sognavo per mia sorella. Tutto viene spazzato via. Mi dimentico che accanto a me c'è Rose e lascio che la mia voce riempia la stanza.
"BASTA!" ruggisco. "BASTA! Non ne posso più, cazzo!"
Mia madre si prende subito la testa tra le mani, per evitare di sentire, ascoltare, guardare.
"Falla finita, mamma! SMETTILA! Lo so che è difficile... cazzo, lo so! Ma devi stringere i denti, devi cambiare, devi alzarti! Capito? ALZATI, PORCA TROIA!"
Mi fermo un attimo, solo per riprendere fiato. E poi torno a sovrastarla, con le urla e con il corpo.
"Qual è il problema? Eh? Quel pezzo di merda di tuo marito ti ha lasciata? PACE! Si va avanti,
tu devi andare avanti!" Le punto un dito contro, che sembra schiacciarla ancora di più sui cuscini del divano. "E se proprio non vuoi farlo per te, se proprio non vuoi pensare a te stessa, pensa a noi. A NOI, CAZZO! Noi siamo sempre qui! E ci manca nostra madre... un sorriso, una parola, una qualsiasi stronzata!"
Si alza a fatica, così stravolta da non sembrare nemmeno umana. Trema dalla testa ai piedi ed è così instabile che sembra sul punto di sbriciolarsi. Ha gli occhi gonfi, traboccanti di lacrime.
Riesce ad alzarsi e, trovandomela davanti, percepisco ancora di più la grandezza e l'arroganza del mio corpo che sovrastano il suo, così piccolo e fragile.
Ma ancora non ho finito. C'è altra rabbia, altra stanchezza, altre parole.
Questa volta le sussurro, riuscendo con sforzo a controllare la voce.
"Mi fai pena, mamma. Pena. E lo sai quanto è brutto compatire il proprio genitore? Fa schifo mamma, schifo."
Lei, per la prima volta, mi guarda negli occhi ed immediatamente mi pento di tutto quello che le ho detto. Vorrei abbracciarla, stringerla, ripeterle che andrà tutto bene, pregarla di dimenticare. Ma ormai la barriera si è alzata e le mie parole sono già indelebili, per entrambi.
Si volta e traballando raggiunge le scale. La vedo sparire dopo essersi trascinata per i gradini e, quando sento la porta sbattere, chiudo gli occhi.
Nella stanza cala il silenzio. Un silenzio pesante e scomodo che mi catapulta di nuovo nella realtà. Mi rendo conto che non sono solo, che non lo sono mai stato. Sento addosso lo sguardo di Rosalie, è come se mi bruciasse le spalle.
So che ho sbagliato. Ho urlato parole orribili a nostra madre davanti a lei, a lei che ho sempre voluto proteggere da tutto e da tutti. E, questa volta, la sto distruggendo proprio io.
Dovevo resistere, dovevo aspettare di essere solo, non dovevo perdere la testa. Dovevo farlo per Rose, per questa piccola grande bambina che non chiede altro se non una serata tranquilla e spensierata.
Sono un coglione. Un coglione. Non ho nemmeno il coraggio di voltarmi e guardarla.
Ma, dopo minuti interi di silenzio assoluto, sento avvicinarsi i suoi passi leggeri e la sua piccola mano scivola nella mia, facendo incastrare le nostre dita.
Appoggiandosi al mio fianco e alzando lentamente la testa, bisbiglia "Hai voglia di continuare il nostro puzzle?"
Io le sorrido. Sorpreso, sollevato, meravigliato, stupito. E mi limito ad annuire perché se anche solo provassi ad aprire bocca crollerei davanti a mia sorella, piangendo come un bambino.

È un puzzle enorme che portiamo avanti da un mese. Quasi tutti i pomeriggi, dopo che Rose ha finito i compiti e prima che io debba andare a lavoro, ci sediamo davanti a tutti quei piccoli pezzettini e cerchiamo di incastrarli l'uno con l'altro, cerchiamo il posto giusto per ogni tassello, come se così potessimo ordinare anche tutto il resto. Entrambi teniamo un occhio sul tavolo e uno sul coperchio della scatola, che ci mostra quella che sarà l'immagine finale: la "Notte stellata" di Van Gogh.
E, mentre ci perdiamo tra tutti quei pezzi e quegli incastri, ascoltiamo musica, proprio come stasera.
"Posso aprire i regali?" mi chiede, cercando un pezzo di cielo dello stesso colore di quello che ha in mano da cinque minuti.
Io, d'istinto, mi volto verso l'albero addobbato, sotto il quale ci sono tre pacchetti.
Uno è per mia madre: una catenina d'oro bianco con un ciondolo, su cui ho fatto incidere il mio nome e quello di mia sorella. Gli altri due sono per Rosalie: un paio di guantini di cachemire blu elettrico con una sciarpa abbinata ed un peluche quasi più grande di lei a forma di lupacchiotto. Babbo Natale, invece, le porterà un gioco per disegnare e creare modelli di vestiti. Nella scatola ci sono anche i tessuti da usare e alcune foto da cui prendere spunto. Ho visto la pubblicità in televisione e mi sembrava una cosa adatta a lei, spero di non aver sbagliato.
L'anno scorso il pavimento era pieno, i pacchi arrivavano fino al tappeto. E c'era un regalo per tutti, anche per me. Mamma li sceglieva con cura ed era più emozionata di noi quando li aprivamo, curiosa ed impaziente di vedere le nostre facce.
"No," rispondo a Rose, scacciando i ricordi. "potrai aprirli domattina, come tutti gli anni. Devi imparare ad avere pazienza!"
"Aspettare mi fa schifo!" E, con una smorfia, continua a cercare il suo pezzo di cielo.
Il mio ipod, attaccato alle casse, ci propone una canzone dopo l'altra. Rose canta quelle che conosce, salta quelle che non le piacciono, ma quando nell'aria comincia a diffondersi una delle sue canzoni preferite esulta, alza il volume, abbandona il puzzle e comincia a ballare sulla sedia. Canta, si dimena, muove a tempo braccia e gambe.
Io la guardo e rido, sentendo la mia risata riempire la stanza che fino a qualche minuto fa era piena delle mie urla. Senza smettere di agitarsi, mi ordina di alzarmi e ballare, di non essere il solito timidone. Io mi alzo e, impacciato, la prendo in braccio e la guido in uno strano e patetico valzer.
Rosalie mi scoppia a ridere nell'orecchio.
"Come sei imbranato! Questa canzone non si balla cosììì!!!" mi rimprovera, senza smettere di ridere.
Allora la faccio atterrare sul pavimento e comincio a fare il cretino, ballando con movimenti esagerati, come se fossi un ubriaco al centro della pista di una discoteca. E mentre mi dimeno, inciampo sul tappeto e cado a terra. Le risate di Rose diventano incontrollabili, si sbellica tenendosi la pancia con le mani. Io rimango disteso sul pavimento, godendomi ad occhi chiusi il suono della risata di mia sorella.
Lei mi salta addosso, mi fa il solletico, continua a ridere con le lacrime agli occhi.
Mi abbraccia, mi si aggrappa al collo con le sue piccole mani e, con parole mischiate a sorrisi, mi sussurra nell'orecchio: "Menomale ci sei tu."
Sento gli occhi bruciare, il petto gonfio di emozione, un groppo in gola che non so come sciogliere.
E, all'improvviso, la sua risata sparisce. Il divertimento se ne va e restano soltanto le lacrime. Le scivolano sulle guance, mi bagnano il collo, la maglietta. La sento sussultare, il suo corpicino scosso dal pianto si aggrappa alle mie spalle. Ed io la stringo... per darle forza, per darle amore, per darle tutto quello che spesso manca anche a me.
Mi alzo dal pavimento, senza smettere di stringerla, continuando a tenerla in braccio, e mi siedo sul divano. Rosalie si appoggia a me, con la testa tra il mio collo e la spalla. Non smette di piangere, ed io non smetto di ripeterle che andrà tutto bene.
Andrà tutto bene, scricciolo. Te lo prometto, andrà tutto bene.
Le riempio i capelli di baci, le accarezzo la schiena, la cullo, le canto 'Hey Jude' perché so che le piace. Lentamente, il respiro si calma e le spalle smettono di tremare. Riesce a rilassarsi e, sfinita, si addormenta tra le mie braccia.
Chiudo gli occhi anch'io. I colori della stanza vengono inghiottiti dal buio, le palpebre stanche trovano sollievo. E resto così, immerso nel buio, fingendo che per qualche secondo non esista nient'altro. Sento i muscoli sempre più rilassati e, abbracciato dal calore di Rosalie, mi assopisco.

Riapro gli occhi e non so quanto tempo è passato. Per un attimo resto spaesato, chiedendomi che giorno è, dove sono, quanto ho dormito. Mi passo una mano sugli occhi e sento un respiro, diverso dal mio e da quello rilassato di mia sorella.
Sul divano non siamo soli, c'è anche mia madre. Seduta accanto a me, né troppo vicina né troppo distante. Le gambe di Rosalie, che erano abbandonate sui cuscini, ora sono sulle sue cosce. Le ha tolto le scarpe e le sta massaggiando i piedi attraverso i calzini.
Ha la schiena dritta, non è accartocciata su se stessa. Ha gli occhi gonfi ed arrossati, ma asciutti e liberi dalle lacrime. Le spalle sono sempre un po' curve, schiacciate da un peso più grande di lei, ma sta provando a sorreggersi. E lo sguardo non è perso nel vuoto, ma è puntato su sua figlia.
Senza che mi guardi o mi rivolga parola, capisco che è il suo turno: è pronta a parlare, ed io sono pronto ad ascoltarla.
"So che non capisci il mio dolore," sussurra. "e so anche che Carlisle non era né un buon padre né un bravo marito. E proprio per questo è ancora più difficile spiegarti quanto mi manca."
La voce le si incrina, ma lei le impedisce di spezzarsi. Gli occhi tornano a riempirsi di lacrime, ma le lascia intrappolate, in bilico.
"So che non era presente," continua, schiarendosi la voce. "so che aveva le sue rigide regole, che non era affettuoso, che era testardo. Li ho sempre visti e riconosciuti i suoi difetti, e li vedo anche ora. Potrebbero aiutarmi a superare tutto questo... ma non è così."
Resta in silenzio, smette di parlare continuando ad accarezzare Rosalie. Poi riprende a confidarsi sottovoce, ma questa volta alza la testa e mi guarda negli occhi.
"Io lo amo, Edward. Io tuo padre l'ho sempre amato, anche quando faceva di tutto per farsi odiare. È l'amore della mia vita, sono cresciuta con lui e l'ho visto trasformarsi davanti ai miei occhi. Quando mi sentivo persa, confusa, quando non riuscivo più a capire chi ero, mi bastava guardare lui per ricordarlo. Guardavo lui, guardavo voi e sapevo di essere una moglie e una madre."
Prende il fazzoletto che tiene nella tasca del maglione e si soffia il naso. Il bene che le voglio e la tenerezza che provo mi implorano di abbracciarla, accarezzarla, dimostrarle che ho capito. Ma non mi permetto di fermare le sue parole perché so quanto ha bisogno di lasciarle libere.
"Ora lui non c'è, non posso più appoggiarmi a lui, farmi sostenere da tutto l'amore che c'è sempre stato. Ma tu hai ragione, Edward... ci siete voi. Io sono persa, confusa, non so più chi sono e, questa volta, per ricordarmelo guarderò voi, soltanto voi. E saprò di essere una madre,
vostra madre."
Una lacrima, più tenace delle altre, le scivola sulla guancia.
"So di avere un problema, un grosso problema. E so di dovermi far aiutare. Lo farò Edward, te lo prometto. So anche che vi devo chiedere scusa... sia a te che a tua sorella, ma mi devo scusare soprattutto con te. In questi mesi ho sempre avuto la vista appannata perché riuscivo a vivere soltanto così: sfocata, ovattata, lontana. Ma questo non mi impediva di vederti. Ho visto come sei, tutto quello che fai, come riesci a prenderti cura di Rose. Vedo l'uomo che stai diventando e sono così orgogliosa. Così orgogliosa, Edward."
Più vedo le lacrime che le rigano le guance, più ascolto le sue parole straziate, e più sento la mascella indurirsi. In balia di emozioni che non so controllare, mi limito a guardarla, sperando che i miei occhi parlino per me.
"Mi hai detto di alzarmi e sono pronta a farlo. Ne ho voglia, ne ho bisogno... voglio farlo per voi e per me stessa. Spero con tutte le mie forze di poter ancora rimediare, spero di non aver sprecato troppo tempo."
Guarda Rosalie, che dorme ancora su di me, e le lacrime diventano incontrollabili. Le passa una mano sui capelli, le sistema il maglioncino, le accarezza di nuovo i piedi. E poi torna a guardare me, con uno sguardo stracolmo di supplica.
"Riuscirete mai a perdonarmi?" e questa volta la voce le si spezza.
Io non parlo, non piango, non mi avvicino, non l'abbraccio. Le tendo una mano. Aperta, sicura, pronta ad accoglierla. Lei dimentica per un attimo le lacrime, sorride come se non l'avesse fatto per una vita intera e l'afferra, come se fosse un salvagente.

Quasi timidamente, mi ha detto che le piacerebbe dormire con Rosalie, averla vicino nel lettone per tutta la notte. Io ho preso in braccio mia sorella e l'ho accompagnata in camera di nostra madre.
Si è infilata sotto il piumone come se fosse il suo piccolo guscio e, appena toccato il cuscino, ha aperto leggermente gli occhi. Ha capito che non era nel suo lettino, che presto avrebbe avuto la sua mamma accanto ed ha sorriso. Fra sé e sé, senza guardare nessuno, senza dire una parola... ha sorriso.
Io sono tornato in sala, con la testa sottosopra, con la sensazione di non avere più il controllo dei miei pensieri, con la paura che la lunga e difficile giornata stesse per schiacciarmi facendomi crollare.
Ancora mi risuonano nella testa le ultime parole di mia madre: “Domattina dormi fino a tardi, non caricare la sveglia. Ti chiamo io appena il pranzo è pronto.” E, mentre la guardavo ancora incredulo, ha aggiunto “Buonanotte, tesoro. Riposati, te lo meriti.”
Parole che aspettavo da mesi e che credevo di non poter più sentire uscire dalla sua bocca.
Ad un tratto questa casa, i problemi, le lacrime, le difficoltà che ho superato e quelle che ancora mi aspettano, mi tolgono il respiro. Mi sento soffocare. È come se qualcun' altro avesse preso tutte le mie energie, tutte le mie forze, tutta la mia aria e a me non fosse rimasto altro che stanchezza. Insopportabile e faticosa stanchezza. Ho voglia di spaccare quel cazzo di albero, ho voglia di distruggere ogni maledetta decorazione, ho voglia di urlare. Tutto questo solo per non fermarmi a pensare. Tutto questo solo per
paura. Paura di illudermi ancora una volta, di credere alle parole di mia madre, di sperare che finalmente qualcosa si possa sistemare.
Sento gli occhi bruciare di nuovo, vedo le mani che tornano a tremare e comincio a camminare, compiendo gesti meccanici, con la testa vuota. L'unico pensiero è prendere aria, muovermi, respirare. Cerco il cappotto, non lo trovo e allora esco senza.
Afferro le chiavi, apro la porta e la richiudo sbattendola. Mi fermo dopo aver fatto a malapena un passo.
Lei è lì, che cammina avanti e indietro lungo il portico, che si guarda le punte dei piedi, che respira nelle mani unite a coppa per sopportare il freddo.
Sente il rumore della porta, si volta, spalanca gli occhi e si ferma anche lei.
Entrambi immobili, l'uno davanti all'altra.
Mi vede stravolto, tremante, stanco. Ed io mi lascio guardare.
Capisce quello che voglio, capisce tutto quello di cui ho bisogno e lo fa: senza parlare, senza chiedere, senza spiegare, si avvicina e mi abbraccia.
Le sue braccia sottili scivolano sui miei fianchi, mi stringe la vita, mi accarezza la schiena. Appoggia la testa sul mio petto, respirando sul maglione, coprendomi con i suoi lunghi capelli. Ed io la sento, come non ho mai sentito nessun' altro in vita mia. Sento le sue mani, le sue braccia, il suo respiro. Sento lei, e a lei mi abbandono. Mi lascio cadere nell'abbraccio, mi lascio curare dalla sua presenza, sfioro con le labbra i suoi capelli morbidi, intreccio le braccia sulle sue spalle. La tocco, la stringo, la respiro.
L'aria torna a circolare nei polmoni, la calma ricomincia a scorrermi nelle vene, il tremore della stanchezza si placa. E tutto sembra possibile: lei è qui, tra le mie braccia, la vita non può essere così difficile, forse le cose si sistemeranno davvero, forse mia madre manterrà le sue promesse, forse Rose sarà felice. Forse lo sarò anch'io.
"Isabella..." mormoro sui suoi capelli, continuando a respirare il suo profumo.
"Bella, chiamami Bella." La sento sospirare, sempre stretta tra le mia braccia, con la testa ancora appoggiata sul mio petto. "Anche stasera sono arrivata in ritardo..."
"Shhhh" e la stringo ancora più forte. "Sei qui, Bella. Sei qui."
"Ti sembrerò una pazza..."
"Mi piaci pazza."
"... è che non faccio altro che pensarti. Pensare a te, al tuo modo di parlare, di pensare, alla tua vita, alle tue scelte." Fa scorrere le mani lungo la mia schiena, mi accarezza, stringe il maglione e poi torna ad aggrapparsi ai miei fianchi. "Non dimostri l'età che hai, Edward. Forse sei anche più grande di me."
"Quindi," avvicino la bocca al suo orecchio e, sfiorandole il lobo con le labbra, sussurro "non c'è più nessun problema?"
La sento irrigidirsi, il respiro diventa irregolare, le dita si aggrappano con più forza. Non mi risponde, non apre bocca, non si muove. Le faccio scivolare una mano dietro al collo e quasi svengo al tocco della sua pelle morbida, calda, delicata. Così perfetta che riesce a superare le mie tante fantasie. Le volto la testa e in un istante i nostri occhi si trovano, come hanno sempre fatto per tante mattine. Ma questa volta non c'è vergogna, timidezza, paura di essere visti o giudicati. Ci siamo soltanto noi, le nostre mani, i nostri respiri. Abbasso la testa e appoggio la mia fronte sulla sua, sospirando di attesa, di emozione, di impazienza. La sento tremare, il respiro sempre più affannato. Lei si solleva sulle punte dei piedi, io l'afferro per i fianchi e le nostre labbra si posano l'una sull'altra. Con foga e dolcezza, con forza e delicatezza. Mi godo la morbidezza della sua bocca, la bellezza delle sue labbra carnose, la perfezione del suo bacio. Senza smettere per un attimo di toccarla, stringerla, accarezzarla. Senza smettere di respirare a pieni polmoni il profumo della sua pelle, di farmi avvolgere dal calore della sua presenza. Intreccio le dita tra i suoi capelli nel momento esatto in cui la mia lingua si intreccia alla sua. Sempre più morbida, sempre più calda, sempre più vicina. Anche le sue mani cercano i miei capelli e dopo aver viaggiato sul petto e sulle spalle li trova, tirandoli leggermente. Io mi lascio sfuggire un gemito e torno ad appoggiare la mia fronte sulla sua, per riprendere fiato, per capire se è tutto vero. Trovo i suoi occhi accesi e maliziosi e, con il cuore che batte come se volesse spaccarmi il petto, mi godo questa visione che sembra un miracolo.
"Buon Natale, signorina Swan." mormoro, senza allontanare gli occhi dai suoi.
Lei si lascia andare ad una risata, che alle mie orecchie suona come una nuova conquista, un nuovo regalo. Il mio unico, bellissimo, inatteso regalo di Natale.


  
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