Domani tutto si chiarirà
«Sono morti tutti
i conigli del re» disse Tobia. Ma nessuno lo stava ascoltando. E non perché
fosse un bambino, benché il suo papà gli avesse detto di come non tutto quello
che i bambini dicono ha motivo di essere ascoltato, ma perché la mamma e il
papà stavano dormendo. Era notte, una fredda notte di dicembre. Il vento
ululava e scuoteva le persiane. Le finestre attutivano a stento il rumore.
Tobia era in
piedi, sulla soglia della camera di mamma e papà, con una mano sulla maniglia e
un’altra a stropicciarsi gli occhi. Sbadigliò. Stiracchiò un piede. Portò il
peso da una gamba all’altra. E ritornò a dire: «Sono morti tutti i conigli del
re». Ma era piccolo, e anche la sua voce era piccola, e la mamma e il papà
dormivano, quindi dovette insistere. «Mamma. Papà» mugolò.
Qualcosa si mosse
sotto le coperte. Tobia vedeva tutto nero e sfocato, ma capì che si trattava
della mamma. La luce di una lampada illuminò il lato sinistro della stanza, e
la sagoma della sua mamma si issò sul letto. «Oh, tesoro. Hai avuto un incubo?
Vieni qui da mamma e papà. Vieni a dormire con mamma e papà».
Tobia abbandonò
la maniglia dopo qualche istante, e si diresse a tentoni verso l’alone
giallo-arancione. Non si sedette sul letto. Si sedette su una poltroncina di
lato, e ripeté: «Sono morti tutti i conigli del re». Ma la mamma non lo
ascoltò. Disse, invece: «Ti sei seduto su Kurt Vonnegut».
«Scusa, Kurt
Vonnegut». Tobia si alzò.
La mamma lo prese
in vita e lo tirò su. Lo strinse a sé come un bambolotto, e cercò di metterlo
sotto le coperte, ma Tobia le scalciò via.
«Voglio tornare
nel mio letto».
La mamma era
interdetta. «Non vuoi dormire con mamma e papà?»
Il papà mugugnò
qualcosa e si girò dall’altra parte.
«Voglio dormire
nel mio letto. Volevo solo dirvi dei conigli, mamma. Dovevate sapere».
«Hai avuto un
incubo?»
«Sono morti tutti
i conigli del re» ripeté Tobia. «Non ricordo il resto».
«Quale re?»
«Non lo so».
«Quali conigli?»
«I conigli del
re».
La mamma fece un
respiro profondo. «Sei triste?»
Tobia esitò.
«Forse. Un po’. Dove saranno ora i conigli?»
«Nel cortile sul
retro del paradiso. Vicino a un capanno pieno di carote».
«Allora non sono
triste. Se i conigli sono nel cortile sul retro del paradiso, vicino a un
capanno pieno di carote, non devo essere triste. Vero?»
«Hai ragione, tesoro».
La mamma lo baciò in testa.
«E tu, mamma?»
disse Tobia. «Sei triste?»
Stavolta fu la
mamma a esitare. Poi gli sussurrò: «Non c’è motivo per essere tristi. Se tu non
sei triste, io non sono triste».
Tobia annuì. «Mi
dispiace di avervi svegliato».
«Non
preoccuparti». Sospirò. «Papà sta ancora dormendo».
«Allora mi
dispiace di aver svegliato te».
Tobia si liberò
dall’abbraccio e balzò a terra, sulla moquette. «E se…»
«Vedrai» lo
interruppe la mamma, rimboccandosi le coperte. «Domani tutto si chiarirà. Ora
vai a dormire».
«Va bene».
«Vuoi che ti
accompagni?»
«Non serve».
Tobia raggiunse la porta. «Buonanotte, mamma».
«Buonanotte,
tesoro. Sogni d’oro».
Tobia si richiuse
la porta alle spalle, e camminò nel corridoio buio fino in camera sua. Ci mise
diversi minuti per addormentarsi – i minuti gli parvero ore. Strinse il
cuscino e cercò di ricordarsi il resto, le circostanze che avevano portato
tutti i conigli del re a morire. Non ne venne a capo. Risolse con le parole della
mamma: domani si sarebbe chiarito tutto.
Allora si
addormentò.
*
Al risveglio
Tobia rimase rannicchiato sotto le coperte. Non aveva fretta. Era piccolo, era
inverno. Poteva dormire quanto voleva.
Fu quando allungò
un piede che si accorse che era sulla sponda del letto. Si spinse verso il centro,
e andò a sbattere contro qualcosa. Si voltò. Aprì gli occhi.
Non era qualcosa. Era qualcuno. Questo qualcuno occupava metà del letto. Era girato
dall’altra parte, e Tobia lo vedeva di spalle. Non era suo padre. Non era
nessuno che conoscesse. Era un adulto, un estraneo coi piedi scalzi che
uscivano fuori dalle coperte – coperte che non erano sue, e che però si
era tirato addosso.
Tobia saltò a
terra e corse verso la porta. Non si
parla con gli estranei. È questo che gli avevano insegnato. Non gli avevano
mai detto niente sugli estranei che ti rubano le coperte.
La porta era
chiusa a chiave. Tobia ci mise l’orecchio contro: da fuori nessun rumore.
«Mamma» chiamò a
bassa voce. «Papà».
Non poteva
urlare, o l’estraneo si sarebbe svegliato. Bussò. Una volta, due. Niente.
Prese una sedia
dal tavolino dove faceva i compiti e la trascinò fino alla finestra. Ci salì
sopra. La aprì: l’aria era fredda. Aprì anche la persiana, e vide che sua madre
aveva ragione.
Si era tutto
chiarito. Aveva nevicato.
Non riusciva a
vedere niente. Era tutto bianco, di un bianco accecante. Non c’era confine tra
cielo e terra. Si sporse e guardò giù. Bianco. Nulla. Non sembrava neanche
neve. Odorava di neve, ma non sembrava neve.
L’estraneo
dormiva ancora. Tobia non se la sentiva di lanciarsi. Si mise una mano sulla
fronte. Era caldo. Si chiese se avesse la febbre, e se tra l’estraneo e la neve
fosse meglio rimanere con l’estraneo.
Rabbrividì.
Ora l’estraneo
era sveglio e lo guardava. Strizzava gli occhi come per metterlo a fuoco. Si
tirò su, facendo leva sulle braccia. Era altissimo e lunghissimo. Indossava un
pigiama come quello di Tobia, anche della stessa grandezza, che naturalmente
era corto e gli andava stretto. Tobia lo trovò buffo.
«Incredibile»
disse l’estraneo.
Aveva una voce
gutturale. Dal buffo era passato al grottesco.
Tobia non disse
niente. Avrebbe dovuto chiudere la finestra e scendere dalla sedia, ma non fece
niente di tutto ciò.
«Ha nevicato»
continuò l’estraneo. «E tu sei così piccolo».
«Ho sei anni»
replicò Tobia.
«Così piccolo»
ripeté l’estraneo, e scosse la testa. Si passò una mano fra i capelli. Si
guardò intorno. Si nascose il viso tra le mani, rise, scosse di nuovo la testa
e si lasciò cadere ancora sul letto. «Dio. Non l’avrei mai detto. Non ci avrei
mai creduto. Neanche se… Anche se…»
Si interruppe. «Vieni qui. Ti va? Parliamo un po’».
Tobia fece cenno
di no, anche se aveva freddo e cominciava a essere stanco di stare in piedi.
«Va bene» disse
l’estraneo, rimettendosi dritto. «Stai lì. Fai benissimo. Però raccontami
qualcosa».
«Sono morti tutti
i conigli del re» disse Tobia.
«Quale re?»
«Non lo so».
«Quali conigli?»
«I conigli del
re».
L’estraneo si
accarezzò il mento. «Mmm» fece. «Non… No, non importa. È un sogno, vero?»
«Sì».
«Oh» disse
l’estraneo. «Quindi ti è rimasto impresso. Chissà cosa vuol dire».
Tobia fece spallucce.
«Niente».
L’estraneo rise.
«Ah, certo, come no. Ma l’hai sognato davvero?
Cioè, com’era il sogno? C’erano tutti i conigli morti? E il re? Erano conigli
con delle corone?»
«No». Tobia
scosse la testa più volte. «No, no, no. Sono morti tutti i conigli del re.
Tutto qui».
«Come vuoi» disse
l’estraneo. «Ti dispiace? Per i conigli, dico, ti dispiace?»
«No. La mamma mi
ha detto che i conigli ora sono nel cortile sul retro del paradiso, vicino a un
capanno pieno di carote».
L’estraneo sorrise.
«Non esiste niente del genere».
Tobia strinse le
labbra e incrociò le braccia dietro la schiena.
«E saprai la
verità, e la verità ti renderà libero» borbottò l’estraneo.
Tobia non disse
nulla. L’estraneo rimase in silenzio. Poi parve illuminarsi, ed esclamò: «La
mamma!»
Saltò giù dal
letto e corse verso la porta. La trovò chiusa e sbuffò. «C’era da
aspettarselo». Guardò in basso e mosse le dita dei piedi. «Che freddo che fa.
Peccato mi sia dimenticato i calzini. E un pigiama della mia misura». Ammiccò.
«Sei venuto qui
in pigiama?» chiese Tobia.
«A quanto pare»
rispose l’estraneo. «E tu?»
«Questa è la mia
cameretta» disse Tobia. «Sono sempre stato qui».
L’estraneo
inclinò la testa di lato e sorrise. «Oh» disse. «Non lo sai, allora. Voglio
dire, non l’hai capito».
«Che cosa?»
«È la mia cameretta». L’estraneo fece spallucce.
«Camera, anzi. Le cose smettono di essere piccole quando cresci. Eccetto per
quella parte di te che non se ne va mai. Capirai. No, ho già capito».
Tobia non capì,
invece. Ma si accorse che l’estraneo ora aveva un pigiama della sua misura,
verde pallido, e anche dei calzini. Non si era cambiato. L’aveva sempre tenuto
d’occhio. Era comparso così. E anche lui, Tobia, aveva lo stesso pigiama verde
pallido, non della sua taglia. Le braccia e le gambe del pigiama toccavano la
sedia, che ora era diventata grande come quelle della sala, o della cucina, o
dei posti degli adulti.
Tobia si sentì
piccolo e indifeso. La cameretta era cambiata. C’erano corse diverse. Scaffali,
libri, poster.
Vertigine.
«Oooh, reggiti!»
esclamò l’estraneo.
«Sto bene». Tobia
si aggrappò allo schienale della sedia e si sedette. «Sto bene». Mosse i piedi
avanti e indietro, sotto le gambe del pigiama. Era divertente.
Quando rialzò lo sguardo
l’estraneo era seduto sulla sponda del letto e lo fissava.
«È ora» disse.
«Per cosa?»
«È ora che tu
vada» aggiunse l’estraneo. Abbozzò un sorriso.
«Dove?»
La porta era
chiusa. Se l’avesse aperta se ne sarebbe accorto. Non poteva andare da nessuna
parte.
«Fuori».
«Mi sa che ho la
febbre» disse Tobia. «E la mamma non mi fa uscire quando ho la febbre».
«Non importa».
Indicò la finestra. «Vai».
«Ma c’è la neve!»
insisté Tobia. «Non posso… Non voglio. Perché?»
«Perché oggi è la
fine del mondo».
Tobia chinò la
testa. Allungò prima una gamba, poi l’altra.
«Chi sei tu?»
chiese.
«Sono te» rispose
l’estraneo. «Tra qualche anno, ma sono te».
«Se tu sei me»
continuò Tobia, la voce che tremava, «allora io chi sono?»
L’estraneo aprì
la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò. Alla fine disse: «Frutto della mia
immaginazione. Me da piccolo. Quella parte di me che finisce oggi».
Tobia tirò su col
naso.
«Lo so che è
dura» riprese l’estraneo. «Ma non sarà niente di brutto. Vedrai».
«Ci sei stato?»
chiese Tobia.
«Dove?»
«Alla fine del
mondo».
«Non ancora».
«Mi accompagni?»
L’estraneo fece
un respiro profondo. «Per un po’ sì».
Tobia spostò la
sedia contro il muro. Ci salì sopra e si arrampicò sul davanzale. Era
ghiacciato. Appallottolò le braccia del pigiama in più e le strinse nel pugno.
La neve era
arrivata fino al davanzale. Non era soffice. Tobia gattonò dritto, creando
piccoli solchi sotto il suo peso.
C’era il silenzio
assoluto.
«Non vedo nulla»
disse Tobia.
«Non c’è nulla»
disse l’estraneo.
Era seduto sul
davanzale. Non sembrava intenzionato a muoversi.
«Pensavo mi
accompagnassi» disse Tobia.
«Non più di così.
Non posso. Devi andare da solo».
Tobia ansimò. «Ho
freddo».
«Non importa».
«Dove devo
andare?»
«Continua dritto»
disse l’estraneo. «Finché la casa non scompare».
«E poi?»
«Non lo so».
Tobia annuì.
«Quando la vedi» disse tornando a gattonare, «di’ alla mamma che è come diceva
lei. È tutto chiaro».
L’estraneo non
rispose.
Molto tempo dopo
Tobia si guardò intorno. Non c’era nulla. La neve aveva cancellato tutto. Non
restava più nulla.