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Autore: Eustachio    21/12/2010    4 recensioni
«Voglio dormire nel mio letto. Volevo solo dirvi dei conigli, mamma. Dovevate sapere».
«Hai avuto un incubo?»
«Sono morti tutti i conigli del re» ripeté Tobia. «Non ricordo il resto».
«Quale re?»
«Non lo so».
«Quali conigli?»
«I conigli del re».
[Ventunesima storia nel Calendario dell'Avvento 2010 di Fanworld.]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Domani tutto si chiarirà

«Sono morti tutti i conigli del re» disse Tobia. Ma nessuno lo stava ascoltando. E non perché fosse un bambino, benché il suo papà gli avesse detto di come non tutto quello che i bambini dicono ha motivo di essere ascoltato, ma perché la mamma e il papà stavano dormendo. Era notte, una fredda notte di dicembre. Il vento ululava e scuoteva le persiane. Le finestre attutivano a stento il rumore.

Tobia era in piedi, sulla soglia della camera di mamma e papà, con una mano sulla maniglia e un’altra a stropicciarsi gli occhi. Sbadigliò. Stiracchiò un piede. Portò il peso da una gamba all’altra. E ritornò a dire: «Sono morti tutti i conigli del re». Ma era piccolo, e anche la sua voce era piccola, e la mamma e il papà dormivano, quindi dovette insistere. «Mamma. Papà» mugolò.

Qualcosa si mosse sotto le coperte. Tobia vedeva tutto nero e sfocato, ma capì che si trattava della mamma. La luce di una lampada illuminò il lato sinistro della stanza, e la sagoma della sua mamma si issò sul letto. «Oh, tesoro. Hai avuto un incubo? Vieni qui da mamma e papà. Vieni a dormire con mamma e papà».

Tobia abbandonò la maniglia dopo qualche istante, e si diresse a tentoni verso l’alone giallo-arancione. Non si sedette sul letto. Si sedette su una poltroncina di lato, e ripeté: «Sono morti tutti i conigli del re». Ma la mamma non lo ascoltò. Disse, invece: «Ti sei seduto su Kurt Vonnegut».

«Scusa, Kurt Vonnegut». Tobia si alzò.

La mamma lo prese in vita e lo tirò su. Lo strinse a sé come un bambolotto, e cercò di metterlo sotto le coperte, ma Tobia le scalciò via.

«Voglio tornare nel mio letto».

La mamma era interdetta. «Non vuoi dormire con mamma e papà?»

Il papà mugugnò qualcosa e si girò dall’altra parte.

«Voglio dormire nel mio letto. Volevo solo dirvi dei conigli, mamma. Dovevate sapere».

«Hai avuto un incubo?»

«Sono morti tutti i conigli del re» ripeté Tobia. «Non ricordo il resto».

«Quale re?»

«Non lo so».

«Quali conigli?»

«I conigli del re».

La mamma fece un respiro profondo. «Sei triste?»

Tobia esitò. «Forse. Un po’. Dove saranno ora i conigli?»

«Nel cortile sul retro del paradiso. Vicino a un capanno pieno di carote».

«Allora non sono triste. Se i conigli sono nel cortile sul retro del paradiso, vicino a un capanno pieno di carote, non devo essere triste. Vero?»

«Hai ragione, tesoro». La mamma lo baciò in testa.

«E tu, mamma?» disse Tobia. «Sei triste?»

Stavolta fu la mamma a esitare. Poi gli sussurrò: «Non c’è motivo per essere tristi. Se tu non sei triste, io non sono triste».

Tobia annuì. «Mi dispiace di avervi svegliato».

«Non preoccuparti». Sospirò. «Papà sta ancora dormendo».

«Allora mi dispiace di aver svegliato te».

Tobia si liberò dall’abbraccio e balzò a terra, sulla moquette. «E se…»

«Vedrai» lo interruppe la mamma, rimboccandosi le coperte. «Domani tutto si chiarirà. Ora vai a dormire».

«Va bene».

«Vuoi che ti accompagni?»

«Non serve». Tobia raggiunse la porta. «Buonanotte, mamma».

«Buonanotte, tesoro. Sogni d’oro».

Tobia si richiuse la porta alle spalle, e camminò nel corridoio buio fino in camera sua. Ci mise diversi minuti per addormentarsi – i minuti gli parvero ore. Strinse il cuscino e cercò di ricordarsi il resto, le circostanze che avevano portato tutti i conigli del re a morire. Non ne venne a capo. Risolse con le parole della mamma: domani si sarebbe chiarito tutto.

Allora si addormentò.

 

*

 

Al risveglio Tobia rimase rannicchiato sotto le coperte. Non aveva fretta. Era piccolo, era inverno. Poteva dormire quanto voleva.

Fu quando allungò un piede che si accorse che era sulla sponda del letto. Si spinse verso il centro, e andò a sbattere contro qualcosa. Si voltò. Aprì gli occhi.

Non era qualcosa. Era qualcuno. Questo qualcuno occupava metà del letto. Era girato dall’altra parte, e Tobia lo vedeva di spalle. Non era suo padre. Non era nessuno che conoscesse. Era un adulto, un estraneo coi piedi scalzi che uscivano fuori dalle coperte – coperte che non erano sue, e che però si era tirato addosso.

Tobia saltò a terra e corse verso la porta. Non si parla con gli estranei. È questo che gli avevano insegnato. Non gli avevano mai detto niente sugli estranei che ti rubano le coperte.

La porta era chiusa a chiave. Tobia ci mise l’orecchio contro: da fuori nessun rumore.

«Mamma» chiamò a bassa voce. «Papà».

Non poteva urlare, o l’estraneo si sarebbe svegliato. Bussò. Una volta, due. Niente.

Prese una sedia dal tavolino dove faceva i compiti e la trascinò fino alla finestra. Ci salì sopra. La aprì: l’aria era fredda. Aprì anche la persiana, e vide che sua madre aveva ragione.

Si era tutto chiarito. Aveva nevicato.

Non riusciva a vedere niente. Era tutto bianco, di un bianco accecante. Non c’era confine tra cielo e terra. Si sporse e guardò giù. Bianco. Nulla. Non sembrava neanche neve. Odorava di neve, ma non sembrava neve.

L’estraneo dormiva ancora. Tobia non se la sentiva di lanciarsi. Si mise una mano sulla fronte. Era caldo. Si chiese se avesse la febbre, e se tra l’estraneo e la neve fosse meglio rimanere con l’estraneo.

Rabbrividì.

Ora l’estraneo era sveglio e lo guardava. Strizzava gli occhi come per metterlo a fuoco. Si tirò su, facendo leva sulle braccia. Era altissimo e lunghissimo. Indossava un pigiama come quello di Tobia, anche della stessa grandezza, che naturalmente era corto e gli andava stretto. Tobia lo trovò buffo.

«Incredibile» disse l’estraneo.

Aveva una voce gutturale. Dal buffo era passato al grottesco.

Tobia non disse niente. Avrebbe dovuto chiudere la finestra e scendere dalla sedia, ma non fece niente di tutto ciò.

«Ha nevicato» continuò l’estraneo. «E tu sei così piccolo».

«Ho sei anni» replicò Tobia.

«Così piccolo» ripeté l’estraneo, e scosse la testa. Si passò una mano fra i capelli. Si guardò intorno. Si nascose il viso tra le mani, rise, scosse di nuovo la testa e si lasciò cadere ancora sul letto. «Dio. Non l’avrei mai detto. Non ci avrei mai creduto. Neanche se… Anche se…» Si interruppe. «Vieni qui. Ti va? Parliamo un po’».

Tobia fece cenno di no, anche se aveva freddo e cominciava a essere stanco di stare in piedi.

«Va bene» disse l’estraneo, rimettendosi dritto. «Stai lì. Fai benissimo. Però raccontami qualcosa».

«Sono morti tutti i conigli del re» disse Tobia.

«Quale re?»

«Non lo so».

«Quali conigli?»

«I conigli del re».

L’estraneo si accarezzò il mento. «Mmm» fece. «Non… No, non importa. È un sogno, vero?»

«Sì».

«Oh» disse l’estraneo. «Quindi ti è rimasto impresso. Chissà cosa vuol dire».

Tobia fece spallucce. «Niente».

L’estraneo rise. «Ah, certo, come no. Ma l’hai sognato davvero? Cioè, com’era il sogno? C’erano tutti i conigli morti? E il re? Erano conigli con delle corone?»

«No». Tobia scosse la testa più volte. «No, no, no. Sono morti tutti i conigli del re. Tutto qui».

«Come vuoi» disse l’estraneo. «Ti dispiace? Per i conigli, dico, ti dispiace?»

«No. La mamma mi ha detto che i conigli ora sono nel cortile sul retro del paradiso, vicino a un capanno pieno di carote».

L’estraneo sorrise. «Non esiste niente del genere».

Tobia strinse le labbra e incrociò le braccia dietro la schiena.

«E saprai la verità, e la verità ti renderà libero» borbottò l’estraneo.

Tobia non disse nulla. L’estraneo rimase in silenzio. Poi parve illuminarsi, ed esclamò: «La mamma!»

Saltò giù dal letto e corse verso la porta. La trovò chiusa e sbuffò. «C’era da aspettarselo». Guardò in basso e mosse le dita dei piedi. «Che freddo che fa. Peccato mi sia dimenticato i calzini. E un pigiama della mia misura». Ammiccò.

«Sei venuto qui in pigiama?» chiese Tobia.

«A quanto pare» rispose l’estraneo. «E tu?»

«Questa è la mia cameretta» disse Tobia. «Sono sempre stato qui».

L’estraneo inclinò la testa di lato e sorrise. «Oh» disse. «Non lo sai, allora. Voglio dire, non l’hai capito».

«Che cosa?»

«È la mia cameretta». L’estraneo fece spallucce. «Camera, anzi. Le cose smettono di essere piccole quando cresci. Eccetto per quella parte di te che non se ne va mai. Capirai. No, ho già capito».

Tobia non capì, invece. Ma si accorse che l’estraneo ora aveva un pigiama della sua misura, verde pallido, e anche dei calzini. Non si era cambiato. L’aveva sempre tenuto d’occhio. Era comparso così. E anche lui, Tobia, aveva lo stesso pigiama verde pallido, non della sua taglia. Le braccia e le gambe del pigiama toccavano la sedia, che ora era diventata grande come quelle della sala, o della cucina, o dei posti degli adulti.

Tobia si sentì piccolo e indifeso. La cameretta era cambiata. C’erano corse diverse. Scaffali, libri, poster.

Vertigine.

«Oooh, reggiti!» esclamò l’estraneo.

«Sto bene». Tobia si aggrappò allo schienale della sedia e si sedette. «Sto bene». Mosse i piedi avanti e indietro, sotto le gambe del pigiama. Era divertente.

Quando rialzò lo sguardo l’estraneo era seduto sulla sponda del letto e lo fissava.

«È ora» disse.

«Per cosa?»

«È ora che tu vada» aggiunse l’estraneo. Abbozzò un sorriso.

«Dove?»

La porta era chiusa. Se l’avesse aperta se ne sarebbe accorto. Non poteva andare da nessuna parte.

«Fuori».

«Mi sa che ho la febbre» disse Tobia. «E la mamma non mi fa uscire quando ho la febbre».

«Non importa». Indicò la finestra. «Vai».

«Ma c’è la neve!» insisté Tobia. «Non posso… Non voglio. Perché?»

«Perché oggi è la fine del mondo».

Tobia chinò la testa. Allungò prima una gamba, poi l’altra.

«Chi sei tu?» chiese.

«Sono te» rispose l’estraneo. «Tra qualche anno, ma sono te».

«Se tu sei me» continuò Tobia, la voce che tremava, «allora io chi sono?»

L’estraneo aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò. Alla fine disse: «Frutto della mia immaginazione. Me da piccolo. Quella parte di me che finisce oggi».

Tobia tirò su col naso.

«Lo so che è dura» riprese l’estraneo. «Ma non sarà niente di brutto. Vedrai».

«Ci sei stato?» chiese Tobia.

«Dove?»

«Alla fine del mondo».

«Non ancora».

«Mi accompagni?»

L’estraneo fece un respiro profondo. «Per un po’ sì».

Tobia spostò la sedia contro il muro. Ci salì sopra e si arrampicò sul davanzale. Era ghiacciato. Appallottolò le braccia del pigiama in più e le strinse nel pugno.

La neve era arrivata fino al davanzale. Non era soffice. Tobia gattonò dritto, creando piccoli solchi sotto il suo peso.

C’era il silenzio assoluto.

«Non vedo nulla» disse Tobia.

«Non c’è nulla» disse l’estraneo.

Era seduto sul davanzale. Non sembrava intenzionato a muoversi.

«Pensavo mi accompagnassi» disse Tobia.

«Non più di così. Non posso. Devi andare da solo».

Tobia ansimò. «Ho freddo».

«Non importa».

«Dove devo andare?»

«Continua dritto» disse l’estraneo. «Finché la casa non scompare».

«E poi?»

«Non lo so».

Tobia annuì. «Quando la vedi» disse tornando a gattonare, «di’ alla mamma che è come diceva lei. È tutto chiaro».

L’estraneo non rispose.

Molto tempo dopo Tobia si guardò intorno. Non c’era nulla. La neve aveva cancellato tutto. Non restava più nulla.

   
 
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