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Autore: Silvar tales    24/12/2010    10 recensioni
Continuavo a sfidarlo, sprezzante della vita. Tutto ciò che potevo perdere, l'avevo perso. Ed era sempre lui il mio avversario.
L'impassibile gigante.
«...»
Guardavo il cielo.
«Buon Natale, Stella».

[Prima classificata al "Buon Natale! - Flash Contest" indetto da Shark Attack]
[Partecipante alla challenge "Le situazioni di lui & lei" indetta da Starhunter] [#15 death!fic]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara | Coppie: Sasori/Deidara
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Sasori & Deidara - The Great Revival'
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Sassongher
[#15 death!fic]




La corda tirava.
Tirava e la potevo vedere con i miei occhi, che raschiava contro la roccia.
Tremava, schioccava e, così velocemente, si spezzava.
«No, no, no!»
Poche parole, prima che potessi rendermene conto, di lui che mi scivolava dalle dita, mentre la mia imbragatura mi donava una seconda volta la vita incastrandosi nello sperone.
I suoi occhi che fuggivano, sparendo nel vuoto.


Sasori si svegliò nel buio, circondato dal proprio respiro ansante.
Si ritrovò immerso nel silenzio di una notte piena di stelle, abbracciato dal freddo della sua solitaria stanza intagliata.
Un respiro, un altro ancora.
Poi lo capì, di essere tornato alla realtà.
Di aver vissuto il sogno, quel sogno che apparteneva al suo passato, che era stato fin troppo reale.
Lasciò che quelle immagini, ormai sgradevolmente familiari, lo invadessero ancora una volta, scavandogli una buca nello stomaco.
Si ripiegò su se stesso per i moti di colpa, che ormai aveva consumato e logorato da poco meno di una vita.
Il pigiama si faceva tremendamente stretto, e il senso di soffocamento lo assaliva ancora per pochi attimi, in cui il sudore che ardeva sulla fronte gelava, scuotendolo da capo a piedi di brividi ghiacciati.
Era tutto normale, gli accadeva una volta a settimana.
Dopo che quegli attimi passavano, ritornava con la testa sul cuscino, adagiando il torace e respirando l'aria nevosa del sottotetto.
Versava due lacrime di rito, crogiolandosi nel suo attimo di dolce annegamento, poi fortunatamente il sonno lo coglieva. E con tutto il resto faceva i conti la mattina dopo.
Si sdraiò nuovamente sul letto, cercando di mettere a tacere i martellamenti sanguigni che gli venavano le tempie. Chiuse gli occhi, sorridendo senza motivo, sentendo la consueta lacrima scivolargli di fianco al naso. Fece silenzio, e nel suo silenzio avvertì finalmente quel rumore estraneo, che nell'agitazione di prima non aveva neppure notato.
Le campane.
Le sentiva, ovattate dalla morbida montagna di stoffa del cuscino.
I rintocchi regolari del campanile di Corvara sentenziavano l'intero paesello.
Lo sapeva che giorno era.
Sapeva quale festa ricorreva, che già i bambini pregustavano, e che si stava preparando in tutte le case.
Una festa a cui lui non era invitato, a cui comunque non avrebbe preso parte.
Molte cose avevano perso il sapore della loro importanza, ammazzate da un altro gusto molto più forte e amaro, che ormai impregnava come veleno ogni suo respiro e gesto.
Le campane, ancora.
Un sottofondo invadente del suo silenzio, o meglio, un diversivo per distrarlo dai pensieri che gli ronzavano con cattiveria in testa.


*




Affrettava i passi sulle vie coperte di neve mogia, divenuta ormai grigia e irriconoscibile agli angoli delle strade.
Era la mattina di Natale.
Quel paese turistico così acceso e colorato, se possibile ancora più del solito durante le feste natalizie, era un vero gioiello di ori e cristalli.
Gli sciatori attraversavano a piedi le vie del centro per giungere da un impianto di risalita all'altro, con i loro scarponi pesanti, le loro tute di ultima generazione e un sorriso a denti bianchi stampato in volto.
Corvara era una meraviglia, baciata dal sole invernale e circondata da pendii sepolti da metri e metri di neve luccicante. Era dominata dal gruppo montuoso del Puez, uno dei più spettacolari e imponenti della val Badia, che vantava inoltre una cima davvero ambiziosa e particolare.
L'ombra del colosso dolomitico del Sassongher, la cui parete sud torreggiava fredda e austera sull'intero raggruppamento di case, assoggettava inquietante e solenne ben due paesi: Corvara e il vicino Colfosco.
Sasori si fermò ancora una volta a fissare la montagna che ammiccava verso di lui, sfidandolo in verso complice. Contava 2.665 metri, e lui li aveva percorsi tutti, fino ad arrivare sul tetto del mondo.
La ignorò, omaggiando però silenziosamente l'antico sfidante, aggiungendo ulteriore amarezza sul cuore già appesantito.
Giunse fin davanti alla piazza che circondava la chiesa principale, affollata come non mai.
Doveva essere appena terminata la funzione di mezzogiorno, ed ora le famiglie si avviavano allegramente alle loro case dove il pranzo di Natale le attendeva.
Il ragazzo ignorò la calca, sgusciando tra le viuzze per evitare il sovraffollamento dei turisti eccitati che vagavano a bocca aperta, non sapendo se puntare il naso all'insù per godersi lo spettacolo dei massicci dolomitici innevati, o se abbassare lo sguardo per riempirsi gli occhi delle luci delle vetrine. Sasori guardava con un mezzo sorriso quelle scene che si ripetevano ogni anno, vedendo negli occhi stupiti dei villeggianti infinita ammirazione per quello spettacolo. Per quei giganti di roccia che si insanguinavano al tramonto, si spolveravano di zucchero l'inverno e diventavano roventi nicchie d'estate.
Non conoscevano quelle montagne un decimo di quanto le conosceva lui.
Svoltò l'angolo di una via secondaria, per poi fermarsi davanti all'insegna di un negozietto familiare.
L'aveva sempre adorato, fin da bambino. I gestori di nuova generazione - quelli della precedente erano stati contadini, prima che quei luoghi venissero riscoperti come meta di attrazione turistica - erano amici di vecchia data dei suoi genitori. Entrò senza un attimo di esitazione, non stupendosi nemmeno del fatto che un negozio fosse aperto quel giorno a quell'ora.
«Guten morgen», disse Sasori salutando l'uomo dietro al bancone, abbozzando un sorriso e scuotendo infreddolito le spalle per la ventata di calore che l'aveva accolto.
«Buongiorno, Sasori, auguri!» Il ragazzo ricambiò, distogliendo poi lo sguardo dagli occhi del gestore e ritirando il sorriso forzato, per dedicarsi ai numerosi scaffali che affollavano le pareti.
Vi erano esposti gingilli di ogni tipo, ma ognuno con il suo definito valore. Preziose statuine di legno intagliato a mano, numerose candele variopinte e profumate ai frutti di bosco, e poi tanti articoli natalizi, tutti realizzati artigianalmente.
Sasori restò indeciso a fissare gli oggettini esposti per dieci buoni minuti; come sempre non sapeva quale scegliere: erano tutti sfiziosi e curati nei minimi dettagli. Vagava da uno scaffale all'altro, scostando gentilmente gli altri clienti che nel frattempo erano arrivati, prendendo prima una boccettina di vetro riempita di neve finta, poi un cerbiatto di legno riprodotto favolosamente. Riponendoli poi entrambi.
Non aveva ancora trovato niente di significativo, che gli dicesse qualcosa di più.
Stava quasi per rassegnarsi, quando qualcos'altro attirò la sua attenzione.
Vide, in un angolo, quasi come fossero dei pezzi rotti o scartati, delle figure di pasta di sale dalle forme grossolane e semplici, gettate alla rinfusa in una scatola di cartone.
«Ah, quelli...» intervenne il negoziante avvicinatosi a Sasori, con un tono divertito e noncurante. «Sono stati fatti dai bambini delle scuole, qui. Mia figlia più piccola ha insistito tanto perché io provassi a venderli, voleva vederli appesi negli alberi di Natale della piazza e delle case degli amici. Lasciali stare, non è che te li voglia rifilare per davvero...» e rise, amichevolmente.
Sasori gli rivolse anch'egli una mezza risata, per niente convinta, ma volle lo stesso guardare quei lavoretti che l'avevano attirato.
Incuriosito tirò verso di sé il contenitore. C'erano un abete, decorato da festoni di cartapesta, con una sorridente bocca rossa adornata di due occhioni guardinghi; una capanna stilizzata con della paglia secca a mimare il tetto e con uno sfondo celeste che si intravedeva dalla finestrella; numerosi fiocchi argentati o dorati, oppure resi di altri colori da tocchi di pennellaccio.
E poi c'era una stella cometa.
Sasori la prese in mano, avvicinandola al viso per guardarla meglio, ispirandone l'odore familiare di pasta di sale che l'aveva accompagnato da bambino, nei lunghi pomeriggi a scuola in cui adorava cospargersi le mani di colla vinavil e sporcarsi i gomiti e il viso di colori a tempera.
Una cometa di sale, che pareva un biscotto dalla consistenza. Aveva forme semplici e ritagliate in modo grezzo. La coda era decorata di brillantina e di ombre di colore, a suo modo era elegante, anche se stupendamente infantile. Quella stella, affiancata al resto, dava l'idea di saperla lunga su cosa fosse il Natale, sulle emozioni che si vedevano riflesse negli occhi dell'innocenza.
«La prendo... prendo questa. È in vendita, vero?» chiese titubante Sasori, avviatosi al bancone con la sua stella cometa in mano. Il negoziante guardò stupito prima lui, poi l'oggettino che gli porgeva. «In vendita? Te la regalo, Sasori».
Il ragazzo sorrise appena, imbarazzato. «Grazie, allora».
L'uomo l'osservò guardingo da sotto gli occhiali, cercando di decifrare quella misteriosa espressione che tutte le volte compariva sul suo volto, celata sempre da quel sorrisetto di circostanza.
«Dì un po' Sasori, non è un po' tardi per gli addobbi natalizi?» scherzò il negoziante.
«Addobbi natalizi? Di che stai parlando... io oggi salgo».
A quell'affermazione, l'uomo strabuzzò gli occhi, incredulo.
«Cosa? E dove vai?» «Volevo giusto venire a comperare un moschettone di riserva, se ne hai», ribatté Sasori critico, ignorando la sua reazione, anche se più che comprensibile.
«Moschettoni? Ah, sì, dovrei...» detto questo, il gestore sparì nel retro, con un'aria piuttosto turbata. Sasori nel frattempo sistemò la fragile stella nella tasca interna della giacca, sospirando.
L'uomo apparse un minuto dopo. Stringeva in pugno una corda a cui erano agganciati una decina moschettoni, di forme e chiusure differenti.
Sasori li esaminò mezzo secondo, individuando immediatamente quello che faceva al caso suo, sganciandolo dalla corda e poggiandolo sul bancone. «Ecco, è tutto» e, mentre era impegnato a stampare lo scontrino fiscale, il negoziante riprese l'argomento.
«Ancora Sassongher, Sasori?»
Il ragazzo annuì, inespressivo, sentendo a quel nome una fitta allo stomaco.
Era ancora lui il suo sfidante, il suo amante complice.
«Il valico è chiuso dalla neve, che giro intendi fare?»
Sasori alzò le spalle. Cominciava ad irritarsi.
Che ostacolo sarebbe stato per lui, la neve?
«Oggi è Natale, vado a trovarlo. Non posso mancare oggi». Furono le sue parole di congedo, che pose in maniera che il gestore non capisse che non si riferiva alla montagna, stavolta.
Certo non poteva fare il collegamento con ciò che era successo tre anni fa, non poteva ricordarsi di quel ragazzo.
D'altronde, incidenti del genere non erano certo una novità in quelle zone, frequentate da tanti turisti inesperti e sprovveduti che si credevano di poter sfidare il suo gigante, che credevano di conoscerlo a menadito.
«Aufiedersen».
«Aufiedersen, frohe Weihnachten!»
Chiuse la porta, digrignando istintivamente i denti, lasciando dietro di sé il rumore di campanelli che annunciava il cliente.


*




«Partiamo oggi?»
Azzardò, sapendo già che avrei dissentito, circondandomi per questo più amorevolmente con le braccia.
«No Deidara, oggi no».
«No? È il mio compleanno! Quest'anno voglio affrontarlo anch'io».
Roteai la testa, impaziente, lasciandomi confondere dai suoi baci, cercando contemporaneamente di non farmi convincere da quel trucchetto.
«Non sei ancora pronto».

«Non mi hai dato mai retta, eh?» bisbigliò il ragazzo, mentre chiudeva la porta di casa. Si trattenne un secondo di più sul terrazzo d'ingresso, controllando che avesse tutto con sé. Dopo che si fu assicurato di non aver dimenticato nulla, partì, attraversando le vie di Corvara ancora imbandite di luci e gioiosi chiacchiericci. Anche questo Natale il cielo era sereno, e la neve non ne voleva sapere di imbiancare la valle di un ulteriore velo. Sarebbe stato anche bello, per quell'occasione...
Camminò in fretta e a testa bassa, cercando di evitare gli sguardi dei passanti eccitati che si dirigevano verso la pista di pattinaggio, oppure in pizzerie e locali. C'erano addirittura ancora degli sciatori instancabili che si accingevano a fare la discesa notturna sulla pista illuminata.
Sasori attraversava così il paese velocemente, senza condividere un minimo la gioia di quelle esagerate decorazioni, prive di alcun calore o familiarità. Cercò di non incrociare nessun curioso o nessun conoscente che, ad esempio, gli chiedesse il perché dello zaino da trekking e dei ramponi.
Alzò gli occhi verso il cielo, quando si trovò fuori dalle vie principali. Il crepuscolo metteva in evidenza la sagoma scura del suo assiduo sfidante.
«Certo, lo so che mi aspetti».
L'amava, e l'odiava con tutto se stesso.

«Diciott'anni... tanti auguri Deidara!»
Gli scompigliai i capelli, scoccandogli un bacio sulla guancia.
Non ero mai stato un tipo tanto affettuoso, per cui gesti di questo genere erano rari da parte mia, ma lui li apprezzava proprio per questo. Perché diventavano preziosi.
«Ora posso veramente fare quello che voglio...»
«Già, ma non esagerare!»
Esclamò un ragazzo, uno dei tanti invitati, con la bocca piena di torta.
«Avanti, cosa vorresti fare, Dei?»
Chiesi scherzoso, ridendo, e intanto facendo la conta delle innumerevoli cose che già aveva il biondino, domandandomi quindi quale oggetto, libertà o privilegio avrebbe mai potuto desiderare.
Deidara si fermò un attimo, incerto, come se stesse riflettendo apertamente su qualcosa.
«Dai, dillo al tuo ragazzo, fagli spendere un po' di soldi...!»
Disse qualcuno nel gruppo, seguito dalle risate degli altri, incitando il festeggiato a rivelare i suoi desideri.
Diciott'anni, tutto diventava possibile.
Deidara si girò verso di me, guardandomi convinto in faccia, con quella sua tipica aria testarda che, tuttavia, amavo.
«Sasori, portami sul Sassongher...»


«Insegnami a volare»
.
Così disse.
Conficcò con forza i ramponi sul terreno ghiacciato, osservando continuamente la bussola. Fortunatamente, non tirava vento e non nevicava, anche se il freddo era glaciale.
Era giunto all'incirca all'altitudine di duemila metri, constatò liberando dalla neve il cartello di segnalazione di inizio della via ferrata (incredibilmente non del tutto sepolto, probabilmente perché si trovava su un crinale spazzato in continuo da venti).
Ora, cominciava la scalata più ardua.
Era esausto, ma sempre colmo di una stanchezza che conosceva e che sapeva perfettamente dominare.
Aveva cavalcato il gigante, inerpicandosi su per il sentiero nottetempo, con la neve al ginocchio.
Aveva impiegato almeno il triplo di tempo che gli necessitava per praticare quel tracciato alpinistico in condizioni normali, ma non si poteva dire che se la stesse cavando male.
Non aveva nemmeno avuto particolare bisogno di puntare continuamente la torcia ai lati del sentiero, per vedere se non stava andando verso una sporgenza troppo ripida, che l'avrebbe portato a scivolare sulla neve procurando una slavina e finendo inevitabilmente in fondo al canalone.
Seguiva a memoria le sue orme estive, ricalcate più e più volte. Anche se il paesaggio era diverso, sepolto dalla neve, anche se aveva un colore, emetteva un rumore, emanava un profumo diverso, lo sentiva sempre familiare e complice, e lo riconosceva.
Muoveva faticosi passi sulla neve, ma precisi e sicuri.
Era impossibile fare uso delle corde già predisposte, perché esse erano avvolte dal ghiaccio. Per cui si attrezzò, legandosi con la corda di breve campata e utilizzando i suoi moschettoni.
Cambiò i guanti, infilandone un paio meno spessi, di lana e più sottili, in modo da avere maggiore sensibilità sulla presa. I ramponi si agganciavano sicuri e fermi alla parete ghiacciata, e gli consentivano così di salire agevolmente. I picchetti si conficcavano con precisione sotto lo strato nevoso, assicurandosi anch'essi alla roccia.
Unico problema, non poco rilevante: aveva una visione molto limitata.
La torcia, purtroppo, faceva quello che era nelle sue possibilità, e non altro.
Se si fosse spenta - unica paura veramente reale del ragazzo -, sarebbero stati guai, perché cercare la torcia di scorta appesi a una parete ghiacciata non era una delle imprese più semplici.
Ancora si chiedeva perché si ostinasse a giocare con la vita, e sempre si rispondeva che con la morte aveva già giocato, e che aveva perso. Aveva perso tutto.
Tanto valeva giocare ancora, era facile scommettere quando non si aveva nulla da perdere.
Quando si poteva solo vincere.

«Come mai dovevi portarmelo via?»
Tramontava il sole.
Lo guardavo dal mio paese, il ladro, osservandolo come ogni sera colorarsi la faccia di rosso.
Mi aveva derubato.
Questa volta mi aveva giocato un tiro sleale.
«Tuo è ciò che è tuo... io non ho mai portato via nemmeno un fiore dalla tua schiena».
Sembrava ghignare, sbeffeggiando quelle impotenti creature umane che lo sfidavano.
Ma che prima o poi, inevitabilmente, perdevano.

Ti ho sconfitto ancora una volta.
Cima Sassongher, la doppiava ancora.
Quasi gli pareva di sentire ancora le campane, provenienti dalle luci del paese, in fondo alla valle sotto ai suoi piedi.
Rintoccavano i suoi ultimi minuti di Natale.
Avanzò passi incerti verso il limite dello strapiombo, confuso pericolosamente dalla neve, avvicinandosi al precipizio che volava direttamente sulle case di Corvara.
La vastità del firmamento era nelle sue dita, e colmava i suoi occhi. Poche volte era stato invaso da un'immagine così piena, così piena di vita, che profumava di morte.
Sospeso tra la mano della luna e la meschinità del mondo umano.
Osservò l'universo che lo circondava, riconoscendo tutte le stelle che lo aiutavano ad orientarsi in quel mare blu, che aveva imparato a memoria fin da bambino.
Poi abbassò lo sguardo, richiamato dal freddo prepotente e da un leggero fiocco bagnato che gli era caduto sul naso. Cominciava a nevicare. Questo gli avrebbe ostacolato la discesa.
Eppure si chiedeva come potesse nevicare, dato che lo spazio sopra di lui era sereno.
Mosse altri passi pesanti tra lo strato di neve vergine, inviolato da nessuno se non da altri brandelli di cotone.
Scese un poco, avvicinandosi ulteriormente allo strapiombo, individuando l'arrivo del tracciato alpinistico che scalava la parete sud.
Sotto quel soffice mantello candido, doveva esserci un'insegna, una lapide, ciò che effettivamente era il simbolo della sua tomba, perché il suo corpo non era mai stato ritrovato.
La montagna l'aveva inghiottito.
Era impossibile scavare per rinvenire l'iscrizione, scavare i tre metri che si erano cumulati in quella piccola rientranza.
Scosse la testa, noncurante.
Si sporse per individuare la strada che avevano preso quel giorno.
Pazzia.
Le lacrime gli salirono solo ora agli occhi, pungendoli.
No, non doveva piangere. Non doveva rovinare così il suo Natale.
Estrasse la cometa di sale dall'interno della sua giacca, passandosi velocemente la mano sugli occhi, abbozzando quel sorriso che era abituato ad usare per celare qualcosa di più profondo.
L'appoggiò delicatamente sulla neve, proprio sull'orlo del precipizio.
«Scusami, non ti ho fatto il pacchetto...»
Mormorò. Dopotutto, si sarebbe sciolto.
Osservò con dolcezza quella macchia dorata che spiccava nel mare di neve.
Si accoccolò lì di fianco, osservando ancora il cielo, e le piccole frasche avorio che gli volteggiavano nel campo visivo.
«Buon Natale, Stella».








Note dell'autrice:
Riguardo l'ambientazione: naturalmente è reale, Corvara in Badia (nella regione del Trentino) dominata dal Sassongher esiste davvero, diciamo che è uno dei miei luoghi preferiti, quindi l'ambientazione è leggermente "autobiografica". La descrizione della cima del Sassongher è tuttavia inventata, perché non ci sono ancora salita e non trovo in internet foto decenti. Poi, non so se esista davvero un tracciato alpinistico che scali la parete sud, per cui alcuni elementi li ho un po' inventati. Sasori sarebbe originario di quella zona (anche se dal nome non si direbbe proprio) per cui parla in tedesco con gli altri abitanti locali; infatti il Trentino, anche se regione italiana, non ha voluto abbandonare le sue tradizioni solo perché è stato annesso allo stato italiano, per cui la prima lingua che parlano tra loro è il tedesco.

Questa storia si è classificata prima (da non crederci...) al "Buon Natale! - Flash Contest" indetto da Shark Attack, sul forum di efp, e ha vinto il premio ghepardo (cioè per la prima fan fiction consegnata... credo che sarà la prima e ultima volta che vinco un premio velocità, ancora ignoro di come questa storia sia nata in soli due giorni, soprattutto da una tipa così prolissa come me!) e il premio Cupido, ovvero per la miglior coppia trattata.

Che dire? è la prima volta che ottengo un simile risultato, sono a dir poco felicissima perché, seppure la storia non mi convincesse tanto, mi ci sono affezionata, dopotutto...
Devo naturalmente ringraziare la giudice, Shark Attack, ancora una volta anche per la sua straordinaria velocità (giudicare sei storie e realizzare relativi banner in un giorno e mezzo non è cosa da poco...), e naturalmente per il giudizio, e per i banner stupendi.
Sono contenta che questa storiella sia piaciuta, e sia riuscita anche a comunicare qualcosina...
Mi dispiace solo di stressare sempre le giudici con lo stesso pairing, ma non ci posso fare niente, penso che continuerò a scrivere sempre su loro due. Per ora, ci sono troppo affezionata.

Grazie ancora e tanti complimenti a tutte le/gli altre/altri partecipanti :)

post scriptum: è davvero un bel periodo, questo. È Natale, fra tre giorni è il mio compleanno, e ho tempo per scrivere. Cosa chiedere di più?
Buon Natale a tutti!
24/12/2010









1° classificata al Buon Natale! - FlashContest  indetto da Shark Attack

Grammatica: 15/15 punti;
Utilizzo dei dialoghi/descrizioni e andamento della trama in generale: 15/15 punti; 
Originalità: 15/15 punti; 
IC: 9/10 punti; 
Atmosfera Natalizia: 10/10 punti; 
Gradimento della giudice: 5/5 punti; 
Totale: 69/70 punti. 

Giudizio scritto del giudice:
Non posso valutare la tua fic con una faccina adorante, sia per motivi di rispettabilità del lavoro di giudice (??) sia perché non credo ne esistano di adatte. Come posso dire, questa shot è... affascinante. Avrai notato già dal punteggio che non hai praticamente peccato da nessuna parte, se non nell'IC perché trovo sempre molto difficile dire che Sasori e Deidara sono IC nel loro essere amanti. In ogni caso c'è da rimanere estasiati di fronte ad una simile storia, con descrizioni di posto magnifici e di gesti semplici che fanno trasparire sentimenti puri e profondi, che lasciano senza fiato. In questa shot il senso del Natale è veramente presente, come un dovere morale e psicologico verso chi si ama: Sasori sente il bisogno, viene quasi trascinato sulla cima di questo monte dal ricordo del suo caro e decide di “passare il Natale con lui”, perché è questo ciò che gli dice il cuore.
Complimenti veramente! 




   
 
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