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Autore: sasasame    26/12/2010    1 recensioni
Ecco la mia seconda storia. Per chi ha letto l'altra, non si aspetti di trovare una cosa simile :) Forse questa è esageratamente descrittiva, è nata di getto. I primi capitoli possono risultare noiosi, ma poi la storia "aumenta" un po' di intensità, quindi vi chiedo di avere un po' di pazienza e aspettare ;)Diciamo che la storia in sé è un percoso di autodistruzione, di amore tra due ragazzi, con un velo di fantasy. Buona lettura, s.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

Lo chiamavano Rehuä, si fa chiamare ancora così. Rehuä, sole calante. Abitava in un piccolo paese tra due enormi catene montuose, perennemente innevate. Amava la neve e le conifere sempre ricoperte da quel manto bianco. Amava il freddo pungente, i riflessi del sole notturno sul candido lago ghiacciato che circondava il suo amato paese dalle poche anime. Amava osservare i fiocchi scendere e depositarsi dolcemente sui tetti scuri delle case fumanti. Amava così tanto quel posto che non se ne sarebbe mai andato. Tutti si conoscevano, tutti si rispettavano. La scuola era un ambiente accogliente, ospitava e istruiva i pochi ragazzi e le poche ragazze di quel paese nordico. Se l’ambiente era così gelato, non si poteva dire così degli animi dei ragazzi, che erano perennemente infuocati, disponibili ad aiutarsi a vicenda. Era tutto perfetto e Rehuä non aveva intenzione di andarsene. Quel posto così famigliare e quelle persone erano la sua vita. Rifletteva spesso lungo le rive ghiacciate del lago, osservava l’abbraccio gelato delle montagne e il suo viso così perfetto riflettersi sullo specchio naturale che era il bacino d’acqua. I suoi occhi sembravano rompere il ghiaccio per la loro profonda acutezza. Quando ti osservava, sembrava analizzare in dettaglio ogni singola cellula del tuo essere e tu non potevi fare altro che guardarti riflesso in quell’azzurro perlaceo, allo stesso tempo intenso. Sembrava che avesse due pezzi di ghiaccio di una rotondità perfetta al posto dell’iride, ti catturava in una morsa ferrea dalla quale non si può sfuggire. Non potevi nemmeno distogliere lo sguardo per osservare i suoi lineamenti perfetti, squadrati, tipici dei popoli del nord. La pelle diafana sembrava porcellana tanto era liscia, non ancora corrotta dalla barba che probabilmente non sarebbe mai cresciuta. I suoi capelli erano d’oro che si sfumava verso la radice, assumendo un colore tendente all’ocra. Il suo fisico muscoloso traspariva dal giubbotto attillato che era solito portare, non pativa il freddo, era in sintonia con esso. Per questo, non utilizzava mai indumenti troppo pesanti e, quando la temperatura lo permetteva, indossava una maglietta attillatissima, che metteva in risalto le forme marmoree. Tutto questo era lui, così bello, splendente, radiante, statuario; tutti gli aggettivi riferiti alla bellezza non sarebbero appropriati per descrivere la sua magnificenza. Non si poteva non amarlo. Ma lui preferiva non amare altri che la Natura, voleva sentirsi parte di essa. Ciò che non sapeva, era che di lì a poco un evento drastico l’avrebbe costretto a staccarsi da quell’ambiente così idilliaco per lui.

Era una mattina come tutte le altre, si alzò presto, com’era solito fare. preparò un pasto abbondante, lo mangiò con calma, indossò il suo maglione preferito, prese la borsa a tracolla e uscì. Nevicava. Rimase a contemplare gli infiniti fiocchi leggeri, rimanendo con i palmi delle mani all’insù e il volto verso il cielo bianco. Si mise in cammino, controvoglia, per andare all’istituto. La prima parte della mattinata passò tranquilla, poi un boato ruppe l’atmosfera. Un fragore mai sentito nel paese fracassò l’aria, l’unico rumore era il rombo di tonnellate di neve che si riversavano a valle, scendendo dai pendii delle montagne, ingorde investivano ogni cosa. Tutti corsero in strada, urlando, osservando quel sublime spettacolo, rappresentazione dell’immane forza di cui disponeva la natura. Rehuä osservava la scena, colto da due sentimenti contrastanti: uno spasmo di piacere gli corso lungo la schiena, lo fece rabbrividire, dovuto alla magnifica forza della natura; subito dopo un dolore immenso lo avvolse: si ricordò che i suoi genitori erano in alta montagna a procurarsi della legna. Sapeva già, anche se non lo voleva ammettere al suo cuore. La giornata passò di una lentezza sovrumana, le lancette dei secondi sembravano metterci anni per fare un giro intero. Finalmente o, in alternativa, sciaguratamente, la notizia arrivò in serata: i corpi dei suoi genitori erano stati trovati a valle, senza vita. Il mondo si rovesciò, per poi tornare dritto, si ribaltò di nuovo, lasciando Rehuä in bilico. Cosa fare adesso?

I funerali si svolsero il giorno dopo. I corpi vennero fatti bruciare su una pira al centro della piazza principale davanti ai lacrimosi compaesani. Il ragazzo magnifico, ora distrutto, non aveva nemmeno la forza per piangere. Sapeva, però, che doveva farlo, liberarsi da quel dolore. Ma non poteva. Era l’unico componente della famiglia. Che fare, ora? Non sapeva. Non aveva soldi. Non aveva niente. Mentre pensava, le persone del villaggio, fantasmi cordiali, gli davano pacche sulle spalle, incoraggiandolo, dandogli sostegno morale, facendogli le condoglianze. Qualcuno lo abbracciò. La sua mente viaggiava però lontano, non apparteneva più a quelle montagne innevate, al lago ghiacciato. A chi apparteneva, ora? La Natura, da lui così amata, gli si era ritorta contro nel peggiore dei modi, privandolo dei suoi affetti più cari. Era solo. Non aveva nessuno.

Passò una settimana mangiando quasi nulla. Il suo fisico perfetto era in decadenza, si stava deteriorando. Ombre scure sotto gli occhi distruggevano la perfezione marmorea del suo volto. I capelli non erano più ben curati, erano abbandonati a loro stessi, arruffati. I vestiti erano sempre gli stessi, non si cambiava neanche per dormire, se dormiva. I vicini passavano spesso da lui, preoccupati, gli portavano legna e cibo. Lui ringraziava, salutava. Nessun sorriso risplendeva sul suo volto.

Passò un mese, quando arrivò, inaspettata. Sua zia lo chiamò. Aveva dimenticato di avere una zia, la sorella di sua madre. Näelia, il suo nome. Si parlava poco in casa di lei, la definivano “particolare”. Viveva nella capitale, distante più di duemila chilometri dal suo paese. Aveva saputo la notizia con molto ritardo grazie a un compaesano di Rehuä che l’aveva informata della morte della sorella. Subito lei, telefonicamente, gli propose di trasferirsi nella capitale, ma per Rehuä quelle parole non avevano senso, erano vuote. Non ricordò nemmeno di aver risposto “sì”.

Non ci mise molto a preparare le valigie; svuotò la casa dalle sue poche cose, prese gli ultimi pochi soldi rimasti e il biglietto per l’aereo che sua zia gli aveva spedito dopo la chiamata. Venne accompagnato al piccolissimo aeroporto della città vicina e in un paio d’ore arrivò nella capitale con un aereo scomodo e freddo. Vedere dall’aereo le conifere e la neve che si diradavano gli mise una tristezza addosso paragonabile a quella seguita alla morte dei genitori. La città appariva splendente e vivace sotto il tiepido sole che ben poco riscaldava l’aria pungente. Sua zia lo aspettava fuori dall’aeroporto. Indossava una pelliccia viola, un viola eccessivamente acceso. I lunghi capelli neri le coprivano le spalle; in braccio reggeva un gatto bianco dal pelo lungo e foltissimo. Aveva un sorriso smagliante cerchiato da un rossetto dello stesso colore della pelliccia. Rehuä sapeva che era sua zia, gli aveva spedito una sua foto con il biglietto aereo. Vederla dal vivo, però, era tutt’altra cosa. Il ragazzo la guardò perplesso, le si avvicinò senza dire niente.

“Ciao nipotino!” disse lei, con voce squillante, baciandolo sulla guancia e lasciandogli l’impronta del rossetto sul viso.

Il gatto miagolò divertito.

  
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