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Autore: biondich    28/12/2010    1 recensioni
L'infelice storia di una bambina che amava scrivere, ma odiava il mondo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Con questa poesia in versi liberi, voglio raccontare la storia di una bambina che amava scrivere ma odiava il mondo, e quello che ha comportato la sua misantropia. Questa storia è nata dopo aver visto il cortometraggio di Tim Burton "Vincent".

Buona lettura,

Biondich

 

 

Gertrude McBane sognava.

 Principi, castelli e regine

 nella sua mente immaginava.

 Un giorno, McBane, tutta emozionata,

 decise di annotare su un taccuino

 ogni cosa fantasticata.

 E scriveva, scriveva,

 non un momento si fermava,

 cancellava,modificava e rileggeva.

 Non un errore nella forma o nell’ortografia,

 tutto appariva perfetto, corretto,

 senza alcuna anomalia.

 Potete immaginare l’orgoglio dei parenti che,

 con in famiglia un tale prodigio,

 erano tutti assai contenti.

 “La mia Gertrude è geniale”-

commentavano in tanti-

“Ha un cervello davvero niente male”.

 La piccola Gertrude, ascoltando, mentre si sistemava la gonna

 a tali parole,a tali elogi ed elenchi di pregi,

 alzava il mento,assottigliava lo sguardo, come è consono a una prima donna.

 Chi poteva viver senza esser costantemente apprezzato?

 Gertrude non lo sapeva,

onestamente non aveva mai provato.

 Un racconto, un saggio, Gertrude scriveva,

 sulle pagine bianche la sua penna correva.

 Una fiaba, un romanzo, un copione teatrale!

 In breve tempo, McBane,

divenne una scrittrice sensazionale.

 La piccola studiava, per forza, lei lo sapeva,

 per esser bravi autori,

 l’istruzione ci voleva.

 E quando la mamma le diceva “Va’ a giocare!”

 Lei fredda e severa le rispondeva

 “Non posso, ho da fare”.

 Si, Gertrude McBane non giocava,

 spesso senza amici, sola dentro casa,

 assieme ai suoi amati libri se ne restava.

 Il sole splendeva, fioriva nel giardino qualche ginestra?

 McBane sbuffava, si alzava,

 e abbassava bruscamente la saracinesca.

 Col passare del tempo divenne silenziosa.

 Non un rumore al suo passaggio, non un suono emetteva,

 e sua madre, in certi giorni troppo quieti,

 al collo una campanella le metteva.

 Un giorno, raro davvero,

bussò al portone un’amica di Gertrude

 che sorrise, serrando in mano il suo borsello nero.

 La madre gioì, le aprì, la accolse,

 abbracci le diede, caramelle le porse.

 McBane brontolò e in pochi minuti la visita sciolse.

 “Possibile, Gertrude, che tu non voglia mai ospiti invitati?”

La piccola, sbuffando,

 tornò dai suoi libri amati.

 La realtà per Gertrude era di carta e si sfogliava,

 macchiata d’inchiostro, è certo,

 era quella che lei immaginava.

 Il mondo che sua madre predicava non aveva niente di vero,

 c’era buio, paura,

 nulla di reale, fedele e sincero.

 Perché affrontare una realtà tanto spaventosa e superficiale,

 quando poteva essere regina in uno splendido castello medievale?

 E Gertrude scriveva, perché scrivendo teneva in vita la sua realtà,

 quel mondo vero e bellissimo

senza preoccupazioni e avversità.

 Ma Gertrude McBane non era una regina, né una maga, né una fata

e, a causa della sua solitudine,

si ritrovò ammalata.

 La piccola di appena undici anni,

 sebbene giovane ,

 era già piena di malanni.

 Poca luce, poco cibo, poco di tutto,

 ahimé,

 rendevano il suo quadro clinico davvero brutto.

 Debole, magra, a volte sveniva,

 ma, a suo dire, sognava,

 e appuntava ogni cosa, non appena rinveniva.

 Tossiva, di notte, la poveretta,

si svegliava sudata, febbricitante,

 intingeva la stilografica nella boccetta.

 Una nuova opera aveva in mente,

 qualcosa di grande, straordinario,

 che avrebbe impressionato la gente.

 E scriveva, Mcbane, scriveva ogni giorno,

 non perdeva tempo,

 il pranzo si levava di torno.

 I parenti, suoi grandi ammiratori,

 le fecero visita,

 le portarono dei fiori.

 Non fu cosa gradita,

 McBane solo una cosa desiderava:

 dare vita ad una storia infinita.

 La penna scivolava sulle pagine bianche,

 a volte si curvava,

 sotto alle mani fragili e stanche.

 McBane appassiva, si affievoliva, moriva,

 ma poi si riprendeva,

 a completare la sua opera ambiva.

 Avvenne che un giorno, tornò la sua amica,

 le fece visita, la consolò, la incoraggiò

 “Va’ via, lasciami in pace.Non sono moribonda mica!”

 Quando era da sola, Gertrude commentava :-

 “Sciocchezze le amicizie, inutili davvero!Sono false quanto il mondo!”

 e detto questo brontolava.

Era sola sempre più sola,

scorbutica con tutti,

gentile unicamente con dei libri la parola.

 Perfino la madre si stancò della figlia

 tante moine, tanti rimproveri,

 fecero sì che si allontanasse dalla famiglia.

Solo il medico a volte veniva,

 la febbre misurava, del respiro si accertava,

 insomma, controllava se fosse ancora viva.

 E Gertrude lo era, di certo nella mente,

che correva attraverso terre lontane,

almeno apparentemente.

 Capitò che in una notte silenziosa,

 McBane in coma cadesse,

 dopo aver sentito una voce spaventosa.

 La penna le sfuggì dalla mano,

rotolò lungo il lenzuolo,

cadde a terra, toccando il suolo piano.

 “È finita la tua carriera McBane, anima pia,

 ogni tua opera, ogni tua parola,

 con il tempo scivolerà via!”

Al suon di quella voce Gertrude sobbalzò,

 tremava, delirava,

la sua testa sul cuscino si accasciò.

Gertrude McBane ora sognava,

 finalmente nel suo mondo, quello dei sogni,

 la sua vera vita iniziava.

   
 
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