(Love is like a) Hurricane.
Capitolo 1
Good day, sunshine
Liverpool di mattina è un qualcosa
d’incantevole.
Incredibile come una cittadina che in genere
brulica di vita possa essere così placidamente calma.
Il cielo rosa è solcato ogni tanto dal fumo dei
comignoli di qualche vecchia casa, quelle villette a schiera anonime, tutte
uguali con i loro mattoni grigi e gli arredamenti imborghesiti acquistati da
persone altrettanto borghesi fino al midollo.
Abitare all’ultimo piano ha i suoi vantaggi:
si sale la scaletta metallica nascosta in camera mia e ci si ritrova sul tetto
ad ammirare un panorama mozzafiato come questo.
E pazienza se soffro di vertigini: basta non
sporgersi troppo e il problema non si presenta.
Qua ci starebbe una sigaretta, ma per fortuna
il fumo non rientra tra i miei vizi, quindi opto per una canzone da
canticchiare.
Some way, some day, I'll find a way
to make you see my way
La mia vita è solo un susseguirsi di cose
sempre uguali. Routine è il termine
giusto per definirla, anche se forse palla
rende meglio l’idea.
Sveglia, colazione, liceo, part-time e di
nuovo casa sono veramente la mia morte quotidiana. Il sabato sera esco un po’,
ma è come se un solo giorno non riuscisse a rendere giustizia ad un’intera
settimana di apatia.
Per fortuna c’è Mitchie.
Chi è Mitchie?
Colei che ruberebbe matitine ovunque, colei che è una schiappa in matematica e
che pretende che io la aiuti, pur essendo a conoscenza del profondo odio che
nutro nei confronti di questa disciplina, colei che mi allieta le giornate
appendendo schizzi buffi al frigo e sulle porte, colei che dorme vicino a me,
un solo muro di stupido cartongesso a separarci.
Ha occhi scuri leggermente a mandorla e un
carré che le incornicia il viso maturo, che le fa dimostrare un po’ più dei sedici
anni che realmente ha, e disegna divinamente.
E quando dico divinamente, lo dico
perché è vero. Passa dalle caricature ai ritratti con una velocità incredibile
e wow, mi lascia sempre a bocca aperta.
Uh, sarà anche ora di svegliarla, adesso: ha
un sonno così pesante che nemmeno i Marines riuscirebbero a farle aprire gli
occhi, pazzesco!
Mi calo giù per la scaletta, facendo ben
attenzione a non cadere, e atterro perfettamente in piedi.
-Mitchie!
Alzati!- mi affaccio alla sua porta, ricevendo come risposta un mugolio e un
successivo girar fianco.
Alzo gli occhi al cielo, per poi continuare:
-Avanti, non vorrai far aspettare il signor Disney e il signor Barks!-
La vedo balzare seduta, con gli occhi
spalancati: -Od-oddio, Carl Barks
e Walt Disney a… a casa mia?-
Non faccio neanche in tempo a risponderle che
è già volata fuori dalla stanza, e nascondo un ghignetto
soddisfatto quando la sento protestare dal cucinino, una volta scoperto che
nessuno dei due affermati disegnatori stia aspettando il suo caffè.
Ma io sì, quindi è meglio che si spicci.
Stupide divise.
Stupide stupide stupide divise.
La gonna di Mitchie
con questo vento continua a sollevarsi, e lei è costretta ad appoggiarci le
mani sopra per tenerla a bada.
Ditemi voi se è sensato che a scuola si
debbano indossare delle stupide divise: non avrebbe più senso che ognuno
mettesse le cose che più gli piacciono?
Io, ad esempio, verrei a scuola perfino in
pigiama, se mi fosse concesso.
E invece no, mi devo accontentare della divisa
maschile, misero traguardo.
Guardo Mitchie di
sottecchi.
Però, effettivamente, a pensarci bene,
preferisco la camicia, la cravatta e i pantaloni a quel blazer grigio e quella
gonna plissettata verde bosco.
Cioè, la mia mise fa tanto old style, tutta in bianco e nero, e devo
dire che quest’alone di androginia che mi circonda mi piace. E parecchio.
-Mamma, che vento maledetto! Ma la bora non
c’era solo a Trieste?- sbuffa Mitchie, arrancando.
-Avrà chiesto asilo politico. Su, non manca
molto.- le rispondo io, stringendomi nel mio cappotto antracite.
Difatti, in mezzo ai mulinelli di polvere,
scorgo il vecchio orologio dello Sheffield Institute
spiccare in mezzo a tutto quel verde.
Io e Mitchie ci
scambiamo uno sguardo d’intesa e poi iniziamo a correre verso l’edificio,
desiderose di un riparo da quella bufera.
Passiamo cinque minuti buoni in atrio, io a
sfregarmi le mani con forza e lei a soffiare sulla cioccolata che ha preso,
facendo ben attenzione a non scottarsi.
Quando la campanella suona la saluto con un
cenno veloce e mi avvio verso la mia adorata
aula di chimica.
Un’altra stupenda
mattinata mi attende.
Appoggiata al muretto in mattoni rossi
aspetto che Mitchie arrivi, e nel frattempo mi
diletto a lanciare occhiatacce alle ochette che, noncuranti del senso di pudore
che in teoria Madre Natura dovrebbe aver fornito loro, lasciano che il vento
alzi le loro gonne e che i “maschioni” sbavino dietro a qualcosa che non
potranno mai avere.
Tsk,
gioventù bruciata.
Finalmente Mitchie
arriva, stranamente saltellando, e mi trascina con sé.
-Ma tu non avevi mica matematica all’ultima
ora?-
-Affermativo!- fa lei.
-E da dove viene tutto quest’entusiasmo,
allora?-
-Eh, mi ha consegnato il test e…-
-E…?-
-E sono migliorata!- esclama, le stelline
agli occhi.
Mi blocco. Ok, se Mitchie
è migliorata in matematica il mondo potrebbe finire qui, di punto in bianco.
Devo ASSOLUTAMENTE incontrare gli Who prima che
l’Apocalisse scenda inesorabile su di noi!
-Oddio. E quanto hai preso?- la fisso, con
gli occhi spalancati.
-Una E!- replica, saltellando di qua e di là.
Credo che la mascella mi sia rotolata per
terra.
-E…
e tu fai tutto questo casino per una cazzo di E? Sai quante ne prendo io? E non
c’è niente da vantarsi, fa schifo come voto.-
Ma la mia frase acida sembra non intaccare
proprio per nulla l’entusiasmo della mia amica, che continua imperterrita a
zompare a destra e a manca.
-Beh, tu sarai abituata alle tue E, ma per me è la prima! Finora sono
andata avanti solo a forza di F!-
Mi sbatto una mano sulla fronte e riprendo a
camminare veloce.
-Sbrigati, altrimenti Joe chiude.-
Il cartoccio di patatine fritte in mano,
cammino a passi svelti, mentre Mitchie mi è di
fianco, intenta a divorarsi l’hot-dog.
Il terzo.
-Dici che facciamo in tempo a prenderci anche
un gelatino?- s’illumina.
-Dopo esserti sbafata tre hot-dog
e avermi perfino fregato qualche patatina fritta, mi chiedi se puoi prenderti
anche il gelato? Ma hai problemi?-
-Sì, tu che non mi lasci nutrire me stessa in
pace!-
Sbuffo.
-Ma si può sapere come fai a mangiare come un
drago?-
-Veramente non sono io quella che mangia come
un drago: sei tu quella che non mangia nulla.-
-Ma non dire fesserie! Mangio sì.- brontolo, ficcandomi tre patatine in bocca.
-Beh, allora mangi come un canarino, hai lo
stomaco di un fringuello…-
-…
e i capelli da upupa, sì.- faccio spallucce.
La sento sbuffare scocciata, e calciare
qualcosa con i mocassini.
Alzo gli occhi al cielo.
-E va bene! Hai vinto tu! Piuttosto di
sopportare una vecchia caffettiera che gorgoglia per tutto il tragitto
t’accompagno alla gelateria, contenta?-
Mitchie
mi salta al collo e tenta di soffocare un gridolino di gioia, cosa che non le
riesce, quindi inizia a correre verso l’amato traguardo.
Sorrido. Per fortuna che c’è lei ad animarmi
le giornate.
-Prometto che ti ridarò tutto quanto, lo
giuro!-
-Sì sì, va bene, basta che chiudi il becco.-
taglio corto io, sorridendo.
Al solito: Mitchie
è al verde e il suo amato super-cono “pistacchio-nocciola-fior
di latte” le è stato gentilmente offerto dalla sottoscritta.
Finalmente, dopo mille peripezie, arriviamo
all’agognata meta: il Route 66, il negozio di dischi in cui sogno
di lavorare praticamente da sempre.
Ogni giorno, finita la scuola, io e Mitchie veniamo sempre qua a ficcanasare, e ogni tanto
torniamo a casa con una busta nuova.
È vero, non è che i dischi cambino di giorno
in giorno, ma passarli in rassegna tutti quanti, uno ad uno, quotidianamente,
mi dà un certo senso di sicurezza, mi fa sentire a casa.
Mentre la mangiona resta fuori a finire il
suo gelato io entro, e mi precipito subito su Pet Sounds: è appena uscito, ma quanto mi
piace!
-A forza di guardarlo me lo consumerai!-
Mi volto e vedo Bob, le braccia conserte,
sorridermi bonariamente.
Gli rivolgo una linguaccia: -Senti, Bob, posso…?-
-Sì che puoi, piccola. Non serve che tu me lo
chieda ogni santa volta.- m’interrompe, ridendo.
Io faccio spallucce e mi precipito al
juke-box; una sterlina e via, God Only Knows può partire.
I may not always love you,
but long as there are stars above you
you never need to doubt it
Quant’è bella questa canzone, Dio solo lo sa.
Mentre la canticchio incomincio a “ballare”
(molto tra virgolette); più che altro giro su me stessa, fino al momento in cui
perdo l’equilibrio e vado a sbattere contro qualcosa. O qualcuno?
-AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!-
Caccio un urlo che nemmeno la Callas, mentre Mitchie si precipita in fretta e furia da me.
-Che succede?-
-Q-que…-
le parole non riescono ad uscirmi di bocca.
Il qualcuno
mi tende la mano, e solo in quell’istante anche lei si mette a fissarlo.
-Quello è Keith Moon degli Who!- urlo, prima di svenire.
Riapro gli occhi, e metto a fuoco il viso
simpatico della mia coinquilina, e poi un altro viso, che conosco fin troppo
bene.
-Od-oddio… Keith… Keith Moon…-
-Hey,
bambola, vedi di non svenire di nuovo!- scoppia a ridere lui, aiutandomi a
rialzarmi.
Mitchie
lo ringrazia, e asserisce che lo svenimento è dovuto al sangue che mi è fluito
alla testa un po’ troppo velocemente, mentre “ballavo”.
-Sai benissimo che non è quello il motivo per
cui sono caduta come una pera marcia, vero?- le bisbiglio nell’orecchio, mentre
lei annuisce col capo.
Bene, almeno lei ha capito.
E forse anche lui, cazzo.
Figuradimmerda.
Cioè, ho Keith Moon, quel Keith Moon, davanti a me e Mitchie è
stranamente tranquilla.
Aspettate.
Tranquilla?
Come fa ad essere tranquilla in questa
situazione?
Non è da lei.
Non è assolutamente
da lei.
Qui gatta ci cova.
-Aspetta, il tuo viso mi è familiare… Per caso ci siamo già incontrati da qualche
parte?- fa lui, rivolgendosi a Mitchie.
-Ero al Long Scene di Londra, il due
settembre di due anni fa… E mi ero imbucata nel backstage…-
-Uh, mi ricordo! Sei Mitchie!-
schiocca indice e pollice, per poi abbracciarla. -Piccola Mitchie,
come stai?-
-Tutto bene, Kif.
Tu, qual buon vento ti porta a Liverpool?-
-Una meraviglia, tesoro. Sono qui con gli
altri, ci siamo presi una pausa e abbiamo pensato che il luogo ideale per non
avere scocciatori in mezzo ai piedi fosse proprio Liverpool. Le ragazzine sono
troppo concentrate su quei quattro
scarafaggi per badare a noi.- e ci fa l’occhiolino. O meglio, le fa l’occhiolino.
Io li fisso con gli occhioni
sgranati: mi mangiasse la lingua il gatto, se qua c’è qualcuno che mi calcola.
-…
E che ne diresti di presentarmi la tua amica, miss “centro-di-gravità-permanente”?-
ride lui.
Ooook, gatto: stasera
niente cena, I’m so sorry.
So che Keith Moon mi ha appena preso per il
culo, seppur affettuosamente, e so che dovrei rispondergli a tono, ma l’unica
cosa che riesco a fare è fissarlo con una faccia che rasenta i limiti della
definizione di “ebete” per eccellenza.
-Oh, è vero! Keith, ti presento Sara, la mia
coinquilina nonché migliore amica!- mi presenta Mitchie,
tutta raggiante.
-Enchanté,
mademoiselle.- mi bacia la mano.
Ommioddio,
Keith Moon mi ha baciato la mano. KEITH MOON MI HA
BACIATO LA MANO!
Credo che sverrò da un momento all’altro.
-Ehm, il piacere è tutto mio.- rispondo,
titubante e rossa in viso.
Lo sguardo mi cade poi sull’orologio appeso
al muro: 13.50.
-Cazzo!- mi sfugge di bocca, facendo girare Mitchie e Keith in mia direzione.
-Ehm, gente, è stato veramente un piacere
stare qui con voi ma ora devo scappare al lavoro. Vi lascio continuare la
vostra conversazione, ok?- poi, rivolta verso Keith: -Ed è stato un enooorme piacere
poterti conoscere, Keith! Veramente, non immagini quanto!-
Ommioddio,
sembro una Beatle-fan nipponica.
Lui scoppia a ridere e poi, scompigliandomi
la frangia, mi risponde: -Anche per me, bellezza. Alla prossima!-
Rossa in volto, saluto con la mano anche Mitchie e poi me la svigno, correndo come una pazza, un po’
per il ritardo e un po’ (molto) per l’ennesima figuraccia collezionata in meno
di mezz’ora.
Ok. Mi ha toccato i capelli. Fosse stato qualcun
altro avrebbe ritrovato le proprie palle fare salotto con le tonsille, ma lui è Keith Moon.
Who are you?
Ooook, gente! You’re
welcome :)
Chi vi parla è Dazed:
questo capitolo è stato scritto da me ed è solamente l’inizio di una pazzesca
cross-over a quattro mani che nemmeno potete immaginarvi.
Le altre due manine appartengono alla mia
adorata Thief, che si occuperà del secondo capitolo e che è anche l’autrice
della splendida targhetta che avete trovato all’inizio.
Beh, che altro dirvi?
Ah, ho rubato a Thief l’idea del cambiare
nome all’angolo autrici, e mi sembrava parecchio carino usare la canzone degli Who. :D
Il mio personaggio si chiamerà Sara, mentre
il suo Mitchie, e le nostre due alter-ego avranno la
grandissima fortuna di incontrare, lungo la loro strada, bei fusti che hanno
fatto la storia del Rock.
L’intera storia è ambientata a Liverpool, nel
1966, e le due protagoniste sono delle normalissime teenager che devono fare i
conti con la vita di tutti i giorni.
Oddio, tanto normalissime non lo sono (come
avrete potuto ben notare, la sanità mentale lascia un po’ a desiderare) ma
comunque non posseggono poteri paranormali e quindi possono essere definite…
Ok, ok, taglio corto.
In questo capitolo c’erano un po’ di
riferimenti (alcuni facilmente visibili, altri più nascosti) ad un po’ di band
dell’epoca che io apprezzo, e che penso piacciano anche alla mia socia: vediamo
se siete così in gamba da scovarli tutti ;)
Spero che questo capitolo via sia piaciuto e
v’invito ad aspettare il prossimo, quando passerò le redini a Thief ;)
Bacioni e statemi bene (Y)
Dazed;