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Autore: Ecchan_    29/12/2010    6 recensioni
Alcuni dei personaggi di Hetalia alle prese con le nazioni che, a parer mio, appaiono come le personificazioni dei cosiddetti "vizi capitali". La mia prima raccolta di fanfiction che pubblico, e che spero sia abbastanza carina. Recensioni ovviamente molto gradite. ^^""
SpagnaXRomano
RussiaXPrussia
GermaniaXItalia (Accenni di Chibi!ItaliaXSacro Romano Impero)
FranciaXCanada
UsaXUk
DanimarcaXNorvegia
AustriaXUngheria.
(I capitoli delle rispettive coppie non sono per forza presentate in quest'ordine, nella raccolta.)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Allungò la mano verso la maniglia dorata, forse solo per coprire quel maledetto luccichio che il sole rifletteva su essa e che colpiva i suoi occhi. Alla fine, però, ci appoggiò entrambe le mani, quasi quel portone fosse troppo pesante per essere scostato con una sola. No. Le ritirò sui fianchi, ma non perché la maniglia scottava a causa di quel maledettissimo sole: non riusciva ad ammetterlo neanche a sé stesso, ma… aveva paura di rientrare in quella casa, villa, castello. Qualunque cosa fosse, aveva passato secoli, là dentro, e non ci entrava più da altrettanto tempo. Ricorda che all’interno di quell’abitazione, chissà perché, c’era sempre una temperatura piacevole, che fosse piena estate o inverno inoltrato. Pensandoci, si accorse che era grondante di sudore. Maledetta Spagna, perché era così schifosamente afosa?
Ormai Lovino si sentiva in un forno, perfino quel lieve venticciolo, anziché dargli sollievo, lo accaldava ancora di più! Coraggio o no, era meglio entrare. Provò a girare la maniglia, poi si toccò le gambe alla ricerca di… qualcosa.
«Dove ho messo le chiav-… oh, cazzo!», sbraitò, accorgendosi che, nonostante il tempo passato, non aveva perso l’abitudine di considerare quella casa come propria. Ancora più stizzito di prima, provò a suonare il campanello più volte. Nessuna risposta. E la calura aumentava. Urlò epiteti ben lontani dall’essere cordiali in italiano, infatti gli abitanti di alcune casette lì vicino si affacciarono tentando inutilmente di capire cosa stesse dicendo.
«Ehi!», esclamò una guardia spagnola, sentendo le imprecazioni del ragazzo addirittura da sotto la collinetta su cui si trovava. «Cosa sta facendo? Il Padron Spagna non c’è!»
«Che cos-… sono Sud Italia, e sono qui… per un incontro di lavoro con lui!», rispose, in perfetto spagnolo, sperando che l’altro non conoscesse la lingua italiana.
«Non ce ne ha informato nessuno, Signore.». La guardia ora era di fronte a lui. Vestiti scuri, pesanti, addirittura un elmo. Lovino aveva caldo solo a vederlo; lui, che indossava una camicia bianca a maniche corte, una cravatta bordeaux e dei pantaloni che aveva alzato al ginocchio solo perché era imbarazzante andare in giro con le mutande giallo canarino che il fratello del crucco mangiapatate gli aveva regalato per il compleanno. Non più per il colore, quanto per il muso d’uccellino –vagamente somigliante a quello che svolazzava sempre attorno a Crucco 2 (così lo chiamava Lovino.)- proprio in corrispondenza delle parti intime, più una codina gialla sporgente che andava tra le sue natiche.
Per inciso, le aveva indossate solo perché la lavatrice era rotta e, andando di fretta, non trovò altre mutande perlomeno decenti. E Feliciano era andato in vacanza proprio dai crucchi, portando quindi con sé tutte le sue mutande.
«È stata una cosa improvvisa. Doveva svolgersi da me, ma ci sono stati dei problemi e, insomma, abbiamo dovuto spostarlo in un altro luogo all’ultimo minuto. Qui, appunto.». Tsk. Come faceva a dire bugie del genere con tanta naturalezza? Ovviamente la guardia gli credette. «Dov’è?»
«Padron Spagna si è ritrovato a litigare –ancora- con il signor Inghilterra e da ieri è in ospedale. Al momento sta bene, per questa sera tornerà.». L’altro strinse i pugni, cercando di non sorprendersi troppo a quelle parole.
«Gradirei aspettarlo qui.»
«Eh? Dentro? Signore, non so se…»
«Fammi entrare!», urlò, mandando a quel paese le buone maniere. L’uomo, spaventato dal suo atteggiamento, si limitò ad annuire e prese una chiave che aveva appesa al collo e ben nascosta nella divisa. Aprì la porta e Lovino scattò dentro, sbattendogliela in faccia, temendo di esplodere solo guardando quegli abiti così pesanti. Sentì l’uomo andarsene e si allentò la cravatta, contemplando quel palazzo che, almeno nel corridoio, sembrava non essere cambiato. Visitò curioso ogni stanza –meno male erano tutte come le aveva lasciate un tempo-, e già si sentì a casa. Decise di farsi una doccia –sì, si sentiva proprio a casa- e, con noncuranza, andò in bagno, felicitandosi del fatto che neanche lì fosse cambiato nulla, e gettò i propri vestiti a terra. Sebbene fosse solo, nell’abitazione, e che era appena primo pomeriggio –quindi l’arrivo di Spagna era ben lontano-, si preoccupò di nascondere sotto ai pantaloni le maledette mutande: lui stesso si vergognava a vederle, e imprecò mentalmente contro il Crucco 2. Attivò il getto freddo, una volta nella doccia, e si appoggiò al muro, godendo di quella piacevole frescura. Dopo alcuni secondi iniziò a far diventare l’acqua poco tiepida, ma continuò a restare lì, immobile. Il sorriso beato abbandonò il suo viso, lasciando il posto a un’espressione scocciata e allo stesso tempo imbarazzata.
Doveva litigare con quel maledetto inglese proprio ora che Feliciano, al telefono, l’aveva convinto a farsi avanti per una possibile riconciliazione?!
E cosa gli era successo di tanto grave da andare all’ospedale? Dannato bastardo, perché lo doveva far preoccupare cos-…
Eh?
N-No!
Lovino scosse la testa, staccandola dal muro e appoggiandoci le mani. Rivolse lo sguardo imbarazzato verso il basso e tese le braccia, tentando di graffiare inutilmente le mattonelle candide. Aveva di nuovo caldo, soprattutto alle guance. «Non sono preoccupato per quel bastardo!», urlò, tentando di auto convincersene.
Ma poi… cosa l’aveva spinto ad andare lì?
Riconciliazione?
In fondo loro già si parlavano ogni tanto ai meeting e, soliti insulti dell’italiano a parte, erano tranquilli. Okay, forse si parlavano in modo un po’ più formale di quando Romano era una sua colonia ma… non gli dispiaceva.
Uscì dalla doccia e indossò l’accappatoio con i pomodori di Antonio –chissà dove trovava cose del genere. Oh, sì! Gli avrebbe potuto dire che il motivo della sua visita era sapere dove comprava tutte quelle cose strambe!
Ehm, no. Okay, Antonio era stupido, ma non così tanto. Forse. Ma, beh, meglio non rischiare.
Fece per prendere il cellulare dai suoi pantaloni e abbassandosi, sentì nell’accappatoio il profumo di Antonio. Lasciò il cellulare e, con uno strano e dolce sorriso, avvicinò ancor di più il naso alla stoffa. Era un odore che non si poteva definire: Lovino notò solo che aveva un retrogusto di pomodori, quei buonissimi pomodori che coltivavano insieme nell’orto lì vicino, un tempo. Era piacevole: sarebbe rimasto volentieri inginocchiato a terra, accoccolato nell’accappatoio, beandosi di quel profumo, fino all’arrivo del proprietario.
Poi, improvvisamente, accorgendosi di ciò che stava facendo, scattò in piedi, togliendosi l’accappatoio e gettandolo a terra, urlando «’Fanculo!» e arrossendo. Ancora intralciato, prese un asciugamano nel mobile vicino alla porta, dalla parte opposta della doccia –assicurandosi che non avesse l’odore di Antonio-, e si limitò a coprire solo le parti intime.
Se ne posò un altro sulla testa e riprese il cellulare, chiedendosi cosa volesse farne.
Oh, Feliciano!
Aveva bisogno di consigli sul da farsi e, anche se strano, nessuno era meglio di lui.
«Ja?»
«Feli…?»
«Oh! Fratellone! Perdonami, Lud mi sta facendo lezione di tedesco e mi sono lasciato un po’ prendere, eh, eh!».
Quel crucco lo stava contagiando decisamente troppo! «Ehrr, no, non fa niente.». Iniziò a parlargli dell’accaduto e, prima che potesse chiedergli cosa fare, fu tempestato da domande come “Sta bene?”, “Come ha fatto?”, “Perché il fratellone Spagna è così incosciente?”, “Lo saluti comunque da parte mia?” –quindi era scontato che dovesse restare.
«Non so che fare, Feli. E, se resto, cosa gli dirò stasera? Io… non posso!»
«Perché?». Da entrambe le linee, nessuna parola. “Perché?”.
«… Perché dovrei tenerci tanto? Io sto a posto così.»
«Io dico di no.». Feliciano serio era un qualcosa di inquietante. Quella voce che prima non era altro che un allegro trillo era diventata così dura che avrebbe battuto quella che Germania rivolgeva ai suoi eserciti. «Sai, ho la sensazione che il fratellone Lovi ami il fratellone Tonio.», continuò, con una punta di maliziosità nella voce ancora seria.
«Che cazzo stai dicendo?!», urlò il meridionale con tutto il fiato che aveva a disposizione. «È un idiota e… e poi… è un uomo
«E allora?». Le parole del ragazzo, seppur poche, erano davvero taglienti. Notando che dall’altra parte il fratello taceva, andò avanti. «Anche io amo Germania –e da dietro si sentì un urlo sconvolto e imbarazzato da parte del nominato e le risate di Gilbert- e non mi vergogno a dirlo. Non ci si dovrebbe mai vergognare di amare qualcuno, uomo o donna che sia. Ora ti lascio, tu pensaci su e, una volta tanto, metti da parte l’orgoglio. Tschüss*!»
Tu… tu… tu…
Lovino lasciò cadere il telefono a terra, fissando un punto indefinito di fronte a lui. Poi, l’accappatoio. Non aveva neanche voglia di prendersela perché il suo fratellino aveva detto di amare un maledetto crucco.
 
La Chiesa gli aveva ormai inculcato l’idea che amare qualcuno del proprio sesso era peccato. Feliciano era riuscito a ignorare la cosa con facilità, ma lui, lui, Lovino Vargas, non ci riusciva.
Sentimenti opposti continuavano a scontrarsi dentro di lui, anche mentre cercava delle mutande e dei vestiti di Antonio da mettere, visto che i suoi, a causa del sudore, non avevano proprio un bel profumo.
Era troppo occupato a lottare con sé stesso per notare che non era il massimo della cordialità indossare senza permesso i vestiti di qualcun altro. Ma quando mai era cordiale, lui?
 
Un rumore di serratura che scatta: lo stesso che il portone aveva emesso quando la guardia aveva aperto la porta a Lovino.
Antonio.
L’italiano, seduto sul divano rosso del salotto adiacente alla cucina, intento a guardare la TV –ancora preso dalle sue lotte interiori-, appena udì quel suono, sentì che il cuore era ormai in procinto di sfondargli il petto e volare via. Mentre i passi sembravano avvicinarsi sempre di più, certamente chiedendosi come mai la TV fosse accesa, lui tentò di concentrarsi sul talk show che stavano trasmettendo, inutilmente.
«R-Romano?!», esclamò Antonio, sconvolto, sul ciglio della porta della sala. L’interpellato arrossì, notando alcuni cerotti coprirgli la pelle abbronzata delle braccia, due sul viso, alcuni lividi e il petto –nudo- completamente fasciato.
«Che cazzo ti è successo, bastardo?»
Antonio sembrava imbarazzato. «Se te lo dicessi non ci crederest-… sono i miei vestiti, quelli?»
«Non cambiare argomento! Cos’è successo? Come hai fatto a ridurti così?», scattò in piedi, avvicinandosi di poco. Era davvero preoccupato. Quella situazione gli ricordava quando lo spagnolo, un tempo, ritornava dalle guerre sporcando il pavimento di sangue e Lovino, ancora ragazzino, si metteva a piangere perché temeva che stesse per morire.
«Sono io quello che ha il diritto di fare domande, visto che tu sei in casa mia senza alcun preavviso e con imiei vestiti!», contrattaccò l’altro, lasciando di stucco il meridionale. Non gli aveva mai rivolto un tono così severo, e Spagna se ne ricordò quando lo vide abbassare lo sguardo. Il sole stava tramontando, e la luce nella stanza era quasi assente, quindi non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, ma sperava davvero che non si stesse addirittura per mettere a piangere: non si sarebbe mai perdonato il fatto di esserne stato lui la causa. «Mi dispiace!». Corse ad appoggiare le mani sulle sue spalle. No, non stava piangendo, per fortuna. «Sono stati Arthur… e il suo unicorno. Eh, eh.»
«Unicorno…?», ripeté Lovino, alzando di poco lo sguardo.
«Ridicolo, eh? Ma posso assicurartelo! A-Ahi!». Lovino lo prese per i capelli, tirandogli la testa all’indietro, sebbene fosse più basso dello spagnolo.
«Brutto bastardo! Ti fai ridurre così da un inglesino del cazzo e il suo unicorno di merda? Dov’è finito il pirata che combatteva intere flotte nemiche e che mi difendeva da chiunque, senza paura? Sei un rammollito!». Antonio non riuscì a capire se stesse piangendo o meno, ma il tono di voce era strozzato, quindi l’avrebbe fatto a breve.
«L-Lovi!», era la prima volta, dopo tanto, in cui lo chiamava con il suo vero nome: questo sentì il suo cuore mancare un battito, per poi ricominciare a correre ad una velocità quasi assurda. «Ti prego, non piangere! Non voglio essere io quello a farti rigare le tue belle guance di lacrime!». Lovino lo mollò immediatamente, imbarazzato da quelle parole, strascicando i polsi contro gli occhi e tirando su con il naso per non piangere.
«Non sto frignando, bastardo. Non vedo perché dovrei farlo per uno come te! Sono… sono incazzato, ecco tutto!»
Antonio si accarezzò la testa, dolorante. «Come mai?»
«Cazzi miei!»
«Ti sei sfogato con me, ora voglio sapere che succede!». Senza rispondere, l’altro digrignò i denti e appoggiò la mano sugli occhi, tentando di trattenersi dallo scoppiare a piangere.
«Non… non capisco. Ecco tutto.»
«Cosa non capisci?». Spagna strinse la presa sulle spalle del ragazzo.
«Se il sentimento che provo è giusto. Io… io amo un uomo. Amare qualcuno dello stesso sesso è peccato!»
Antonio sorrise: «Sarà, ma io qui intorno non vedo santi.»
«…»
«Anche io amo un uomo!». Lovino alzò lo sguardo, speranzoso. Non illuderti, non illuderti, non-… «Te amo, Lovinito.», poi, un dolce bacio sulla fronte e il conseguente e improvviso balzo di temperatura dell’italiano, che ora stava praticamente andando a fuoco. «E tu chi ami, Lovinito?»
«… eh?»
«Daai! Dimmelo!». Sembrava non saperlo davvero. In quel momento Lovino pensò che non era tanto improbabile che credesse al fatto che era lì per sapere dove comprava cose strane come l’accappatoio con i pomodori.
«U-Uno spagnolo.»
«Davvero? Che coincidenza!». Se stava fingendo, lo stava facendo davvero bene.
«Ma perché cazzo pensi che sia in questa casa, bastardo?!»
«T-Tu… io… ami me, Lovi?». Il romanticismo del momento era ormai andato: batté una mano sulla sua fronte all’espressione sconvolta di Antonio. Gli rispose guardandolo negli occhi color smeraldo, perdendosi nelle sfumature rossastre che il tramonto spagnolo gli dava. L’altro sorrise, posandogli un casto bacio sulle labbra e avvicinandolo a sé, appoggiando le mani sulla sua schiena.
Rieccolo, il romanticismo!
Un altro bacio, poi Romano si accoccolò tra le sue braccia, confuso e imbarazzato, e iniziò a piangere macchiando le bende dello spagnolo, che non se ne curò molto.
Affondò una mano nei suoi morbidi capelli scuri, che con quella luce avevano raggiunto delle sfumature rossicce.
In fondo il suo Lovino era ancora un bambino, che si arrabbiava solo perché era così confuso da non capire. Era un difetto che purtroppo non mancava mai a mostrare ma, del resto, senza quello non sarebbe stato più il Lovinito che tanto amava. ♥  


Eccolo qui, il primo capitolo! *^* L’ira, ovviamente rappresentata da Lovino! XD Mi piacerebbe ricevere qualche recensione, considerando che, come già detto, è la prima volta che pubblico una storia e ho bisogno di qualche consiglio per i prossimi capitoli çAç
Alla prossima! ♥
Ecchan.
  
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