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Autore: Save Hannah    29/12/2010    0 recensioni
Appoggiai la mano sul suo viso, delicata e leggera, come se lo stessi raccogliendo, pronto per essere curato e lavato dalle ferite appena provocate.
“Chase, guardami.” Sentii il mio corpo fremere, come pronto a combattere, a lottare per ritrovare quello che avevo appena volutamente distrutto. Alzò lo sguardo, mostrandomi i suoi occhi bagnati di leggere lacrime. Gliel’asciugai, lentamente, appoggiando con forza il mio viso sul suo petto, persa ad ascoltare il rumore dei suoi battiti, puntuali e meravigliosi.
Chase era un fratello, un amico –probabilmente l’unico vero- ed un compagno di emozioni ed avventure, anche se non era mai stato un amante.

Il Circolo delle Anime Perdute: un posto dove i ragazzi perduti si ritrovano, si conoscono, affrontano le loro paure.
Seiil, anoressica, priva di vita e di speranza, rinchiusa nella perdita dell'unico vero amore, anche se forse il futuro è pronto per lei.
Chase, un omosessuale stanco, spesso drogato, senza via d'uscita, che ha come unica famiglia la sua migliore amica da sempre Seiil. Un viaggio tra droga e oscurità, tra morte e vita.
Jacob: un passato troppo duro per essere anche solo raccontato o persino pensato. Un futuro troppo fragile per essere combattuto.
Alec, Sierra e tanti altri. Tante anime, poche vite.
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~M  i innamorai di te, sotto un cielo colorato dai fiocchi bianchi della nev  e♥.
 
La gente crede di sapere tutto sull'anoressia e soprattutto crede di poter giudicare gli anoressici, ma dalla mia stupida mente, sento quelle piccole sensazioni che mi logorano dall'interno, che mi fanno capire che non si può giudicare un anoressico, che non gli si può dire "mangia", che non si può assolutamente costringerlo perché tutte quelle persone - i fanatici uomini vissuti -  non hanno la minima idea di ciò che significhi sentire sulle proprie labbra il suono di quella parola quasi bandita, quella parola di cui fai parte.
Anoressici: sono tanti, forse troppi, alla ricerca di come vivere e di come perdere la vita.
Mi alzai lentamente dalla sedia, cercando di respirare. Sentii la mia lingua intorpidirsi, quasi facendomi male, passandola sui denti su cui erano ancora presenti tracce di forte acidità.

[...]
Sono Seiil, ho ventiquattro anni e sono un anoressica.

Penso che la mia vita sia incominciata veramente all'età di diciannove anni, quando incontrai un uomo che a quel tempo consideravo l'arte umana, non per quanto riguarda il suo fisico o la sua perfezione corporale, ma principalmente per quanto concerne la sua arte, il suo essere artista.  
Alyon era uno scrittore. Penso tutt'ora che sia un uomo dannato: blaterava frasi, si metteva a scrivere su ogni foglio, muro, persino sulla pelle, per paura di dimenticarsi le sue stesse parole. Tutt'ora lo considero pazzo, ma non ho mai incontrato uno come lui, un poeta, un uomo la cui anima era totalmente aperta, a libera disposizione di chi ne volesse usufruire.
Non credo di avere mai incontrato un uomo così denso di vita come Alyon, tanto che alla fine si è suicidato, quando eravamo ancora insieme. Era così bello, così saggio, così continuamente deluso dal mondo, anche se ogni giorno svegliandosi tra un dipinto incompleto e dozzine di libri, dava una nuova possibilità alla vita, al mondo, a me.
Ancora oggi, so di aver amato perché lui mi ha fatto conoscere l’amore, come se gli avessi potuto stringere la mano, presentarmi e imparare a conoscere l'amore, attraverso il mio compagno.
Alyon sarà sempre il mio unico amore, la mia vita, la mia speranza.

[…]
Le persone riunite in quella sala colorata d’ocra mi osservavano, in silenzio, quasi pietrificate dal mio racconto, dalla mia profonda esperienza di vita e di amore.
Un ragazzo dai lunghi capelli neri e una velata di barba mi guardò per qualche minuto, probabilmente incuriosito, come se stesse cercando di scavare in quelle mie parole, chiedendosi quasi certamente se avessi raccontato la verità o se come moltissime persone ero una fottuta bugiarda che cercava di evadere dalla sua prigionia di guarigione.
“Seiil, giusto?”
Il ragazzo si era alzato, continuando a fissarmi negli occhi. Passò qualche secondo prima che riuscì a riconoscerlo: la prima volta che l’avevo visto era nei sotterranei della metro, agitato, con i capelli più lunghi di adesso e con un espressione marchiata, diversa da quella attuale, quasi serena, pacifica.
Il ragazzo che avevo notato tempo prima era uno spacciatore, mentre quello che avevo davanti sembrava solamente un ragazzo, un normalissimo ragazzo sicuro di sè.
Annuii, senza riuscire ad emettere una parola.
“Allora Seiil, come mai hai deciso di raccontarci questa storia? Infondo, non è strettamente legata al tuo obbiettivo, alla tua guarigione. Perché particolarmente questa?”
“Prima di risponderle, vorrei sedermi.”
Il ragazzo sembrò quasi scioccato dalla semplice proposta, fissandomi cautamente nei miei occhi color ocra, sbiaditi quasi quanto il colore della parete.  Avevo notato come aveva fatto con tutte le altre persone che avevano parlato prima di me. Ascoltava i racconti, più o meno intensamente e poi, pensava solamente a distruggere la persona già fragile con parole eccessivamente dure e penetranti, pronte a colpire nei punti deboli, nei buchi grandi tanto quanto delle ville di Hollywood.
Mi sedetti.
“Dovremmo essere qui per fare in mondo di curare i nostri problemi, le nostre anime devastate quindi ho deciso di raccontare la parte più importante della mia anima, la più fragile e delicata, la più sfregiata.”
Per la prima volta in tutta la serata, lo vidi semplicemente annuire, senza aggiungere altro.
Mi alzai, sentendo il suo sguardo ancora su di me, pronta ad uscire da quella maledetta porta che per tanto tempo avevo temuto quasi quanto l’ingresso per l’inferno, pronto per essere percorso dalle mie gambe perfettamente esili e gracili.
Osservai il paesaggio che si stendeva al di fuori di quell’entrata grigia, perfettamente intonata con i colori delle anime che giorno dopo giorno, l’attraversavano, probabilmente non per loro volontà o per lo meno con la consapevolezza che quelle ore sarebbero state inutili e che le avrebbero passate più piacevolmente e più facilmente tra un tiro di coca e una passeggiata verso il puro dolore presente nelle loro anime.
Dopotutto, quel pensiero mi aveva attraversata dal primo secondo in cui ero stata portata lì davanti, ad osservare l’insegna scritta in neretto sul muro adiacente all’entrata.
“Siamo un aiuto, qualsiasi esso sia, esattamente quello che tu desideri.
Non faremo nulla che tu non voglia. Ti ascolteremo. Ti staremo vicino. Saremo il tuo appoggio quando non ce la farai più. Entra, dai un occhiata e poi potrai uscire.
Solo una cosa ti chiediamo: ENTRA.”

Sentii una voce leggere quella scritta, scandendo dettagliatamente ogni parola, marcando ogni accento, con precisione ed accuratezza. Mi voltai verso di lui, anche se fra un miliardo di persone, sarei sempre riuscita a riconoscere quella voce, a sentirla nel mio cuore, sotto la mia pelle, come un marchio, un impronta pesante e pronta a vibrare in qualsiasi momento.
“Alla fine sei entrata, Sey.” Lo guardai in quegli occhi color indaco, magici e spesso difficili anche da osservare, per quella particolarità che era presente nel suo sguardo e nella sua espressione.
“Ho dovuto, Chase.”
Abbasso lo sguardo, triste e melanconico. Sapevo che si sentiva tradito, deluso da me, dalla nostra profonda e duratura amicizia, dalle promesse fatte, dalle sensazioni che per anni avevamo passato a raccontarci ogni sera, tra una birra per lui e l’assoluto nulla per me.
Appoggiai la mano sul suo viso, delicata e leggera, come se lo stessi raccogliendo, pronto per essere curato e lavato dalle ferite appena provocate.
“Chase, guardami.” Sentii il mio corpo fremere, come pronto a combattere, a lottare per ritrovare quello che avevo appena volutamente distrutto. Alzò lo sguardo, mostrandomi i suoi occhi bagnati di leggere lacrime. Gliel’asciugai, lentamente, appoggiando con forza il mio viso sul suo petto, persa ad ascoltare il rumore dei suoi battiti, puntuali e meravigliosi.
Chase era un fratello, un amico –probabilmente l’unico vero-  ed un compagno di emozioni ed avventure, anche se non era mai stato un amante. Se non fosse stato per la sua omosessualità dichiarata sin dai suoi teneri nove anni, me ne sarei innamorata follemente, senza sosta, incredibilmente e con tutto il mio cuore.
In fondo l’avevo sempre amato, in qualsiasi modo il mondo mi avesse concesso di fare. Sin da quando eravamo piccoli tra noi si era creato un legame indissolubile, ricreato ancora dopo tanti anni, forse perché entrambi, quasi senza che ce ne accorgessimo, eravamo stati risucchiati da livelli di dolore inauditi, da malattie, da stati mentali ed emozionali inspiegabili e forse perché, oltre all’altro, non avevamo nessuno.
Chase annuì, allontanandomi da lui e sedendosi sul marciapiedi, qualche metro distante. Tirò fuori una canna dalla giacca di pelle e se l’accese, incrociando le ginocchia. Lo guardai, furtiva ed imbronciata.
A lui non importava mai niente di nessuno, se non di me e delle pochissime persone a cui teneva, come qualche ex ragazzo mai dimenticato.
Aspirò il fumo, lasciandosi attraversare da esso, lasciandosi trasportare in un mondo in cui un po’ d’erba aiutava veramente le cose e prima di tutto, la sua anima lacerata.
“Dovevo.”
“Non è vero.”
“..Perchè non vuoi mai essere aiutato? Perché vuoi sempre morire a causa del dolore?”
Chase respiro e subito dopo inspirò. Non stavo migliorando le cose: al contrario, stavo correndo al contrario, facendolo incazzare ulteriormente.
“Fuck It, Seiil.*” disse con un tono decisamente troppo alto, quasi gridando, prima di cercare di alzarsi ed andarsene. Lo presi per la manica della giacca, impedendogli alcuna via d’uscita.
“Stronzetto inglese, non pensare di mandarmi a fare in culo nella tua cazzo di lingua, pensando che non sappia una parola. Anche io ci sono andata a scuola, idiota!”
Chase emise un sorriso malizioso, denso di ironia e leggera presa per il culo.
“Da quando si imparano le parolacce a scuola?”
Lanciai un sasso particolare e scheggiato con un calcio, facendolo finire qualche metro più in là.
“Da quando per sei anni, ho avuto come compagno di banco uno stronzo inglese che ogni giorno bestemmiava nella sua lingua, pensando che nessuno lo capisse. Appunto, un vero idiota.”
Non so come riuscìì, ma in quell’esatto momento, Chase scoppiò a ridere, abbracciandomi.
La profonda sensazione di calore che provai in quello stretto contatto fra di noi fu strana, qualcosa che avevo provato raramente e in un tempo troppo lontano per essere ricordato con precisione.
Mi staccai da lui, velocemente, come se avessi paura o come se non riuscissi più ad averlo accanto, a sentire il suo odore sulla mia pelle. In fondo non ero mai stata particolare brava ad abbracciare la gente, ad amarla, a sentirla mia e specialmente in quel periodo ero un vero disastro, una specie di conduttore anti emozioni però, Chase, per quanto provassi a respingerlo, tornava sempre da me, più ferito e più fragile ma comunque, si presentava sempre sulla soglia della mia porta e della mia anima: era proprio per questo il motivo per cui alcuni suoi abbracci, quelli sereni e gioiosi mi creavano tanta paura. Avevo sempre avuto paura delle persone che invece di abbandonarmi, avevano deciso di restare.
In tutti quegli anni passati assieme non ci eravamo mai accorti che, in qualche modo, eravamo una famiglia, anche se ferita, disperata, triste, ma pur sempre una famiglia pronta a sorreggersi continuamente.
“Tutto bene, Sey?”
Alzai lo sguardo, vedendo i suoi boccoli neri osservarmi. “Si, tutto bene.”
Sembrò capirmi in quelle brevi parole e nel mio sguardo intrinseco di dolore e allo stesso tempo di gioia.
Mi osservò qualche minuto, poi si sedette accanto a me, in silenzio.
“..Chase?”
Una voce sconosciuta si intromise in quel silenzio perfetto, interrompendolo. Era una voce scura, difficile: era quella del ragazzo presente all’incontro, quello che mi aveva incuriosito, sempre pronto a ferire con le proprie parole le persone, quello con l’aurea maledetta.
“Jacob.” Chase si alzò, avvicinandosi al ragazzo e dandogli un piccolo bacio sulla guancia, mentre Jacob gli mise la mano sul fianco, delicata e leggera.
 Guardandoli, mi sembrarono bellissimi, un insieme stupendo di pura magia ed oscurità. I loro occhi si sfiorarono qualche volta, come se avessero paura di penetrarsi a vicenda, di osservarsi veramente.
Lavori qua?” chiese Chase, intimidito.
Gli occhi cristallinei di Jacob, per un secondo, si fusero dentro quelli di Chase, quasi logorandosi.
Sembrava quasi che un tempo li avesse amati intensamente e che non riuscisse più a guardarli per troppo tempo.
Jacob annuì,  prima di salutarlo ed andarsene.


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Grazie se siete arrivati fino a qua: spero che vi sia piaciuto, anche se non tratta proprio argomenti leggeri. 
Dal prossimo capitolo sarà tutto più chiaro e più dettagliato, come lo saranno le scene di amore e di anoressia.
Spero che continuerete a leggere.
Hannah.

   
 
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