Buio.
Aria consumata. Freddo.
La
stanza in cui si trovava Elizabeth era in questo stato pietoso da 7
anni.
La
notte era già scesa da un pezzo quando lei si
svegliò di colpo, reduce da un
brutto incubo, quello che tormentava i suoi sogni da molti anni a
questa
parte.
Si
alzò, appoggiando la schiena a quello che doveva fungere da
ringhiera del letto
e cominciò ad osservare il luogo circostante. I suoi occhi
erano abituati a
scrutare ciò che la circondava senza neanche uno spiraglio
di luce, perciò la
sua vista si abituò in men che non si dica a
quell’ambiente privo di
luminosità.
Poteva
vedere nitidamente l’armadio alla sua sinistra addossato al
muro e i fogli che
sopra vi sono attaccati. Accanto c’era una cesta per i panni
sporchi e più in
giù dei fogli di carta di giornali stesi per terra
accuratamente. Nella parete
opposta invece, c’era un secchio contenente
dell’acqua la quale poi, veniva
cambiata una volta ogni due giorni. Alla sua destra oltre a
quest’oggetto non
vi era altro.
Solo
tanti quadri. Quadri che rappresentavano scene di vita cittadina e
rurale, di
divinità greche e indiane, di bambini, anziani, adulti e di
animali esistenti e
immaginari.
I
dipinti rappresentavano per Elizabeth un fiore nel deserto. Come un
raggio di
sole che buca la folta coltre di nuvole in una giornata tempestosa.
Erano
qualcosa a cui aggrapparsi per sentire meno dolore, per evadere da
quella
asfissiante situazione. Il gioco preferito di Elizabeth fin da quando
era
bambina era quello di far finta di essere all’interno di uno
di quei quadri e
di assaporare ogni cosa di quell’ambiente puro, incontaminato
dalla crudeltà e
dalle atrocità di cui l’uomo è capace
di macchiarsi.
Ma
anche adesso che era cresciuta non aveva abbandonato questo gioco, per
il
semplice fatto che una persona non abbandona mai la speranza. Ogni
singolo
dipinto di quella stanza erano un pezzetto di lei.
Raccontavano
la sua storia, di come lei si era evoluta ed era cambiata nel corso del
tempo.
A
volte quando si soffermava e ripensava a ciò lo definiva un
po’ macabro e
masochista, ma era il suo unico modo di lasciare quel luogo, o almeno
mentalmente. A dire il vero Elizabeth escogitò nuovi sistemi
per tenere a bada
la paura e per evadere da questa situazione. Per esempio il canto.
Era
dotata di una voce strabiliante, leggera, pura, una voce che per certi
versi era
ancora bianca.
Ma
sarebbe cambiata nel giro di poco tempo, lasciandole una
vocalità da soprano,
acuta ed elegante come il cinguettare di un usignolo. Adorava
cantare, avrebbe voluto diventare una
cantante da grande.
La
intrigava il pensiero di vendere molti CD , di girare il mondo, di
emozionare
le persone.
Ecco
soprattutto quest’ultima. Elizabeth voleva trovare un lavoro
che le piaceva in
modo da procurare un beneficio alle altre persone, di farle stare bene
con se
stesse e quindi di emozionarle.
Era
cosciente del fatto che l’emozione è qualcosa che
penetra sotto lo strato
cutaneo delle persone non solamente con una buona canzone o con una
voce
maestosa, ma anche con tantissimi altri elementi.
Un
dipinto può farci rimanere talmente estasiati che ci riesce
quasi impossibile
staccare gli occhi da esso.
Un
libro per esserci talmente caro per la sua storia o per i suoi
personaggi da
farci provare sentimenti contrastanti. Una persona può
catturarci l’anima e non restituircela
più.
Emozione.
Per Elizabeth
questa parola era connotata solamente da un significato positivo.
Una
parola che potesse essere il contrario di questa pensava fosse impressione.
Questa
per lei aveva solamente un valore dispregiativo.
Elizabeth
rimase impressionata più volte nel corso della sua esistenza. Le immagini che fu
costretta a guardare non
sarebbero svanite con tanta facilità. Nonostante
tutto, è sempre stata una ragazzina
con una grande voglia di vivere, con una volontà
indistruttibile, con una forza
d’animo imbattibile.
Fu
costretta a crescere in fretta, a perdere le gioie
dell’infanzia e si avviava a
perdere anche quelle dell’adolescenza. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di fuggire
da quel luogo malsano e putrido.
Se
non per quest’anno
almeno per quando sarò vecchia e decrepita, osava
ripetere tra sé e sé mentre
giocherellava con i riccioli dei suoi capelli dorati.
Aveva
ereditato dei capelli così belli e lucenti dalla nonna.
Erano identici ai suoi.
Erano il vanto di Elizabeth e lei ne andava molto fiera. La sua chioma
dorata
era offlimits per tutti. Quando
ripensava alla nonna, ma anche ai suoi familiari e ai suoi amici le
prendeva un
forte bruciore di stomaco, dettato da un’inesorabile
nostalgia.
Voleva
ritornare tra le braccia della mamma e tra le coccole della nonna, con
il
cagnolino Lucky che le leccava tutto il viso. Voleva riassaporare il
profumo
del papà, tossire per il fumo proveniente dalle sigarette
dello zio, discutere
con la zia di trucco e cosmetici....
Knock!
Knock! Qualcuno bussò alla porta e seppe esattamente di chi
si trattava.
La
persona dall’altra parte la spalancò senza che
Elizabeth ebbe modo di replicare
e si insinuò nella stanza come un serpente cauto ma
velenosissimo e scattante
al primo segno di precarietà.
“Buon
anno nuovo mio cara”. La voce della donna era fluida e
glaciale.
“Di’
un po’, tieni ancora il conto del tempo?”. Chiese
sarcastica. Poi sogghignò.
Elizabeth
era immobile e non rispose.
Ovvio
pensò. 16 anni dalla mia nascita e
7 anni dal mio
sequestro.