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Autore: itsmemarss    30/12/2010    0 recensioni
Leah ha ventanni. E' giovane, spiritosa, carina. Ma ha un problema: non riesce a innamorarsi. Qualunque ragazzo con cui stia, dopo un po' la molla, ma lei non riesce a versare nemmeno una lacrima. E ormai si è abituata alla cosa. Ma tutto cambierà quando deciderà di tornarsene a casa, a New York, e mettere da parte il passato. Chissà che non incontri qualcuno che le faccia cambiare aria...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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01
-incontri, o meglio scontri-


Aprii gli occhi di scatto, quando qualcosa mi scosse la spalla. O meglio qualcuno.
Per poco non urlai contro l’assistente di volo – una donna sulla trentina, le lunghe ciglia fresche di mascara, gli occhi azzurri che mi fissavano attenti e i capelli biondi raccolti in uno chignon sulla nuca – quasi avessi visto un fantasma.
<< Scusi, ma stiamo per atterrare. Potrebbe allacciarsi la cintura? >> mi chiese, cordiale, indicando il lampeggiante giallo sopra la mia testa. Annuii e strinsi forte le due estremità d’acciaio, cercando di non peggiorare la situazione e limitandomi a ringraziarla.
La voce del comandante si fece sentire poco dopo, invitando tutti a spegnere eventuali cellulari e annunciando l’imminente atterraggio all’aeroporto John F. Kennedy. Quando l’interfono si spense, tornò il brusio di voci sovrapposte.
Sospirai e mi accucciai contro il cuscino, preparandomi all’abbassamento progressivo di quota. Non mi era mai piaciuto volare granché, ma era uno dei tanti prezzi da pagare pur di poter vedere il mondo. E viaggiare era la cosa che amavo di più. Dopo la cioccolata, sia chiaro.
Quando varcavo i confini di un altro paese, città o continente che fosse mi sentivo felice: un misto di euforia e libertà. Era strano, però, da ammettere a chiunque non fosse nella mia mente. L’unica volta che avevo provato a confidarmi con mia madre, si era messa a polemizzare su quanto i paesi stranieri fossero incivili, sporchi e regrediti. Forse era perché non aveva mai messo piede fuori da New York. Bah, non sapeva cosa si perdeva. Le volevo comunque bene, però.
Anzi, non vedevo l’ora di riabbracciare tutta la mia famiglia – mamma, papà e Hunter compreso. Chissà che cosa stavano combinando adesso…
La mia vicina di posto – una bambina all’incirca di nove anni che viaggiava da sola, sotto attenta attenzione delle hostess – cominciò ad agitarsi, impaziente di vedere l’atterraggio.
A un certo punto si sporse verso di me sdraiando misi quasi addosso. Non riuscii a dire niente e la lasciai fare. Non mi erano mai piaciuti i bambini, ma non riuscii a trattenermi davanti alle due finestrelle vuote del suo sorriso timido. Mi ricordava un po’ Hunt alla sua età… non che mio fratello fosse una femmina, eh! Aveva, però, anche lui questa mania di prendersi ogni libertà con gli sconosciuti. Chessò, avrei potuto anche essere un’assassina o un maniaco.
Passai così un buon quarto d’ora a cercare di evitare che il leccalecca della bambina mi finisse fra i capelli, perdendomi il gusto di guardare fuori dall’oblò il delinearsi di grattacieli sull’orizzonte.
Quando le ruote si schiantarono contro l’asfalto grigio della pista e i freni fecero il loro dovere, potei sospirare di sollievo e togliermi quella peste bionda di dosso.
Raccolsi le mie cose, mi misi la borsa a tracolla in spalla e mi avviai verso la punta dell’aereo.
Fui veloce ed evitai la coda degli altri passeggeri, dirigendomi immediatamente verso l’uscita.
Poi, finalmente, riuscii di nuovo a sentire l’aria sferzarmi il viso. Accolsi quella sensazione di familiare con un sorriso. In questo momento, si poteva percepire la brezza proveniente dall’Atlantico, misto ai gas di scarico degli altri aerei.
Dopo aver passato tre mesi in Europa, ero contenta persino di risentire lo smog, purché fosse di casa.
Durò tutto solo qualche secondo, prima di rimettermi in marcia. Attraversai in fretta il piccolo corridoio metallico e mi ritrovai al chiuso.
L’aria condizionata andava alla grande, ma non copriva del tutto quell’odore di persone e luogo antisettico che di solito caratterizza qualunque luogo d’incrocio di tanta gente.
Dopo aver preso le mie valigie – non troppe, preferivo viaggiare leggera – mi diressi verso le porte scorrevoli e poi dritta verso l’area di sosta dei taxi.
Non feci fatica a trovarne uno vuoto, senza nemmeno dover fischiare. Qualunque newyorkese, fin da piccolo, è capace di farlo. Persino con l’indice e il medio.
L’uomo che mi aiutò a caricare i bagagli indossava una maglietta da turista, una di quelle con sopra la statua della libertà sorridente e con i pollici rivolti verso l’alto, e portava un capellino con la visiera al contrario. Si presentò come Paco, mostrando un sorriso brillante.
Il viaggio dall’aeroporto alla città durò quasi un’oretta, soprattutto a causa del traffico pomeridiano. D’altro canto, però, Paco fu un’ottima compagnia. Avessi passato ancora un’ora con lui, saremmo diventati amici. Era un tipo simpatico e cordiale, per niente ficcanaso.
Passammo la periferia e ci dirigemmo verso il centro, dove mia madre abitava in un elegante palazzo dai mattoni bianchi e le porte girevoli. Assomigliava più a un hotel che a una casa vera e propria. C’era persino il portiere, Paul, che per altro mi aiutò a caricare le valigie sull’ascensore.
Prima di andarmene, però, oltre a pagare il conto del viaggio, diedi a Paco anche una bella mancia. In fondo, se l’era guadagnata.


* * *
 

Quando aprii la porta, per poco non rimasi soffocata dall’abbraccio super di mia madre. Lucinda, la nostra governante di famiglia e anche mia ex tata, se ne stava in disparte, ridacchiando sotto i baffi per la scena.
Dopo qualche minuto – che mi sembrò eterno – mamma si staccò da me e mi squadrò per bene, tenendomi le mani salde sulle spalle. << Tesoro… non hai un bell’aspetto. E dov’è il tuo rag- >>
<< Mamma! Anch’io sono felice di vederti >> esclamai, interrompendola prima che potesse finire la frase. Non le avevo parlato della mia rottura con Matt, né l’avrei fatto in futuro. O almeno non per il momento.
Le mostrai il migliore dei miei sorrisi a trecentossessanta denti e presi a parlare dell’unico argomento che le importava sul serio, facendomi largo nell’enorme soggiorno che seguiva l’ingresso. << Hunter? >> chiesi, voltandomi verso di lei con aria innocente.
<< Ah, quello screanzato. Gli avevo detto di arrivare in orario, ma… è sempre occupato con quel suo gruppetto di amici, che per altro non sembrano essere dei pochi di buono. Hanno sempre delle facce… e devi sapere che… >> e blablabla. Bingo. Tirare in ballo mio fratello, equivaleva a salvarmi la pelle ogni qualvolta che dovevo evitare di parlare di argomenti imbarazzanti o nocivi.
Paraurti della macchina di papà sfondato contro un palo, ad esempio? Hunter.
Ragazzo che mi riaccompagna a casa dopo una notte passata fuori? Hunter.
Forse potrei essere incinta, secondo alcuni pettegolezzi del piccolo club che frequenta mia madre? Hunter.
Povero, piccolo, il mio fratellino. Fin da quando è nato, è sempre stato il capo espiatorio di tutti. Non c’è perciò da biasimarlo se, appena può, approfitta per starsene lontano da mamma il più lungo possibile. Soprattutto da quando ha compiuto diciotto anni e ha trovato un appartamento in qualche piccolo quartiere di Brooklyn o giù di lì. Di solito riesco a vederlo solo quando torno a casa o nei periodi di festa, come Natale o il Ringraziamento. Raramente riesce a salvarsi anche da quest’ultime.
Per il resto, si poteva ammirarlo solo nelle foto incorniciate alle pareti colo crema di casa.

 

* * *
 

Non erano nemmeno le tre del pomeriggio e già stavo morendi di sonno. Me ne andai quindi in camera mia, con la scusa di dover sistemare le mie cose dalle valigie all’armadio.
Naturalmente mia madre cercò di farmi cambiare idea, di accompagnarla al Circolo per fare la conoscenza di non so quale vecchia signora imbacuccata in pellicce estive… ma riuscii a farla desistere dopo nemmeno dieci minuti.
Quando sentii il clic della porta che si chiudeva e delle chiavi che giravano nella serratura, potei finalmente chiudere gli occhi e…
<< Signorina Prescott? >>. Per poco non mi venne un colpo, il secondo in tutta la giornata, mentre la voce di Lucinda mi destava da chissà quale fantasia a occhi chiusi. Aprii gli occhi di scatto e mi ritrovai i suoi occhi che mi guardavano socchiusi.
<< Ah! Sei tu Lu’ >> risposi con il fiatone << Potevi bussare >> dissi, guardandola con aria fintamente sveglia. Tanto, ero certa che non avrebbe funzionato con lei, ma tant’è.
<< L’ho fatto signorina >>
<< Oh. Okay. Beh, cosa c’è? >> chiesi, lisciando con noncuranza le coperte color lavanda.
<< C’è qualcuno al telefono per lei >>.
Sulle prime pensai a Matt e deglutii pesantemente, poi realizzai che non gli avevo mai dato il numero della casa dei miei. Sospirai di sollievo e mi alzai dal letto.
<< E’ un certo… signor Wakofield. Perdoni la mia pronuncia, Wakefield >> ripetè lei, cercando di non confondersi con la pronuncia spagnola.
Non le diedi modo di dire altro e corsi a prendere la cornetta nell’ufficio che mio padre usava, prima di andare in pensione, per ricevere i suoi clienti.

 

* * *
 

<< Pronto? >> dissi nel ricevitore, mentre sentivo che mi tremavano le mani per l’agitazione. Mi sedetti sulla poltrona di pelle, all’altro capo della scrivania e incrocia le gambe sulla superficie in legno di quercia.
<< Pronto? Signorina Prescott? Sono il proprietario dell’appartamento che ha visto sul giornale. La volevo informare che può venire a vedere la casa oggi >> mi rispose la voce di un ragazzo. Rimasi un po’ interdetta, mi sarei quasi aspettata un vecchio e invece questo qua sembrava avere quasi la mia stessa età. Almeno di voce…
Cercai di trattenere l’euforia. << Sul serio? Per che ora? >>
<< Le andrebbe bene verso le sei? Senno potrebbe anche passare- >>
<< No, no. Va benissimo anche così >> lo interruppi, quasi come fossi una quindicenne davanti alla richiesta di uscire del capitano di football.
<< Okay, allora a più tardi >> rispose l’uomo dall’alra parte della cornetta.
<< Arrivederci >> dissi e misi giù.
Avrei voluto urlare per la gioia. L’appartamento in questione era più della casa dei sogni che qualunque bambina poteva aver sognato di abitare nella sua infanzia. Equivaleva all’appartamento dello stesso Principe Azzurro. Senza Principe incluso, naturalmente.
E domani l’avrei finalmente vista con i miei occhi! Se la trattazione avesse dato i suoi frutti… hasta la vista casa di Matt e bonjour nuova vita.

 

* * *
 

Ero talmente emozionata, che non riuscii a resistere in casa per più di un’ora.
Così raccattai dalle valigie un paio di pantaloncini, una camicietta a quadri e un paio di sandali. Per essere primavera, si stava bene, ma io ero totalmente esagerata quando si trattava di stagioni. Non avevo il minimo senso pratico, così sceglievo le cose da mettere in base all’umore e non di certo al termometro.
Per finire, presi un vecchio cappello di paglia di mia madre e me lo sistemai in testa.
Erano le quattro esatte, quando mi chiusi la porta di casa alle spalle, sotto lo sguardo di disapprovazione di Lucinda, che avrebbe dovuto sistemare le mie cose al posto mio.
Povera Lu’… ma mia avrebbe sopportato ancora per poco.

 

* * *
 

New York era da sempre stata la mia città. Ormai ci vivevo da quando ne avevo memoria e conoscevo le sue strade come le mie tasche. O almeno avrei dovuto, perché il mio senso di orientamento era pari a zero – tale e quale la temperatura invernale della Groellandia – e finii per perdermi in mezzo a Times Square.
Cercai alla belle e meglio di orientarmi, ma dopo un’oretta o due mi arresi e decisi di prendermi una pausa.
Approfittai di un chiosco di gelati all’angolo tra Central Park – almeno quello sapevo riconoscerlo – e una piccola viuzza trafficata per chiedere informazioni e anche riempirmi lo stomaco.
Secondo l’orologio erano le cinque passate e il mio stomaco non toccava cibo da mezziogiorno.
Così ordinai un enorme cono gelato al cioccolato e alla fragola e ascoltai attentamente le indicazioni del gelataio. Almeno in quello ero brava: riuscivo a tenere a memoria un sacco di cose. Caratteristica di famiglia.
Scoprii di essere molto più vicino alla mia destinazione, di quanto pensassi. Solo pochi isolati mi dividevano, infatti, dalla via in cui – presto? – avrei abitato.
Feci cadere un paio di monetine nella mano dell’uomo paffuto, vestito con un grembiule bianco, e lo ringraziai.
Tutta contenta, il sorriso a novantadue denti e gli occhi chiusi, mi preparai ad addentare la delizia che tenevo in mano. Pochi istanti dopo mi accorsi, però, con disappunto che la mia lingua brancolava nel vuoto.
Fui così costretta ad aprire gli occhi e mi ritrovai a fissare il mio gelato. O almeno quello che ne restava, mentre un grosso cane si occupava di pulirlo – o meglio leccarlo – via dal terreno grigio del marciapiede. Addio gelato. Spero che andrai nel paradiso dei dolci… okay, il basso tasso di glicemia mi stava cominciando a dare alla testa.
<< Accidenti! Mi dispiace tanto. Mi è sfuggito di mano il guinzaglio e non sono riuscito a rincorrere abbastanza in fretta Charlie, cioè il mio cane. Sai, lui adora il gelataio e… >> si fermò per qualche secondo a guardarmi, forse non vedendomi reagire. In effetti, stavo ancora fissando il mio cono, spappolato sull’asfalto. << … ehm, non ti ho visto… tutto bene? Se vuoi, posso ricomprartene un altro. Voglio dire… >> continuò lui, passandosi una mano tra i capelli, leggermente preoccupato.
Alzai lo sguardo, pronta a fronteggiare quello screanzato di un assassino di gelati, quando incontrai un paio di occhi nocciola e le parole mi morirono in bocca. Letteralmente.
Qualunque cosa volessi rispondere, fu annientata dall’espressione del suo viso. Beh, anche dal suo visto stesso. Cioè, insomma, beh. Okay, in quel momento non sapevo proprio cosa dire, nemmeno alla mia testa.
Continuava a fissarmi in attesa di una mia risposta. Le sopracciglia leggermente arcuate verso l’alto, lo sguardo da cucciolo innocente, il mezzo sorriso che mi stava rivolgendo. Era chiaro, quel ragazzo mi stava facendo morire e non lo conoscevo nemmeno.
<< Se lo vuoi davvero, v-va bene… >> biascicai, cercando di richiudere la bocca.
<< Okay! >> esclamò, illuminandosi tutto. << Allora due coni gelato, identici a quello che aveva ordinato prima la signorina qui presente >> disse poi, rivolto al gelataio, il quale sorrise spostando prima lo sguardo sul ragazzo e poi su di me.
<< Comunque… io sono Liam, piacere >> si presentò, appoggiandosi al baracchino dei gelati e continuando a fissarmi. Io non fui da meno, sebbene cercassi ogni tanto di distogliere lo sguardo. Proprio in uno di quei – rari – momenti, mi accorsi che il suo cane stava cercando assiduamente di accoppiarsi con la mia gamba.
<< Ehm, piacere di conoscerti, ma… il tuo cane… >> cercai di dire.
<< C’è qualche problema? >> chiese lui, perplesso.
Risposi indicando con un cenno dell’indice il labrador a pelo lungo dorato che si stava allegramente divertendo a muoversi su e giù.
Lui seguì il mio gesto e sembrò riprendersi da una transe. << Oh, cavolo. Charlie! Charlie, lascia stare la gamba di questa ragazza. Suvvia, da bravo. Charlie! >> Mentre Ian cercava di far desistere il suo cane, io me la risi alla grande. Erano davvero carini. Mi chiesi persino se non fosse una tattica che usava di solito per accalappiare le ragazze. Di una cosa, però, ero certa: con me stava funzionando alla grande. Sebbene l’idea di quello che stava succedendo ai piani bassi, non mi entusiasmasse più di tanto.
<< Scusa, non so nemmeno come sia possibile. Di solito non fa così… >> disse Ian poco dopo, riprendendo il controllo del suo fido e arrotolandosi più volte il guinzaglio intorno al polso.
<< Non fa niente… rimane lo stesso un bellissimo cane >> E tu un magnifico padrone, pensai guardando il ragazzo dagli occhi color cioccolato.
<< Ecco i vostri gelati, ragazzi. Buon appetito >> ci augurò il gelataio, porgendoci i due coni.
Ian pagò con una banconota e non pretese indietro il resto. Poi, tirandosi indietro i capelli con la mano libera, tornò a sorridermi. Anche i capelli erano marroni, ma di una tonalità più scura.
<< Beh, grazie mille per il gelato. C-ciao! >> dissi all’improvviso, dandogli le spalle e cominciando a camminare verso la meta del mio appuntamento delle sei con il padrone di casa. Okay, se fossi rimasta lì a fissarlo ancora per molto, mi sarebbe venuta la bava alla bocca… e poi mi ero mollata con Matt da nemmeno ventiquattr’ore. Va bene non essersela presa, ma così sarei stata a dir poco menefreghista totale. In fondo lo avevo frequentato per ben sei mesi. Sei!
<< Aspetta! Non so ancora il tuo nome >> mi fermai nel sentire di nuovo la sua voce. Dannata debolezza… strinsi i pugni e cercai di ridarmi un contengno, tanto per non sembrare una piccola adolescente dagli ormoni in subbuglio.
Voltai la testa lentamente. << E’ Leah >> risposi, sorridendo debolmente. << Ora, scusa, ma devo scappare! >> e corsi verso il semaforo, il quale rischiava di diventare pericolosamente rosso e se fossi rimasta ancora in sua compagnia… beh, avrei finito per dare retta agli ormoni.


ANGOLO AUTRICE.
Okay, finalmente sono riuscita a postare il primo capitolo. Più che altro perchè ero molto indecisa su come suddividere i capitoli.
Ma alla fine ce l'ho fatta a scegliere e quindi eccomi qua *smile* Per il resto... non ho molto altro da dire. Spero solo che non deluda chi abbia messo questa storia fra le seguite! Al prossimo aggiornamento che spero sia presto :D

   
 
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