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Autore: VerlaineLover_    31/12/2010    4 recensioni
A Matthew, giovane rampollo dei conti Bellamy, è stata promessa in moglie la dolce, ma insignificante, piccola Lilith Howard, sorella del ben più affascinante Dominic; quando però le due famiglie fanno conoscere i promessi sposi, accade qualcosa di imprevisto e altrettanto proibito.
Soli contro un mondo di apparenza e formalità, travolti da una folle passione, due ragazzi scopriranno rischiando il tutto per tutto quant'è pericoloso innamorarsi.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Le Relazioni Pericolose.


"Temo sempre -e ne ho il cuore di gelo- che tu mi debba mancare...
dell'alloro di foglie laccate ho fastidio, e del bosco, e di quelle campagne assolate,
e di tutto... all'infuori di te."
Verlaine, Spleen.


(Nda: Salve, lettori e scrittori di EFP! Sono tornata, dopo lunghi mesi d'assenza durante i quali scommetto che avete pensato che mi fossi tolta di mezzo, alla carica. Il titolo di questa FF è ispirato ad un libro, che però non c'entra niente con la mia storia. Mi sono ispirata (per lo stile) a persone che ritengo maestre per me, spero non dispiaccia. Penso che sia strana e un po' particolare rispetto alle altre. Buona lettura!)

Il castello dei conti Bellamy era arroccato su un'altura che spiccava rispetto al resto del paesaggio per l'altezza; se il mare in lontananza segnava il livello zero, la loro reggia si aggirava attorno ai seicento metri d'altitudine. Una strada a chiocciola costituiva l'unico passaggio per giungere alla cima, ed era piuttosto difficile da percorrere, vista e considerata la terra battuta mista a ghiaia di cui era composta.
La collina non era l'unica complicazione d'affrontare per arrivare a destinazione. Tutt'attorno alla costruzione infatti v'era un bosco folto e selvaggio, che fungeva da nube oscuratrice per chi provasse a scrutare la residenza da lontano, e poi bisognava farsi aprire il cancello scuro e appuntito, lunga recinzione che circondava l'edificio, per entrare.
Un cortile curato e riccamente abbellito accoglieva infine l'ospite, fra fontane e scuderie, fra aiuole, fiori e orti. Statue raffiguranti personaggi della mitologia classica troneggiavano sulla scalinata d'ingresso, una ventina di gradini in marmo bianco, e parevano suggerire col solo sguardo fiero tutta la nobiltà della famiglia che le aveva lentamente collezionate. La targa "Conti Bellamy" posta sopra un grande portone in legno massiccio luccicava sotto i raggi solari o lunari, facendo così risplendere le lettere spruzzate d'oro che annunciavano a chi non l'avesse ancora capito che lì, a regnare, era la dinastia Bellamy.

Il venti Gennaio di quel gelido 1850, risuonarono nel grigio cortile i passi battuti dai due cavalli neri che trainavano la carrozza dei conti Howard. Le bestie si arrestarono di colpo davanti alla scalinata in marmo bianco, ancora prima che il cocchiere potesse frustarli, e sbuffarono accaldate nell'aria tagliente. Il maggiordomo di casa Bellamy notò il loro arrivo, quindi si precipitò in sala, dove davanti allo scoppiettare del caminetto i signori attendevano, dopo annunciò la venuta degli Howard.
"Mr. e Mrs. Bellamy, sono giustappunto arrivati i conti Howard. Vado ad aprire?" chiese con la sua voce baritonale.
"Certamente." Fu la risposta del conte Bellamy, che si alzò dalla poltrona su cui riposava e fece cenno alla moglie di andare ad accogliere gli ospiti.
Otto piedi scesero dalla carrozza. Quelli del signor e della signora Howard, quelli del signorino e della signorina Howard. La famiglia si avviò in silenzio su per la scalinata e, strada facendo, non scambiarono parola.
Solo l'apertura del grande portone destò la loro attenzione; aspettarono che si fossero spalancate le porte, poi entrarono, particolarmente sincronizzati e aggraziati com'era solito nella loro camminata cadenzata. Ammirarono la maestosità della sala d'ingresso, un'alta stanza dalle pareti addobbate con quadri e trofei, lanciarono uno sguardo su per la doppia scala che conduceva ai piani superiori e infine abbassarono gli occhi verdi, tutti dello stesso verde smeraldo, sui conti Bellamy che li osservavano ambientarsi.

"Benvenuti nella nostra residenza, conti Howard" annunciò il conte Bellamy, inclinando la testa da un lato, gesto che simulava un inchino.
"Ne siamo onorati, conti Bellamy" rispose in tono pacato Mr.Howard, accennando un sorriso cordiale.
"Vorrete accomodarvi, signori" aggiunse il maggiordomo e indicò con un teatrale movimento del braccio sinistro la direzione da seguire per la sala del tè.
"Con piacere" commentò Mrs.Howard, ordinando con uno sguardo ai suoi figli di seguirla.

Si sedettero su sei poltrone imbottite e ricoperte di velluto blu nelle vicinanze del camino. Due cameriere consegnarono ad ognuno una tazzina in ceramica bianca bordata d'argento, e ci versarono lo zucchero o il latte a loro piacimento.
I cucchiai tintinnavano contro le pareti delle tazze nell'atto di mescolare il tè, quando la signora Bellamy pensò fosse giusto procedere con le presentazioni.
"E voi due siete, giovani?" domandò, rivolgendosi al ragazzo e alla ragazza che fino a quel momento non avevano aperto bocca.
"Dominic James Howard, contessa Bellamy" rispose il fanciullo dall'aria inoffensiva e gli occhi dolci.
"Lilith Howard, contessa Bellamy" rispose la ragazzina i cui biondi boccoli ricadevano così perfettamente sullo stretto corpetto dell'abito confetto indossato che la signora Bellamy dovette riconoscere che fosse davvero un'ottima scelta per suo figlio.
Infatti occorre precisare il motivo di quell'incontro tanto formale da risultare quasi finto: legare le due dinastie in un matrimonio, quello fra l'angelica Lilith e...
"Matthew, nostro figlio, è in ritardo, ma credo che lo vedremo entro un paio di minuti" disse Mrs.Howard, come se ci tenesse a far capire che loro figlio esistesse realmente.
"Lo aspetteremo gustandoci questo prelibatissimo tè, signora Bellamy" commentò il conte Howard, volendo mettere a proprio agio la contessa che sembrava profondamente infastidita dall'assenza del figlio.
"Lo coltiviamo nei nostri possedimenti all'estero, signor Howard" lo informò il conte Bellamy.
Indicò con lo sguardo una grande cartina dipinta su una facciata della stanza, poi aggiunse:
"In America, dove vive cioè l'altra metà della nostra famiglia."
Gli Howard annuirono, mentre il fumo uscente dalle tazze confondeva i lineamenti dei loro bei volti. Era lampante il valore dell'antica nobiltà dei Bellamy; lampante come la loro ricchezza, come il loro sangue blu e la loro passione per l'arte purché fosse lussuosa.

Il giovane Dominic, chiuso nell'imbarazzo e nella noia di un diciassettenne che deve partecipare sott'obbligo ad una cerimonia di cui non potrebbe importargli di meno, trattenne uno sbadiglio, quando improvvisamente sulla porta comparve un'ombra.
Fu il primo ad accorgersene; gli altri, sua sorella compresa, s'intrattenevano scambiandosi notizie a proposito del gran ballo programmato da altri nobili della città in programma per fine mese. Squadrò con sospetto e sorpresa il fascio nero che si proiettò allungato e bislungo nella luce proveniente dall'atrio e capì che si trattasse del figlio dei conti Bellamy semplicemente pensando che fosse un'ombra troppo piccola per appartenere ad un adulto.
Matthew, sedici anni di ragazzino alto a mala pena 1.68cm, introdusse un piede nella sala del tè. Era magro, oserei dire scheletrico; indossava un completo nero diviso in pantaloni abbondanti e giacca sopra una camicia bordeaux, scarpe troppo lunghe e qualche gioiello, quale una collanina di oro, che si intravedeva attraverso i vestiti.
I suoi capelli erano disordinati. Lisci e scurissimi, o erano stati appena scompigliati da una folata di vento, oppure erano giorni che non li pettinava. Il viso invece appariva così bianco e perfetto da stonare col resto; sembrava lo avesse rubato ad una delle statue nel porticato, o che uno scultore avesse appena finito di intagliarlo.
A colpire Dominic furono gli occhi. Rimase un indeterminabile periodo di tempo a guardarli, forse catturato dal loro azzurro, forse dalla loro forma affilata. Il biondo conte si sentì mancare la terra sotto i piedi quando l'ombra diventata realtà posò lo sguardo su di lui. Solo dopo qualche secondo realizzò che probabilmente non stava guardando lui, ma il muro alle sue spalle; le biglie azzurre infatti vagarono nel vuoto, poi sparirono sotto due pesanti palpebre che vennero chiuse.

"Ah! Matthew!" esclamò festante la contessa Bellamy e nascose sotto la sua gioia apparente un rimprovero per il figlio ritardatario.
"Vieni avanti, ci sono i nostri graditi ospiti da presentarti" gli ordinò il padre, appoggiando la tazzina vuota del suo tè su un tavolino basso.
Lilith capì che quello sarebbe stato il suo futuro sposo e ne rimase mortificata. A partire dagli abiti scuri da funerale, a finire con la faccia da roditore anemico, pensò di non aver mai incontrato ragazzo più brutto. Conte e contessa Howard assunsero un'espressione indecifrabile.
"Buonasera" sussurrò Matthew, ma nessuno lo udì per la debolezza e la mancanza d'entusiasmo con cui pronunciò quel saluto.
Avanzò a passo lento e insicuro. Dominic trovò buffo il suo modo di camminare, molto simile a un neonato che compie i primi progressi, per questo trattenne un sorriso, e cercò di controllare anche la strana morsa che gli stava per annodare lo stomaco. Quando fu al centro delle poltrone si fermò e attese, mani lungo i fianchi e sguardo conficcato in chissà quale mattonella ai loro piedi.
"Matthew, i conti Howard" disse il signor Bellamy e si augurò che il resto delle presentazioni venisse svolto dagli altri, così da potersene stare in pace.
"Piacere, giovanotto. Sono il conte Howard e questa è la mia famiglia. Mia moglie, la contessa, e i miei figli" disse il signor Howard e ripropose lo stesso sorriso di cortesia di prima.
Matt non riuscì a fare altro che alzare lo sguardo e passarlo velocemente sulla famiglia ospite, senza guardare veramente nessuno. La contessa Howard permise ai figli di presentarsi con un cenno del capo.
"Piacere Matthew, sono Lilith Howard" dichiarò la ragazza, questa volta alzandosi in piedi, inchinandosi reggendo la gonna e tornando a sedere sicura d'aver fatto bell'impressione, o per la lunga chioma dorata, o per la grazia del suo corpo così minuto.
Fu il turno di Dominic, ma il giovane boccheggiava. Non era mai capitato in vita sua di trovarsi in reale difficoltà di fronte a qualcuno, nonostante di persone onorevoli ne avesse viste tante, però questa volta gli mancavano davvero le cose fondamentali come la voce, il respiro, l'equilibrio. Sperò con tutto se stesso che fosse solo una sensazione passeggera e, sotto gli sguardi incalzanti della madre, si affrettò a pronunciare il suo nome.
"Dominic Howard."

Matthew annuì assente e spostò gli occhi sul padre, quasi per supplicarlo di lasciarlo andare via.
"Parlavamo del ballo di fine mese, figlio mio. Avrai l'accortezza di accompagnare la signorina Lilith, vero?" gli chiese-impose l'uomo che nel frattempo aveva cercato un modo per rompere il ghiaccio fra i due promessi sposi e aprire una breccia nel cuore del ragazzo.
Il giovane dai capelli scomposti pensò che la sua futura sposa fosse solo una stupida bambina a cui erano stati insegnati due passi di danza e a cui qualche balia avesse spruzzato troppo profumo; pensò che non avrebbe mai ballato, e lo avrebbe fatto ancora meno probabilmente con lei.
"Forse il signorino ha qualcosa da obiettare?" intervenne il conte Howard dopo un minuto di silenzio.
La madre di Matthew trasalì, il padre cercò di annientarlo con un'occhiataccia. Ma lui rimase impassibile nel suo disgusto e ignorò la domanda.

Dominic si sentiva morire di rabbia. A parte il fatto che in quei pochi minuti aveva sicuramente vissuto molti più stati d'animi che negli ultimi cinque anni della sua vita, ribolliva di rabbia perché era scioccato dalla violenza con cui tutti parevano accanirsi su quel delicatissimo Matthew. Trovava inaccettabili le maniere aggressive del padre, quelle soffocanti della madre, quelle nauseabonde della sorella. Avrebbe voluto gridar loro: "state zitti, non capite che è spaventato?"
"Devo andare in bagno" ammise dal nulla, attirando tutti gli occhi su di sé pur di liberare Matthew.
"Cosa?!" esclamò sua madre allibita dalla sfrontatezza del figlio che credeva d'aver cresciuto bene.
"Oh, non c'è...problema. Il maggiordomo sarà felice di accompagnarti" disse il conte Bellamy, anche lui stranito, poi chiamò il servo.
Ma il maggiordomo stava parlando col giardiniere nel cortile e non udì la voce del suo padrone.
"Dove sarà finito... vorrete scusarmi, ma forse è meglio che Matthew mostri la strada al signorino Dominic" risolse infine il conte e si promise di rimproverare quel maggiordomo negligente.
Lilith ringraziò il cielo perché le toglieva quell'essere dalla visuale, mentre Dominic si alzò per concludere la farsa di cui si era reso protagonista solo per soccorrere
un perfetto sconosciuto che oltre tutto sembrava non essersi accorto neppure di lui.

Fuori dalla stanza con gli altri, parve cambiare ogni cosa. L'aria tornò respirabile e il pavimento percorribile. Anche Matthew camminava con più sicurezza e finalmente era fatto di carne ed ossa, non più d'ombra e paura. Dominic lo seguì su per la scala doppia davanti al portone d'entrata e non osò fiatare, neanche per ringraziarlo di averlo accompagnato. Non riusciva a togliersi di dosso l'impressione che Matthew vivesse solo perché qualcuno glielo aveva ordinato.
"Signorino Matthew, dove va?" chiese una cameriera che li incrociò, evidentemente non abituata a vederlo in compagnia.
"Adempio agli ordini impartitemi da mio padre, Agata. Lasciaci passare."
Dominic rimase esterrefatto dalla sicurezza con cui parlò. Si rivelava molto più interessante di quanto già non fosse sembrato prima.

Arrivati al bagno, una spaziosa stanza alla fine di un corridoio di media lunghezza sulla sinistra, Matthew si fece da parte. Dominic gli passò davanti e ebbe la netta sensazione di avere i suoi occhi su di sé; per questo rabbrividì, poi avanzò fino a chiudersi in bagno. Per prima cosa si lavò il volto, non sopportava più quel calore nelle guance. Per seconda cosa cercò invano di urinare, e infine andò a specchiarsi, nella speranza che il pensiero di essere in brutte condizioni fosse solo un presentimento.
Matthew nel frattempo aveva solo fissato il quadro che si era trovato davanti. Odiava ogni cosa di quella casa, ma particolarmente i quadri, le sculture, i tappeti. Si chiese se davvero avrebbe sposato una ragazzina viziata, poi preferendo la morte a quest'opzione abbandonò le riflessioni, anche perché Dominic aprì la porta.
Lo intimidiva molto quel biondino dalle sembianze tanto eleganti; si sentiva come allo scoperto con lui, come se non potesse ingannarlo poiché era molto più intelligente di chiunque altro.
"Andiamo?" domandò Dominic e si rese conto solo dopo aver parlato che quello era il loro primo e vero dialogo.
"Sì" bisbigliò Matthew con le farfalle nello stomaco e un leggero mal di testa.

"Ma quello è un pianoforte!" disse Dominic, prima di svoltare l'angolo per scendere le scale. Aveva sbirciato nell'ultima stanza e aveva visto un pianoforte sistemato nel centro, un triste pianoforte abbandonato alla luce blu della sera.
Matthew fece dietro-front e chiuse la porta violentemente. Guardò per la prima volta Dominic dritto negli occhi e sussurrò:
"È il mio pianoforte."
Dominic sentì il bisogno di assicurargli che non gli importava niente del pianoforte, vista la reazione violenta, e che poteva tenerselo uno stupido pianoforte. Ma non disse niente, tentò solo di sostenere lo sguardo.

"Ma che casa, che splendore di casa!" ammise la contessa Howard, quando furono ancora tutti nell'atrio.
"La ringrazio, ora le mostro la biblioteca" le disse la contessa Bellamy, precedendola.
Matthew sentì le loro parole provenire dal pian terreno e tornò sui suoi passi, svelto e scaltro.
"Eccoci, madre" disse, non appena si resero visibili agli altri.
Il gruppo alzò gli occhi verso i due e, come se niente fosse, avanzò dietro alla contessa Bellamy per visitare la biblioteca. Rimasero un'altra volta soli, dato che non li seguirono.

"Io me ne vado" bisbigliò Matt. Fece per prendere un'altra scala e scomparire nel labirinto di corridoi del secondo piano, quando Dominic, che di rimanere abbandonato nel mezzo di una casa enorme e per giunta sconosciuta non aveva intenzione, lo chiamò.
"Matthew?"
Nessuno dei due era abituato a rivolgersi ad un'altra persona senza prima elencarne i titoli nobiliari o quant'altro, perciò la mancanza di preamboli creò imbarazzo.
"Cosa c'è?"
"Io...cosa faccio?"
Matthew alzò spalle e sopracciglia, poi disse:
"Questo non mi riguarda" e sparì su per una scala che dava in un corridoio biforcato alla fine.

Dominic si sentì inutile e solo, solissimo in quella casa troppo grande, quindi decise di raggiungere gli altri; non sapeva che Matthew, già chiuso in camera sua nella torre, si odiava fino in fondo per essere stato così scortese con l'unica persona che da quand'era venuto al mondo gli era... piaciuta! E faticava a crederci.



  
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