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Autore: Aya Lawliet ___backupFGI    31/12/2010    12 recensioni
«Non occorre che tu sia tanto formale con me, lo sai. Dimmi cosa c’è.» (...)
«Non è venuto. Era la mia festa di laurea,
e lui non è venuto
{Jervis/Judy ♥}
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jerusha 'Judy' Abbott, Jervis Pendleton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciò che trascende un nome ~

prompt: #100, joy doubled – sorrow halved

 

 

 

Judy aveva pianto. Aveva cercato in ogni modo di non darlo a vedere: aveva riso alle congratulazioni farfallone dei McBride, aveva conversato amabilmente con Julia, aveva distribuito saluti e baci e abbracci alle compagne venute a complimentarsi e aveva sorriso dolcemente a lui, quando per un istante appena lo aveva intravisto nel pubblico. Ma aveva pianto; Jervis lo sapeva. Sapeva fin dall’inizio che avrebbe trovato quel dolore nei suoi occhi, proprio nel giorno che avrebbe dovuto essere il più felice della sua vita.

E saperlo non gli aveva impedito di infliggerle quel dolore. Forse lei lo avrebbe odiato, se avesse saputo.

Più tempo. Doveva aspettare più tempo.

Era quasi sera sul Fergussen; il campus s’era svuotato di ogni traccia di festeggiamento. Le studentesse erano rientrate nei loro alloggi, già pronte a dimenticare tutto e a correre in viso alla vita delle donne adulte che erano appena diventate. Ma c’era ancora una giovane donna seduta nel verde del campus, e anche ora Jervis sapeva che l’avrebbe trovata lì.

«Come mai così triste, dottoressa Abbott?»

Judy sussultò. Alzò lo sguardo su di lui. Arrossì.

«Mi perdoni, signorino Jervie, non l’ho sentita arrivare.»

Sedette accanto a lei, con naturalezza, proprio come erano soliti fare sulle colline a Lock Willow. Le sorrise, quasi meravigliandosi di quanto fosse diverso, detto da lei, quel ‘signorino Jervie’ che nella bocca zuccherosa della signora Semple non riusciva a suonare così dolce.

«Non occorre che tu sia tanto formale con me, lo sai. Dimmi cosa c’è.»

Judy chinò il viso. I lunghi capelli sciolti le scivolarono sulla tempia, nascondendogli allo sguardo i suoi occhi incupiti – grazie al cielo: non era sicuro di poterne ancora sopportare la vista.

Tormentandosi le mani in grembo, la voce ridotta a un sussurro, lei buttò fuori quel segreto che prima le aveva fatto scegliere un solo fascio di fiori [non quelli di Jervis Pendleton: solo quelli di Papà Gambalunga] e poi le aveva ucciso dentro ogni speranza.

«Non è venuto. Era la mia festa di laurea, e lui non è venuto

Jervis lasciò passare qualche istante. Sperò che Judy, nella sua innocenza di piccola ingenua sognatrice, pensasse che le stesse dando il tempo di riprendersi. Odiava sapere che la realtà era ben diversa: era lui ad aver bisogno di un momento per non rivelarle subito tutto, ora e subito, prendendole il viso tra le mani e guardandola finalmente negli occhi e dicendole quelle tre dannate parole – lui sono io, Judy, sono io, sono sempre stato io – che no, no, non poteva ancora dirle, non ancora. Se lo avesse fatto adesso, l’avrebbe persa per sempre.

Non avrebbe mai immaginato, quando la signorina Pritchard aveva letto quel tema scolastico ai Consiglieri del John Grier, che la ragazzina che lo aveva composto sarebbe diventata una parte così indispensabile del suo cuore. Non avrebbe mai immaginato che le parole di Jerusha Abbott si sarebbero fatte strada attraverso la vuotezza della sua facciata e sarebbero permeate in profondità, lì dove c’era Jervis: non il Pendleton, non il consigliere, non il filantropo, neppure il ‘signorino Jervie’.

Ma era accaduto. E da quando la curiosità lo aveva spinto a venire ad incontrare quella ragazza, non poteva più permettersi di rischiare di perderla.

Recuperò l’ardire necessario a prenderle delicatamente una mano – quella mano che gli aveva scritto fiumi di lettere che lei non aveva mai saputo finissero regolarmente nelle sue, a farlo ridere, a farlo riflettere, a farlo emozionare – e le parlò a bassa voce, senza forzarla ad alzare lo sguardo.

«Non odiarlo per questo. Potrebbe avere mille ragioni per non essersi presentato. Non parliamo di lui; vuoi?»

Le labbra di lei si tesero in un sorriso amaro. «Non parlo mai di lui. Non so abbastanza di lui da poterne parlare con qualcuno.»

Jervis sospirò. Era mai possibile arrivare al punto di essere gelosi di se stessi?

Judy levò finalmente il viso, e lui poté vedere che, malgrado quell’espressione di accettazione, nei suoi occhi erano comparse delle lacrime nuove che non c’era più bisogno di soffocare. Si maledisse mille volte, per il suo non poterle mandar via [non ancora non ancora non ancora] – eppure c’era una cosa che avrebbe potuto fare; una cosa semplice, che non teneva conto di nomi, di soprannomi, di identità poiché trascendeva tutto il resto.

Si chinò su quel viso prima che il pianto lo inumidisse, sfiorando la sua bocca per la prima volta.

Judy restò per un istante immobile, incerta, meravigliata. Ma proprio quando lui stava per scostarsi, sciolse la mano dalle sue e lo strinse a sé, piano, come un sogno che si cerca di non infrangere alla luce del mattino. E a Jervis venne quasi da sorridere nel chiedersi se lei, nella sua prossima lettera, avrebbe raccontato anche questo a Papà Gambalunga.

La baciò ancora, e ancora e ancora e ancora, consapevole che Judy non aveva bisogno di un nome in quel momento, che con lei era quel se stessi a contare, nient’altro.

Un giorno avrebbe saputo e allora forse lo avrebbe odiato. Ma forse no; perché forse lo amava almeno una piccola parte di quanto l’amava lui.

Ormai era quasi buio sul Fergussen e su di loro: loro che in quel momento erano soltanto un uomo e una donna.

 

 

 

[ 865 parole ]

 

 

 

 

 

 

Nota: Lessi Papà Gambalunga per la prima volta in quarta o quinta elementare. Il bello del rileggere a distanza di tanti anni un libro che ti ha accompagnato nell’infanzia è che puoi trovare mille sfaccettature, mille significati, mille prospettive che all’epoca non potevi comprendere appieno. Rileggendolo per la – forse – dodicesima volta, ora che qualcosina in più posso notare, ho deciso di concentrarmi per un attimo sul punto di vista di Jervis Pendleton.

Il problema del romanzo epistolare è che il lettore conosce unicamente il punto di vista di chi scrive le lettere, dunque del protagonista. Gli altri personaggi ci appaiono sfocati, filtrati dagli occhi e dalle parole di chi ci racconta la storia rivolgendosi a un destinatario che ci è comunque estraneo. Io però mi sono sempre chiesta come si sentisse Jervis, se gli facesse male continuare a mentire a Judy sulla sua identità, e cosa l’abbia spinto a tenerle tutto nascosto fino alla fine. Sono giunta alla conclusione che il suo unico timore era di essere odiato da lei; quando però Judy scrive a Papà Gambalunga di essere innamorata del signorino Jervie, naturalmente tutto si risolve con un bel lieto fine. Ugualmente mi sono domandata quando, esattamente, sbocci qualcosa tra i due: Judy non lascia indizi sul fatto che Jervis si sia dichiarato a lei prima di proporle di sposarlo, a Lock Willow, ma ho immaginato che ciò potesse esser accaduto in un momento come la festa di laurea – quando Judy è disperata per l’assenza del suo Papà Gambalunga e Jervis è lì e non può dirle niente: non può dirle che in realtà lui c’è.

Questa è una one-shot senza pretese su un libro che forse non è davvero un ‘classico’ del Novecento, ma che a mio avviso racconta una delle più belle storie d’amore che siano mai state raccontate. Spero che i lettori apprezzino il piccolo omaggio con cui ho voluto attirare un po’ l’attenzione sul capolavoro di Jean Webster. Un felice 2011 a tutti voi <3

   
 
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