Ritornare
alla vita
Non
so chi ha detto che solo i morti hanno visto la fine della guerra.
Io ho visto la fine
della guerra ,
ma la domanda
è: potrò tornare alla vita?
Il
cuore batteva piano, ogni battito una pugnalata. Un lenta pugnalata in
pieno
petto.
Ogni respiro un dolore ai polmoni, l’ossigeno pareva
bruciarmene le pareti.
Gli occhi mi bruciavano e la vista era annebbiata da un perenne velo di
amare lacrime.
Tremavo e non era per il freddo. Era Primavera ed il sole filtrava
attraverso
le tende bianche, illuminando il soggiorno vuoto.
I fiori sul davanzale, tulipani, i miei preferiti, cominciavano ad
appassire.
Ero così stanca, vuota, spossata che non avevo la forza di
cambiare l’acqua nel
vaso.
Avrei voluto dimenticare tutto per un istante.
Nemmeno nel sonno trovavo pace. Qualsiasi posa assumessi, rivedevo il
suo viso,
i suoi occhi gonfi ed arrossati, quel muto grido d’aiuto,
quella necessità di
sentirsi vivo, di sentirsi parte della vita, le sue mani tremanti ed il
petto
scosso dai violenti singhiozzi. E così mi svegliavo nel
cuore della notte,
sudata, accaldata, tremante, il cuore troppo frenetico per essere
controllato.
Mi voltavo nel letto, cercandolo alla mia destra, ma lui non era
lì. Oramai non
era mai lì, nonostante fosse tornato da diversi mesi.
In quel momento, buttai la testa all’indietro, poggiandola
sullo schienale del
divano.
Rimasi lì per ore, aspettando che lui tornasse, che la porta
d’ingresso si
aprisse.
Calò la sera, le gambe cominciarono ad intorpidirsi dato che
ero rimasta nella
stessa posizione per ore.
Uno squarcio nel petto, i cui bordi pulsavano di dolore.
Aprii gli occhi. La stanza era illuminata dalla luce argentea della
luna.
Dov’era finito?
La notte precedente ero andata a dormire. Come al solito lui non mi
aveva
permesso di sfiorarlo, si era voltato su un fianco, dandomi le spalle.
Avevo
pianto. Mi ero svegliata nel cuore della notte e lui non
c’era più. Non era più
rincasato.
Faceva male, ogni battito faceva male.
La serratura scattò e mi voltai tanto velocemente che le
testa prese a girarmi.
Il mio cuore perse un battito.
I suoi occhi color del ghiaccio mi scrutarono nella penombra. Non disse
nulla.
Si limitò a fissarmi per attimi che mi parvero infiniti,
prima di abbassare lo
sguardo e chiudersi la porta alle spalle.
Non mi guardò più, si voltò e si
diresse in cucina. Dal rumore pensai che
stesse trafficando con delle tazze di ceramica ed i fornelli. Rimansi
immobile
a fissare la porta della cucina fino a che il forte odore di
caffè non mi
riempii i polmoni, allora mi alzai per dirigermi in cucina.
Mi fermai sulla soglia della porta, con le braccia inermi lungo i
fianchi.
Kevin mi dava le spalle, le mani poggiate sulla cucina, davanti alla
finestra
piena di tulipani. Aveva la testa china. Potevo solo scorgere il
profilo della
sua figura, le spalle larghe, la vita scolpita, le braccia dai muscoli
affusolati e potenziati, i capelli a spazzola.
Faceva male. Il cuore singhiozzò.
«Kevin…» mormorai cercando di ricacciare
indietro le lacrime.
Lui non rispose, alzò il capo, guardando oltre la finestra.
Vedendo che non parlava, che non si muoveva, avanzai nella stanza.
Afferrai la
caffettiera e ne versai il contenuto in una tazza. Gliela porsi,
poggiandola
sul piano della cucina, alla sua sinistra.
«Mi dispiace.» mormorò senza voltarsi a
guardarmi. «Mi dispiace, Addison.»
Deglutii a fatica e rumorosamente. Mi morsi il labbro inferiore e gli
occhi mi
si velarono di lacrime.
«Dove sei stato?» chiesi.
Lui afferrò la tazza e bevve un sorso di caffè.
Osservai i capelli col del rame, il profilo perfetto, il naso dritto,
le labbra
piene.
Vedendo che non rispondeva, parlai ancora. «Dove sei stato,
Kevin?» mormorai
poggiandogli una mano su un braccio. A quel contatto scattò.
Si allontanò in un
balzo e tremò. Sgranò gli occhi, il suo sguardo
vagò nella stanza, come se cercasse
qualcosa senza trovarla, il suo petto si muoveva troppo velocemente ed
il suo
respiro era tanto pensante da perforarmi i timpani.
Tremai a mia volta. Come potevo reggere tutto ciò? Ogni
giorno era una lotta
per la sopravvivenza, ogni giorno vederlo era una pugnalata al cuore,
ogni
girono era un’agonia e piano stavo scivolando in un inferno
personale… così
tanto vicino al suo.
Da quanto era tornato dall’Iraq le cose non erano
più state le stesse. Io avevo
ventiquattro anni, lui ventisei, e l’anello di matrimonio mi
gravava sul dito.
Pesava quintali.
Come potevo svegliarmi ogni mattina e sopportare tutto questo?
Kevin era devastato e l’unica cosa che mi permetteva di
affrontare la giornata,
di soffrire con lui, di combattere con e per lui, era l’amore
che nutrivo da
quando avevo diciassette anni.
Lo amavo più di quanto credevo possibile, amavo lui
più della mia stessa vita e
avrei fatto di tutto per far sì che il dolore, la
sofferenza, gli incubi lo
abbandonassero anche solo per una notte.
«Non posso… io non posso…»
farfugliò con voce incrinata, disperata, ciondolando
il capo, mentre se lo afferrava con le mani.
A quella vista sentii le gambe abbandonarmi. Dovetti reggermi al piano
della
cucina per non cadere, mentre la sua voce squarciava il mio animo,
trascinandolo in un baratro da quale non sapevo come uscirne.
«Kevin… Kevin guardami…»
mormorai avvicinandomi a lui con le braccia tese. Gli
presi il viso fra le mani e lui cercò di sfuggirmi. Si
divincolò sotto la mia
fragile presa, io così piccola in confronto a lui.
«Kevin, guardami!» esclamai cercando il suo
sguardo, quando lo trovai dai miei
occhi spillarono diverse lacrime.
«Sono qui. Io ci sono. Permettimi di aiutarti, ti
prego.» gemetti.
I suoi occhi si velarono di lacrime e dischiuse le labbra. Poi scosse
il capo e
liberandosi dalla mia presa si diresse in camera da letto, dove
cominciò a
camminare avanti ed indietro, farfugliando cose confusionarie.
Io, immobile davanti al letto, lo osservavo. Il viso bagnato
d’acqua salata, il
petto scosso dai singhiozzi.
«Ti prego…» gemetti ancora.
«Vuoi sapere dove sono stato, Addison? Vuoi davvero
saperlo?» urlò infine
voltandosi, spostando tutti il peso sulla gamba destra e allungandosi
verso me.
«Sì.» dissi sperando non si accorgesse
dell’incertezza nella mia voce.
«Sono stato al cimitero! Sono stato al cimitero!»
urlò prima di chinare il
capo, «Ero lì… ho fissato le lapidi di
George e Sam… loro sono morti, Addison…
avevano dei figli, una famiglia… io sono
vivo…» gemette mentre le lacrime di
solcavano il viso. «Io sono vivo… e non sono stato
migliore di loro! Erano eroi…»
singhiozzò.
«Ehi…» sussurrai avanzando verso lui a
grandi falcate. «Kevin…»
Le mie mani si posarono sulle sue spalle tremanti, le accarezzarono
lungo il
collo, fino al capo, dove gli presi il viso fra le mani.
«Aiutami, Addison… aiutami…»
aggiunse in un pianto disperato.
Chiusi gli occhi e mi alzai in punta di piedi, cingendogli il collo con
le
braccia lo strinsi il più forte possibile a me.
«Non ce la faccio da solo…»
Quando riaprii gli occhi nuove lacrime scesero sul mio viso e non potei
far
nulla per fermarle.
Piano indietreggiai verso il letto, trascinandolo con me.
Mi allontanai da lui e mi sedetti, senza smettere di guardarlo negli
occhi. Gli
presi un mano e lo condussi verso me. Stendendomi sul morbido materasso
lasciai
che trovasse rifugio nel mio grembo, che mi circondasse la vita con le
braccia,
che mi stringesse il più possibile a lui.
Gli carezzai con dolcezza ed estrema lentezza i capelli, ascoltando i
suoi
singhiozzi, le spalle tremanti, sino ad avvertire la maglia bagnata di
lacrime.
«Ti amo, Kevin… ti prego, torna da me. Torna
alla vita.» mormorai sui suoi capelli prima di
baciargli.
Chiusi gli occhi e lasciai che lui alzasse il capo, lasciai che lui mi
baciasse
le labbra. Un bacio amaro, carico di sofferenza, carico di dolore e di
reciproco amore.
Kevin aveva visto la guerra, ne aveva fatto parte. Sperai potesse
tornare alla
vita… perché una vita senza lui… non
era vita.
*
Ed
eccomi qui, con una one-shot un po’ diversa.
Riguardando il film Brothers (che consigli a tutti), mi è
venuta in mente
questa e spero a voi non dispiaccia. Ho cercato di mettere in risalto
il dolore
e la disperazione di lui vista da chi gli sta accanto, in questo caso
Addison,
che non sa cosa fare e come comportarsi.
Perciò, spero vivamente di non essere stata un disastro.
A voi,
un bacio,
Panda.