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Autore: NeverThink    02/01/2011    6 recensioni
Non so chi ha detto che solo i morti hanno visto la fine della guerra. Io ho visto la fine della guerra, ma la domanda è: potrò tornare alla vita?
(..)I fiori sul davanzale, tulipani, i miei preferiti, cominciavano ad appassire. Ero così stanca, vuota, spossata che non avevo la forza di cambiare l’acqua nel vaso.
Avrei voluto dimenticare tutto per un istante.(..)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ritornare alla vita

 

 

 

Non so chi ha detto che solo i morti hanno visto la fine della guerra.
Io ho visto la fine della guerra ,
ma la domanda è: potrò tornare alla vita?
 

 


Il cuore batteva piano, ogni battito una pugnalata. Un lenta pugnalata in pieno petto.
Ogni respiro un dolore ai polmoni, l’ossigeno pareva bruciarmene le pareti.
Gli occhi mi bruciavano e la vista era annebbiata da un perenne velo di amare lacrime.
Tremavo e non era per il freddo. Era Primavera ed il sole filtrava attraverso le tende bianche, illuminando il soggiorno vuoto.
I fiori sul davanzale, tulipani, i miei preferiti, cominciavano ad appassire. Ero così stanca, vuota, spossata che non avevo la forza di cambiare l’acqua nel vaso.
Avrei voluto dimenticare tutto per un istante.
Nemmeno nel sonno trovavo pace. Qualsiasi posa assumessi, rivedevo il suo viso, i suoi occhi gonfi ed arrossati, quel muto grido d’aiuto, quella necessità di sentirsi vivo, di sentirsi parte della vita, le sue mani tremanti ed il petto scosso dai violenti singhiozzi. E così mi svegliavo nel cuore della notte, sudata, accaldata, tremante, il cuore troppo frenetico per essere controllato. Mi voltavo nel letto, cercandolo alla mia destra, ma lui non era lì. Oramai non era mai lì, nonostante fosse tornato da diversi mesi.
In quel momento, buttai la testa all’indietro, poggiandola sullo schienale del divano.
Rimasi lì per ore, aspettando che lui tornasse, che la porta d’ingresso si aprisse.
Calò la sera, le gambe cominciarono ad intorpidirsi dato che ero rimasta nella stessa posizione per ore.
Uno squarcio nel petto, i cui bordi pulsavano di dolore.
Aprii gli occhi. La stanza era illuminata dalla luce argentea della luna.
Dov’era finito?
La notte precedente ero andata a dormire. Come al solito lui non mi aveva permesso di sfiorarlo, si era voltato su un fianco, dandomi le spalle. Avevo pianto. Mi ero svegliata nel cuore della notte e lui non c’era più. Non era più rincasato.
Faceva male, ogni battito faceva male.
La serratura scattò e mi voltai tanto velocemente che le testa prese a girarmi.
Il mio cuore perse un battito.
I suoi occhi color del ghiaccio mi scrutarono nella penombra. Non disse nulla. Si limitò a fissarmi per attimi che mi parvero infiniti, prima di abbassare lo sguardo e chiudersi la porta alle spalle.
Non mi guardò più, si voltò e si diresse in cucina. Dal rumore pensai che stesse trafficando con delle tazze di ceramica ed i fornelli. Rimansi immobile a fissare la porta della cucina fino a che il forte odore di caffè non mi riempii i polmoni, allora mi alzai per dirigermi in cucina.
Mi fermai sulla soglia della porta, con le braccia inermi lungo i fianchi. Kevin mi dava le spalle, le mani poggiate sulla cucina, davanti alla finestra piena di tulipani. Aveva la testa china. Potevo solo scorgere il profilo della sua figura, le spalle larghe, la vita scolpita, le braccia dai muscoli affusolati e potenziati, i capelli a spazzola.
Faceva male. Il cuore singhiozzò.
«Kevin…» mormorai cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Lui non rispose, alzò il capo, guardando oltre la finestra.
Vedendo che non parlava, che non si muoveva, avanzai nella stanza. Afferrai la caffettiera e ne versai il contenuto in una tazza. Gliela porsi, poggiandola sul piano della cucina, alla sua sinistra.
«Mi dispiace.» mormorò senza voltarsi a guardarmi. «Mi dispiace, Addison.»
Deglutii a fatica e rumorosamente. Mi morsi il labbro inferiore e gli occhi mi si velarono di lacrime.
«Dove sei stato?» chiesi.
Lui afferrò la tazza e bevve un sorso di caffè. 
Osservai i capelli col del rame, il profilo perfetto, il naso dritto, le labbra piene.
Vedendo che non rispondeva, parlai ancora. «Dove sei stato, Kevin?» mormorai poggiandogli una mano su un braccio. A quel contatto scattò. Si allontanò in un balzo e tremò. Sgranò gli occhi, il suo sguardo vagò nella stanza, come se cercasse qualcosa senza trovarla, il suo petto si muoveva troppo velocemente ed il suo respiro era tanto pensante da perforarmi i timpani.
Tremai a mia volta. Come potevo reggere tutto ciò? Ogni giorno era una lotta per la sopravvivenza, ogni giorno vederlo era una pugnalata al cuore, ogni girono era un’agonia e piano stavo scivolando in un inferno personale… così tanto vicino al suo.
Da quanto era tornato dall’Iraq le cose non erano più state le stesse. Io avevo ventiquattro anni, lui ventisei, e l’anello di matrimonio mi gravava sul dito. Pesava quintali.
Come potevo svegliarmi ogni mattina e sopportare tutto questo?
Kevin era devastato e l’unica cosa che mi permetteva di affrontare la giornata, di soffrire con lui, di combattere con e per lui, era l’amore che nutrivo da quando avevo diciassette anni.
Lo amavo più di quanto credevo possibile, amavo lui più della mia stessa vita e avrei fatto di tutto per far sì che il dolore, la sofferenza, gli incubi lo abbandonassero anche solo per una notte.
«Non posso… io non posso…» farfugliò con voce incrinata, disperata, ciondolando il capo, mentre se lo afferrava con le mani.
A quella vista sentii le gambe abbandonarmi. Dovetti reggermi al piano della cucina per non cadere, mentre la sua voce squarciava il mio animo, trascinandolo in un baratro da quale non sapevo come uscirne.
«Kevin… Kevin guardami…» mormorai avvicinandomi a lui con le braccia tese. Gli presi il viso fra le mani e lui cercò di sfuggirmi. Si divincolò sotto la mia fragile presa, io così piccola in confronto a lui.
«Kevin, guardami!» esclamai cercando il suo sguardo, quando lo trovai dai miei occhi spillarono diverse lacrime.
«Sono qui. Io ci sono. Permettimi di aiutarti, ti prego.» gemetti.
I suoi occhi si velarono di lacrime e dischiuse le labbra. Poi scosse il capo e liberandosi dalla mia presa si diresse in camera da letto, dove cominciò a camminare avanti ed indietro, farfugliando cose confusionarie.
Io, immobile davanti al letto, lo osservavo. Il viso bagnato d’acqua salata, il petto scosso dai singhiozzi.
«Ti prego…» gemetti ancora.
«Vuoi sapere dove sono stato, Addison? Vuoi davvero saperlo?» urlò infine voltandosi, spostando tutti il peso sulla gamba destra e allungandosi verso me.
«Sì.» dissi sperando non si accorgesse dell’incertezza nella mia voce.
«Sono stato al cimitero! Sono stato al cimitero!» urlò prima di chinare il capo, «Ero lì… ho fissato le lapidi di George e Sam… loro sono morti, Addison… avevano dei figli, una famiglia… io sono vivo…» gemette mentre le lacrime di solcavano il viso. «Io sono vivo… e non sono stato migliore di loro! Erano eroi…» singhiozzò.
«Ehi…» sussurrai avanzando verso lui a grandi falcate. «Kevin…»
Le mie mani si posarono sulle sue spalle tremanti, le accarezzarono lungo il collo, fino al capo, dove gli presi il viso fra le mani.
«Aiutami, Addison… aiutami…» aggiunse in un pianto disperato.
Chiusi gli occhi e mi alzai in punta di piedi, cingendogli il collo con le braccia lo strinsi il più forte possibile a me.
«Non ce la faccio da solo…»
Quando riaprii gli occhi nuove lacrime scesero sul mio viso e non potei far nulla per fermarle.
Piano indietreggiai verso il letto, trascinandolo con me.
Mi allontanai da lui e mi sedetti, senza smettere di guardarlo negli occhi. Gli presi un mano e lo condussi verso me. Stendendomi sul morbido materasso lasciai che trovasse rifugio nel mio grembo, che mi circondasse la vita con le braccia, che mi stringesse il più possibile a lui.
Gli carezzai con dolcezza ed estrema lentezza i capelli, ascoltando i suoi singhiozzi, le spalle tremanti, sino ad avvertire la maglia bagnata di lacrime.
«Ti amo, Kevin… ti prego, torna da me. Torna alla vita.» mormorai sui suoi capelli prima di baciargli.
Chiusi gli occhi e lasciai che lui alzasse il capo, lasciai che lui mi baciasse le labbra. Un bacio amaro, carico di sofferenza, carico di dolore e di reciproco amore.
Kevin aveva visto la guerra, ne aveva fatto parte. Sperai potesse tornare alla vita… perché una vita senza lui… non era vita.

 

*

Ed eccomi qui, con una one-shot un po’ diversa.
Riguardando il film Brothers (che consigli a tutti), mi è venuta in mente questa e spero a voi non dispiaccia. Ho cercato di mettere in risalto il dolore e la disperazione di lui vista da chi gli sta accanto, in questo caso Addison, che non sa cosa fare e come comportarsi.
Perciò, spero vivamente di non essere stata un disastro.


A voi, un bacio,
                       Panda.

   
 
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