Carte
e sorrisi
5
gennaio 2011
Sapevo
che l'avrei trovata di fronte a quel lettino da neonato, eppure
qualcosa mi
aveva trattenuto ad incontrarla. Quanti ancora avrebbero dovuto essere
questi
appuntamenti improvvisati affinché ci si accorgesse - o,
meglio, lei si accorgesse - che non
vi era
casualità in essi?
Gli
occhi velati da una inconsistente patina di tristezza fissavano il
lenzuolino
arricciato con cui Davide giocava, gemendo talvolta per abbozzare un
sorriso
alla donna che sorrideva con lui.
“Oh,
ciao” nella sua voce notai spavento tramutato in sorpresa,
quando i tacchi
delle mie scarpe mi avevano tradito rivelando la mia presenza.
“Ciao,
Mirella.”
Mi
trovai accanto a lei prima che il tic tac di qualsiasi orologio potesse
continuare ad infastidire il silenzio.
La
camicia di raso beige che indossava rifletteva ogni minuscolo raggio di
sole
proveniente dalla finestra dalle tende semiaperte, creando con il
minimo
spostamento un gioco di luci che si rinfrangeva sulla pelle chiara del
viso
donandole sempre nuove sfumature di colore.
“Hai
saputo?” Mirella si voltò verso di me, e
abbassò gli occhi quando si accorse
che la distanza tra noi non era affatto quella che si immaginava.
Tuttavia
non mi spostai, preso dalla preoccupazione infondata che a lei potesse
d’un
tratto servire una spalla su cui poggiarsi. Che sciocchezza.
Infatti
annuì soltanto, dopo essere tornata a giocare con una manina
del bambino.
“Non
ho nemmeno più il coraggio di prenderlo in braccio. Ho paura
di…” sospirò. “Ho
paura di affezionarmi a lui più di quanto lo sia
già.”
Ruotò
di nuovo il capo, ma stavolta riuscii a intrappolare il suo sguardo nel
mio per
più di qualche secondo.
Le
feci scivolare la mano lungo la spina dorsale, tastando la morbida
stoffa che
non nascose il brivido che le avevo provocato.
“Almeno
avrà una famiglia” era l’unico aspetto
positivo che da imparziale potevo
evidenziare.
“Se
solo Paride…” s’interruppe allo squillo
del mio cellulare, ma ero certo che non
avrebbe continuato comunque.
“Scusa”
allontanai la mano dalla sua schiena non prima di aver fatto frusciare
la
stoffa su un suo fianco, e, con aria scocciata ma rassegnata, avvicinai
il
telefono all’orecchio. “Pronto?”
continuavo a fissare i suoi occhi dal castano
profondo mentre Gironi farfugliava qualcosa dal tono agitato.
“Sì, d’accordo,
arrivo.”
“Non
posso trattenermi di più, mi spiace” buttai
lì, allargando le braccia.
“Anche
io tornerei a casa.”
Le
sorrisi, mentre, imbarazzata dalla scelta del saluto più
opportuno, si sistemava
una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La precedetti,
sfiorandole la guancia
con le labbra. “A presto.”
Non
so quante volte avesse annuito, perché se avessi deciso di
contarle tutte, non
sarei mai uscito da quella stanza.
Solo quando salii in macchina, mi maledissi per non averle proposto di riaccompagnarla a casa.