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Autore: hikarufly    09/01/2011    4 recensioni
Riscrittura della storia di Irene Adler in chiave "nuovo" Sherlock. Moffat e Gatiss siano lodati e benedetti. NON È SLASH, fatevene una ragione. è tanto tanto tanto etero (beh non così tanto ma lo è U_U)!
se ci sono degli errori grammaticali è perchè stasera sono un po' distratta!
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo di Irene Adler'
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John Watson aprì gli occhi con riluttanza. Il suo cervello era già stato stuzzicato da un paio di note stridule provenienti dal piano di sotto. Sbuffò e si tirò su a sedere, prendendo la sveglia digitale sul comodino con una mano e stropicciandosi la faccia con l'altra. 
«Per l'amor del cielo...» mormorò, con la voce impastata dal sonno. Le cifre tra i due piccoli punti lampeggianti erano un 4 e un 13. Indossò la vestaglia ma non la chiuse, in fondo aveva un pigiama piuttosto sobrio, e scese di sotto, indeciso se inveire con un insulto o passare direttamente al pugno sul naso. 
Sherlock era seduto alla sua poltrona, perfettamente vestito di uno dei suoi completi a giacca semplice e sobrio, impeccabile come sempre. C'era poca luce, ma era abbastanza per constatare che c'era qualcuno di sveglio in casa. Holmes imbracciava il suo piccolo violino come fosse il suo pupillo e all'ingresso di Watson la nota che ne uscì fu ancora più stridente. I suoi occhi erano concentrati sulla finestra, e le sue pupille puntavano alla strada.
«Ti è mai passato per la testa che io avrei un lavoro, e che magari dovrei dormire per poterlo fare?» domandò con un tono ironico piuttosto irato John. Aveva trovato un posto come medico in una piccola clinica privata. Si occupava più che altro di traumi da incidenti e piccole operazioni riguardanti gli arti.
«C'è qualcuno, di sotto» replicò Holmes, senza guardarlo e mantenendo lo sguardo fisso. Watson stava per insultarlo ma, incuriosito, si avvicinò alla finestra.
«Non troppo» gli intimò Sherlock. John ubbidì, e si tenne fuori dalla portata del misterioso avventore. In effetti, nella strada, vi era un uomo che camminava avanti e indietro e ogni tanto si fermava, osservando la finestra, dalla quale si vedeva soltanto un muro con carta da parati damascata, uno smile disegnato su con della vernice gialla e dei buchi da proiettile, e una luce soffusa di cui non si vedeva la fonte.
«E questo che cosa avrebbe a che fare con la pace notturna di questa casa?» domandò John, con la voce meno arrabbiata, di volume più basso, ma ferma.
«Non lo hai riconosciuto. È sempre così, la gente vede ma non osserva mai. Guardalo meglio» replicò, pizzicando una corda e sistemandola.
Watson cercò di capire meglio, ora che l'uomo si era fermato. Lo riconobbe solo quando mostrò il volto alla luce del lampione.
«Wilhelm von Ormstein, capocannoniere del Nottigham Forest, ha fatto guadagnare il più alto numero di vittorie della squadra dal 1986 nel corso di una stagione, nonché cifre esorbitanti tra premi, merchandising e popolarità del football club, ha segnato la maggior parte dei gol di tutte le squadre inglesi messe insieme nella Champions League e nel campionato nazionale e sta per essere venduto ad una cifra astronomica al Bayer Leverkusen, e non è un'indiscrezione» elencò Sherlock, come se stesse descrivendo qualcosa che aveva di fronte agli occhi.
«Sì, l'avevo notato... da quando seguiresti il calcio?» domandò John.
«È qui da abbastanza tempo perché potessi fare una ricerca un po' meno superficiale dell'associare il suo nome alla sua faccia. Mi chiedo perché un atleta di fama internazionale si sia appostato sotto casa di quello che per lui è un perfetto sconosciuto e ho intenzione di saperlo. Lasciargli la possibilità di parlarmi anche a quest'ora lo convincerà. È agitato, nervoso, e sembra che non riesca più a contenersi. Negli ultimi allenamenti ha dato il peggio di sé e deve sputare il rospo. In più, domani lo attende la conferenza stampa dell'anno, e non può certo andarci in quello stato» spiegò Sherlock. Watson sbuffò e si sedette. Sherlock lo guardò dubbioso.
«Almeno non tenterò di riaddormentarmi senza successo e mi toglierò anche io la curiosità» spiegò, chiudendo la vestaglia.
«Vai ad aprirgli» gli ordinò, tornando a guardare fuori.
«Non sono certo il tuo maggiordomo» sbottò Watson, alzandosi.
«Non suonerà al campanello, ma sta facendo qualche passo verso la porta» continuò Holmes, e John, dopo aver maledetto se stesso, scese dabbasso e aprì l'uscio.
Von Ormstein era un ragazzotto tedesco piuttosto pallido, dal viso squadrato e gli occhi piccoli, grosso come un armadio e dal viso incattivito da grosse sopracciglia e una fronte enorme. Watson si sentì un po' intimidito ma gli chiese di che cosa avesse bisogno.
«Abita qui Sherlock Holmez?» domandò, stentando a parlare inglese. 
«Perché gli vuole parlare?» replicò a sua volta John, piuttosto sulla difensiva.
«Fallo salire» fu la dichiarazione piuttosto annoiata di Holmes. John buttò gli occhi al cielo e fece cenno al calciatore di seguirlo di sopra.
 Watson si accomodò su una sedia spostata dalla cucina al salottino, mentre von Ormstein  sembrava non avere la capacità di piegarsi e mettersi sul divano. Sherlock rimase impassibile e lo guardò dritto in faccia.
«Mi dispiace per l'ora. Io... ho bisogno di vostro aiuto» disse, sempre più teso.
«Immagino che lei abbia il dono della parola anche se non sembra ansioso di condividerlo con me. Si sieda, se la cosa può aiutarla a spiegarsi» concluse, più scocciato della sua timidezza che facendo gentilmente gli onori di casa. Von Ormstein era troppo teso per cogliere la sottile nota di malevolenza nella sua voce e si sedette quasi rannicchiandosi sul divano, gli occhi a terra.
«Sto per firmare un contratto importante e c'è solo una persona che potrebbe farmi perdere l'occasione della mia vita... » iniziò, a Sherlock lo interruppe per dare, come sempre, la risposta corretta.
«Una donna» sentenziò, con un sorrisetto beffardo. Il calciatore non parve gradire e la sua espressione già di per sé poco espressiva si fece una sorta di grugnito silenzioso e poi una faccia piuttosto ebete che forse esprimeva sorpresa.
«Se fosse stato un suo rivale, non sareste così nervoso e deluso, ma piuttosto arrabbiato. Vada avanti» spiegò, quasi annoiato da così poca perspicacia. John stava in silenzio e ascoltava.
«Lei ha qualcosa che potrebbe rovinare la mia reputazione... non posso permettere che arrivi alla stampa» continuò Von Ormstein.
«Una foto?» domandò Holmes, che già sembrava sul punto di cacciarlo via. Non lo stava intrigando abbastanza.
«Sì... lei è Irene Adler, la conosce?» domandò l'ospite inatteso. Sherlock mise su un viso dubbioso e si girò verso Watson.
«Certo, Irene Adler, l'attrice!» spiegò John, mentre Sherlock aggrottava la fronte una volta di più, probabilmente troppo pigro oppure orgoglioso per chiedergli altre spiegazioni. Von Ormstein annuì.
«È un'attrice di teatro, Sherlock. Ha fatto parecchie cose anche per la televisione e qualche film nazionale, ma anche se ha circa trent'anni è un po' di tempo che si è, diciamo così, ritirata dagli schermi, e fa delle produzioni più o meno importanti sui palchi del West End» spiegò Watson. Sherlock assorbì l'informazione e osservò il calciatore.
«Perché dovrebbe avere lei questa fotografia, che cosa c'è sopra? Immagino qualcosa di compromettente, ma perché lei?» disse Holmes, mettendo giù il suo violino e parlando più a se stesso che al suo ospite.
«L'ho incontrata solo una volta. Mi ha spedito un biglietto per uno spettacolo e io ci sono andato perché... mi aveva scritto qualcosa sul biglietto, qualcosa che riguardava quella foto. Dopo lo spettacolo, mi ha detto che l'avrebbe spedita al Sun e a tutti i giornali di gossip a cui poteva pensare se firmavo il mio contratto. Non mi ha chiesto denaro e non capisco perché! Io non posso rinunciare a questa opportunità, e quindi voglio quella foto» spiegò Von Ormstein, che sembrava riuscire a parlare meglio inglese sotto stress.
Il cervello di Watson cercava di mettere insieme i pezzi del puzzle, molto più lentamente di Sherlock, ma neppure il suo strano e sociopatico coinquilino riusciva a capire alcune cose, con così poche informazioni.
«Una donna di spettacolo che lei non conosce l'ha minacciato, e l'unica cosa che voleva in cambio era che rinunciaste all'occasione della sua vita. Non le ha chiesto denaro, e forse non ne ha bisogno, ma sappiamo come va il mondo oggi, non si rinuncia a qualche milione di sterline solo per orgoglio personale. Se poi non vi siete mai incontrati prima perché ce l'ha con lei? Deduco dal fatto che non mi avete detto cosa c'è in quella foto, che sia qualcosa che vi rovinerebbe del tutto la vita, ma a me non interessa» continuò Sherlock, sempre più a se stesso che a Von Ormstein, che glissò ancora una volta sul contenuto della fotografia, e precisò:
«Io ho... alcuni amici. Loro hanno cercato di capire se la portava con sé, la foto, ma non hanno trovato niente»
«L'hanno perquisita a delle feste, immagino. Magari fingendo di urtarla o appartandosi nel guardaroba per frugare il suo cappotto. È una donna perspicace, se non avete trovato nulla. La casa?» chiese Holmes.
«Hanno cercato anche lì, due volte: nessun risultato» continuò il tedesco.
«Depositi bancari? Cassette di sicurezza?» replicò Holmes.
«Non ne ha» spiegò Von Ormstein.
«Questo è da verificare. In qualche posto dovrà nasconderla, e ciò che mi interessa è sapere il perché questa donna vi minaccia e dove si trovi questa foto» concluse Holmes che già non ascoltava altro se non la sua testa. Il volto del calciatore passò dall'ebete al felice e spensierato, o almeno così sembrò a John. 
«Mi volete aiutare?» chiese, quasi sbigottito, il tedesco «vi pagherò qualsiasi cifra!» concluse, alzandosi. Sherlock già non lo ascoltava più e stava andando al suo laptop. Ciò lasciò Von Ormstein piuttosto confuso, ma Watson si prese incarico di fargli lasciare qualche recapito, soprattutto per questa cosiddetta ricompensa: i soldi non bastavano mai con l'affitto da pagare.
 
A colazione, John osservava dubbioso Sherlock, il quale parve non accorgersene prima di qualche lungo minuto. Holmes non si diede neanche peso di chiedergli che volesse.
«Hai rifiutato dei casi interessantissimi negli ultimi tempi, e anche se sei senza incarichi, mi riesce difficile pensare che tu abbia accettato una specie di caccia al tesoro» disse Watson, sorseggiando il caffè, sperando che gli desse abbastanza forza per quella mattina (si sarebbe accasciato a letto un paio d'ore dopo pranzo).
«John, sottovaluti la questione. Il punto non è la foto in sé, né quello che potrebbe succedere a Von Ormstein. Se Irene Adler viene perquisita e la foto non si trova, se il suo appartamento viene frugato più volte e la foto non si trova, dove può essere finita? Di sicuro ce l'ha, ma dove? È questa domanda a cui voglio rispondere» spiegò semplicemente lui, tornando al suo laptop.
«La curiosità uccise il gatto» borbottò John, alzandosi.
«Dove vai?» chiese Sherlock, guardandolo con la fronte aggrottata.
«Al lavoro, ovviamente» si prese la briga di replicare John. 
Probabilmente Sherlock stava per replicare qualcosa, ma John non aspettò che gli facesse notare che non poteva farlo perché doveva aiutarlo con le indagini sulla fotografia e Irene Adler. Holmes si offese a morte, come era solito fare per cose per le quali non aveva il controllo (ad esempio, il blog di John, anche se ci stava lavorando), e decise che se la sarebbe sbrigato da solo.
Aveva trovato su internet il calendario degli spettacoli della Adler, interrogato qualche fan sfegatato via chat sulle sue abitudini (riservandosi di mandare una segnalazione a Lestrade per stalking), e quindi sapeva già dove doveva trovarsi: Holland Park.
Non aveva ancora scoperto di preciso casa sua, ma contava di farcisi portare da un'ignara Irene, di ritorno dai suoi soliti impegni giornalieri. E infatti la riconobbe subito: dopo aver cercato su youtube varie sue performance, oppure aver trovato varie recensioni dei suoi lavori su siti specializzati, eccola lì, non troppo lontana da lui. Mp3 nelle orecchie, capelli liberi e leggermente ondulati di un colore tra il castano e il rossiccio, che incorniciavano un viso rotondo, dalla carnagione chiara e le labbra piene, con occhi rotondi e di un verde particolare, Irene Adler era il ritratto della salute e spensieratezza. Invocava tranquillità e dolcezza, con quel sorriso sereno e il movimento cadenzato della testa, probabilmente a tempo di musica. Era vestita in maniera semplice, una specie di combinazione tra un vestito lungo e dei pantaloni aderenti, il tutto sormontato da un cappottino aperto e una sciarpa modesta: il tutto risultava non particolarmente sbarazzino ma molto casual, ed era possibile notare più dai suoi lineamenti che dal suo abbigliamento che avesse già poco più di 30 anni.
A quanto aveva capito Sherlock da xxGolDenStαRxx in una sessione un po' inquietante di chat, ora Irene si esibiva al Bush Theatre, un interessante luogo per avanguardie e nuovi spettacoli, molti dei quali finivano per diventare grosse opere nel West End. Sherlock intese che probabilmente Irene viveva più vicino ad Holland Park che al teatro, altrimenti, per quanto l'amore della natura potesse farla andare lì, non avrebbe allungato la strada, soprattutto se era in ritardo, cosa che gli sembrò quando la donna controllò l'orologio e affrettò il passo.
Ci misero poco più di quindici minuti, a passo sostenuto, e seguendo scorciatoie che ormai la Adler conosceva, tutte però in strade grandi abbastanza, frequentate abbastanza e luminose abbastanza per non poter essere aggrediti senza che nessuno lo notasse. Sherlock capì che cercava di fare tutto normalmente, ma era rimasta guardinga e spaventata da quel che le era successo. Concentrato come sempre su ciò che doveva fare, Sherlock arrivò insieme alla Adler al Bush Theatre, e chiedendosi come avrebbe fatto a seguirla dentro senza che lei lo notasse. Fortunatamente per lui, le prove si svolgevano quel giorno in una stanzetta al primo piano del grosso edificio, e così riuscì a dare un'occhiata e a sentire direttamente da fuori, appollaiato tra i grandi rami pieni di foglie più bassi di un grande albero piantato proprio vicino a quella finestra. Lo spettacolo sembrava riguardare un piccolo gruppo di persone, non tantissimi personaggi. Irene non era la protagonista assoluta, ma a Holmes parve comunque brava, considerando oltretutto che erano solo delle prove. Aveva in ogni modo avuto il diciamo piacere di constatare le sue doti di attrice e anche cantante già dalle sue ricerche notturne, ma quando dalla finestra aperta giunse un piccolo duo con un altro personaggio secondario, a quanto pare quello che aveva una sorta di legame con quello di Irene, mise da parte per un momento la sua ricerca investigativa e si godette il momento.
Irene lasciò il teatro all'incirca all'ora di pranzo, e Sherlock mangiò a qualche tavolo di distanza  da lei in un ristorantino italiano poco lontano da lì. Sembrava conoscere due o tre persone e scambiò qualche parola con loro nella lingua che era stata di sua madre, come aveva appreso Sherlock dalle sue ricerche: suo padre, tale Mr Adler, era emigrato per un certo periodo in Italia dove aveva conosciuto la madre di Irene. Quando questa morì prematuramente i due si trasferirono a Londra.
Quando era ormai passata da un pezzo l'ora di pranzo, e Irene era soddisfatta della sua chiacchierata, si rialzò e si diresse di nuovo verso Holland Park, seguita come sempre da Sherlock. Non appena fu uscita, il suo inseguitore ebbe la conferma di dove stava andando: uno studio legale, in una piccola via parallela a Holland Park Avenue.
“Holland Park, civico 57, SJN Law Solicitors. Subito. SH” fu il messaggio che John Watson ricevette nell'esatto momento in cui uscì dall'ambulatorio. Inizialmente quasi voleva mandarlo a quel paese, ma immaginò fosse qualcosa a che fare con Irene Adler, e non gli aveva confessato che era una specie di ammiratore di quella attrice. L'aveva vista un paio di volte prima di andare in Afghanistan, in alcune di quelle serate che aveva passato con sua sorella Harry. Non aveva fatto menzione di questo con Sherlock, probabilmente perché già l'avrebbe capito da solo e perché non voleva farsi incastrare come al solito nei suoi traffici. Sospirò e chiamò un taxi.
«Salve, ehm... io avrei bisogno di una consulenza» fu il tentativo di Watson di sembrare disinvolto di fronte alla carinissima segretaria dello studio legale, una biondina apparentemente molto gentile.
«Mi dica pure di che cosa si tratta, e le indicherò quale dei nostri soci potranno aiutarla» replicò lei, guardando dritto in faccia il potenziale cliente, piuttosto che concentrarsi sullo schermo del computer, con un sorriso cortese.
Proprio mentre John si spremeva per bene le meningi in cerca di una scusa credibile, Irene Adler entrò dietro di lui e la segretaria si sporse oltre le sue spalle.
«Miss Adler! Mr Norton la aspetta nel suo studio» la avvisò prontamente. John ringraziò il cielo e fece un cenno in direzione della nuova arrivata, facendosi un poco da parte per far parlare le due ragazze.
«Mi ha mandato un messaggio una ventina di minuti fa. Grazie Mary, non ti preoccupare, conosco la strada!» replicò apparentemente molto allegra Irene, per poi rivolgersi un attimo al coinquilino di Holmes «Mi scusi se le ho fatto perdere tempo»
Irene Adler sparì dietro una porta con una bella targhetta lucida con su scritto “Godrey Norton: Solicitor”.
«È proprio carina, Miss Adler» commentò Mary, la segretaria.
«Sì, molto gentile» sottolineò Watson, per poi staccare gli occhi dalla porta e guardando la ragazza come a chiederle una scusa per restare lì finché Irene non fosse uscita.
«Di che problema si trattava, signor...?» riprese Mary.
«Watson. John Watson. Ehm, problemi... problemi con il mio coinquilino» ribatté, provando ad attingere ai suoi veri e propri guai.
«Affitto arretrato? Quiete notturna? Danni a proprietà comuni?» suggerì Mary «Io sono Mary Morstan, comunque» si presentò, allungando la mano oltre il piccolo bancone dietro al quale era seduta. John la strinse, cordiale.
«Piacere. Diciamo che oramai non so più che cosa aspettarmi. Praticamente mi tratta come una specie di maggiordomo personale...» iniziò, con un sorrisetto. Mary lo imitò.
«Le servirà una consulenza con il signor Jenkins... le andrebbe bene venerdì mattina?» domandò la segretaria.
«Ehm, purtroppo ho il turno in clinica al mattino» disse Watson, ben calato nella parte, anzi, ormai contento di poter chiedere consigli a un buon avvocato.
«È un medico?» chiese curiosa Mary, osservandolo con una strana curiosità negli occhi. La curiosità di ogni donna che sente la parola “clinica” da un uomo probabilmente scapolo. John accennò un assenso con un piccolo movimento del capo, quasi lusingato.
Suonò il terminale di fianco a Mary e rispose. John vide uno sorissetto ma una espressione tra il dubbioso e il divertito sul suo viso.
«Sì, è ancora qui, il dottor John Watson. Perché?» domandò la segretaria. Ascoltò ancora qualche frase, e il suo sorriso e il suo stupore aumentarono.
«È sicuro, Mr Norton?» ribatté Mary, senza trattenere un sorriso.
Quando chiuse la comunicazione si rivolse a John, senza riuscire a smettere di ridere sotto i baffi.
«Ha impegni, dottor Watson? Credo che Mr Norton abbia una pazzia per la testa» dichiarò Mary, mentre Irene Adler e il misterioso Mr Norton uscivano dalla porta dello studio di quest'ultimo. Irene sembrava non poter credere a qualcosa, guardando Norton e scuotendo la testa. John quasi si rammaricò di vedere con quanta tenerezza e affetto lo guardava. Probabilmente Sherlock l'aveva mandato lì perché aveva sentito qualche indiscrezione sui possibili legami sentimentali della Adler. Godfrey Norton era un giovanotto della stessa età di Irene: avrà avuto poco più di trent'anni ma aveva il viso allegro e gentile, con occhi di un misto tra verde e nocciola, folti capelli castano scuro e una fronte ampia da gran pensatore, mascella squadrata quanto bastava per non farlo sembrare un gorilla, era piuttosto alto, rasentava il metro e ottantacinque o forse addirittura e novanta.
«Dottor John Watson, è un piacere conoscerla!» esordì l'avvocato, stringendo la mano dell'uomo, che non era riuscito a porgergliela per primo, ma se la vide afferrare senza troppe cerimonie.
«Mi dispiace rubarle del tempo, ma Mr Norton è un pazzo scatenato» dichiarò Irene, apparentemente soffocando un risolino isterico, soprattutto quando incrociò gli occhi di Mary, nella sua stessa situazione.
«Sarebbe un problema per lei fare un immenso favore a due perfetti sconosciuti?» chiese ancora Mr Norton, facendo finta che la sua ragazza non gli avesse appena dato del matto.
“Impegno improvviso, poi ti spiego. John” fu tutto ciò che Sherlock ottenne. Holmes aveva cercato, nel frattempo, di reperire l'indirizzo di Irene, fingendosi un suo lontano cugino che aveva perso il bigliettino da lei inviatogli, facendo finta di essere un po' credulone e ingenuo di fronte ai suoi colleghi del Bush Theatre. Ma gli era andata male: il padre di Irene non aveva fratelli né sorelle, e lo liquidarono come uno dei soliti fan un po' troppo appassionati (chiamò Lestrade per assicurarsi che quella denuncia per stalking stesse prendendo piede).
Aspettare senza far nulla lo opprimeva, in quanto l'inattività era la sua peggior nemica e non poté far altro che cercare di capire di che impegno poteva trattarsi, costringendo Lestrade, già che lo aveva chiamato, a rintracciare l'esatto punto in cui si trovava il cellulare di John.
Un sorrisetto si dipinse sul volto sorpreso e, nonostante quasi non lo volesse ammettere, divertito di Sherlock Holmes quando, appostato dietro un albero dal fusto ampio, si godeva una del tutto improvvisata, per tutti tranne che per Mr Norton, cerimonia di matrimonio.
Irene aveva un vestito di un bel rosso e color panna, probabilmente un abito che aveva visto e che Norton, a sua insaputa, aveva comprato e preparato per l'occasione. Persino John Watson aveva un vestito diverso, dopo la meravigliosa scoperta che portava la stessa taglia del presunto testimone (a sorpresa) che però era influenzato. Mary era molto più carina che dietro il bancone, constatò lo stesso John, e l'officiante guardava con occhio dubitante i risolini delle due donne e l'aria solenne mista a irriverente dei due uomini.
Sherlock non trattenne una risata, quando finalmente il funzionario della chiesa, o del comune, sarebbe stato difficile dirlo, pronunciò finalmente la formula e sentenziò che lo sposo poteva baciare la sposa. Godfrey Norton era il felice ed evidentemente irrazionale marito di Irene Adler, con una bottiglia di champagne appositamente comprata per suggellare l'evento, con la propria segretaria e un perfetto sconosciuto, in realtà sotto copertura. 
«Godfrey, non ti posso lasciare solo mezza giornata... come hai fatto a organizzare tutto questo in un giorno? Ieri ci siamo visti e non sospettavo niente!» commentò Irene, buttando giù il primo calice (di plastica) di buon vino francese.
«È un mese che mi sto preparando... Paul non si doveva proprio ammalare, ma fortunatamente abbiamo trovato il buon dottor Watson!» esclamò Norton in risposta, già al secondo bicchiere, dando una solidale pacca sulla spalla di John, che si sentì particolarmente basso rispetto all'alto e allampanato avvocato.
Dopo grida e risate e festeggiamenti in mezzo al parco, richiamati alla calma da un paio di agenti della sicurezza del parco pubblico, finalmente John pensò che era ora di lasciarli per riferire a Sherlock dell'accaduto, soprattutto dopo un fulminante SMS: “Se hai finito di bere insieme all'avvocato e alla Adler, dobbiamo organizzare il piano. SH”. Watson si guardò intorno, dopo essere rabbrividito all'idea che il suo coinquilino lo avesse trovato senza istruzioni, ma non riuscì a vederlo.
«Avanti, John, abbiamo un tavolo prenotato al Ritz Hotel per un afternoon tea di quelli che tanto piacciono a Irene e Mary. Non puoi abbandonarci sul più bello» cercò di convincerlo Norton, passato dalla sobrietà della cerimonia all'ubriachezza dei festeggiamenti, per poi tornare a un po' di lucidità per il tè delle cinque «Non ti porterà via troppo tempo, entro un paio d'ore sarai libero con un uccellino» aggiunse.
«Ci farebbe davvero un immenso piacere, John» disse, con tutta la dolcezza e gratitudine del mondo, Irene. John parve convinto, e deciso a mandare a quel paese Sherlock e le sue manie di persecuzione, si sentì preso a braccetto da Mary, seguendo gli sposi dentro un elegantissimo taxi.
Dopo un po' di più delle due ore che si erano prefissati, John dovette ammettere che era proprio ora di andare, soprattutto dopo un altro messaggio di fuoco di Sherlock, ormai spazientito dalla sua irriverenza.
«Spero che tu ne parlerai presto con Mr Jenkins... sembra un tipo poco raccomandabile» commentò Mary, cercando di spiare il messaggio, dopo che Watson si era scusato per il tanto rumore che il suo cellulare sembrava fare. Si alzarono tutti quando il dottore dovette andare. Irene lo abbracciò e gli diede un bacio sulla guancia, ringraziandolo ancora e ci fu una solenne stretta di mano tra lui e Norton. Mary sembrò voler replicare la sposa, ma si limitò a salutarlo, beccandosi un'occhiataccia dell'amica.
«Di che piano parli?» domandò Watson, quando si trovò vicino ad Holland Park, dove Sherlock lo aspettava.
«Per trovare la foto, ovviamente. Ho bisogno che tu lanci questo in casa della Adler quando ti darò il segnale» replicò Holmes, quasi annoiato di doverglielo spiegare.
«Non ho intenzione di cospirare contro Irene» si oppose John, osservando ciò che Sherlock gli aveva passato: una specie di piccolo candelotto fumogeno.
«Uh, siamo arrivati al nome di battesimo, ora?» replicò Sherlock, cercando nelle tasche un cerotto alla nicotina. Aveva bisogno di concentrazione.
«Visto che tanto sai che è successo oggi pomeriggio... ti posso assicurare che non mi sembra affatto una criminale e non ho intenzione di aiutarti a...» cominciò John, ma quando Sherlock trovò il suo cerotto si voltò verso di lui con il viso serio e quasi arrabbiato.
«Ha minacciato Von Ormstein, non sappiamo se sia veramente carina e gentile come pensi. Devo sapere con chi abbiamo a che fare, e per farlo ho escogitato un piano d'azione. Tutto ciò che devi fare è tirare quel fumogeno in casa sua. Non hai altro compito o responsabilità in questa storia, se ti può far sentire meglio, e ora vieni. Abbiamo un appuntamento a Pitt Street»
L'appartamento di Irene Adler era in una traversa di Gordon Place, Pitt Street, una strada con eleganti case a schiera, leggermente diverse l'una dell'altra, a poca distanza da Holland Park, a Kensington. Sherlock si era fatto dare l'indirizzo dagli scagnozzi di Von Ormstein, essendo il calciatore all'oscuro dei veri metodi dei suoi sicari. Sherlock spiegò a John di restare acquattato nel piccolo giardino sotto l'ampia finestra del piano rialzato.
Irene arrivò di lì a un'oretta, scendendo da un taxi. Era ancora vestita del suo abito da cerimonia a lei segreto fino a poche ore prima, una fede nuova di zecca al dito anulare sinistro, e persino un piccolo mazzo di fiori. Quando si sentì dire dal conducente che ci aveva già pensato quel bizzarro tipo che l'aveva salutata tanto calorosamente che si immaginava fosse il fortunato, la ragazza si voltò verso il suo ingresso con un sorriso che si spense non appena il taxi ripartì: tre uomini erano intorno a un quarto, steso a terra, apparentemente tramortito.
«Che è successo?» chiese lei. Il piccolo crocchio le spiegò che era stato aggredito e che non avevano modo di chiamare una aiuto: uno di loro aveva il cellulare scarico, l'altro non riusciva a prendere campo e l'ultimo non l'aveva proprio (non era propriamente giovane né tecnologicamente avanzato, a un'occhiata), e nelle case vicine a quell'ora non c'era nessuno.
«Fatelo salire da me, mentre io chiamo un'ambulanza»  dichiarò Irene, non senza una piccola esitazione nella voce. Estranei in casa, dopo che l'avevano rapinata due volte in pochi giorni... l'uomo aprì gli occhi chiari e dichiarò, con voce roca, che non c'era bisogno di alcuna ambulanza. Irene scosse la testa e aprì le porte il più velocemente possibile, dato che aveva rinforzato l'uscio.
«Qui, sul divano» disse la donna, e i tre estranei lo depositarono lì, accompagnati accuratamente alla porta dalla padrona di casa, che attese che fossero lontani prima di tornare al ferito. Aveva la carnagione chiara, gli occhi di un verde ancora più chiaro e i capelli ricci, scuri, un po' scompigliati. Gli aprì il cappotto scuro senza troppi complimenti, togliendogli la sciarpa e aprendogli i primi bottoni della camicia, per lasciarlo respirare. Lo fece molto meticolosamente, con tranquillità eppure con precisione. Vide che sopra l'occhio aveva un taglio profondo e lungo. L'uomo, che altri non era se non Sherlock, gli fece cenno di aver comunque bisogno d'aria, e lei aprì le finestre il più velocemente che poté. Si avvicinò a una piccola cassettiera, dalla quale tirò fuori quella che a prima vista sembrava una valigetta per gli attrezzi, che invece era un kit di pronto soccorso. Ne tirò fuori del disinfettate e un po' di cotone, e si sedette accanto a Sherlock, disteso sull'ampio e profondo divano. Gli picchiettò la fronte, dove aveva il taglio, che si era fatto fare per onor di messa in scena, e fu in quel momento che il tempo rallentò parecchio, soprattutto per John, in attesa del fatidico segnale, che doveva arrivare da uno dei complici della strada, appostato poco lontano con un binocolo. Irene Adler si muoveva molto più lentamente di quanto Sherlock stesso si aspettasse e quasi si chiese se non stesse perdendo la cognizione del tempo. Gli occhi di lei erano fermi, sbattevano le ciglia molto raramente, e a un certo punto, parlò.
«Le chiamo un'ambulanza?»
Sherlock chiuse gli occhi, fece una sorta di respiro profondo immaginario e si mosse, prendendole il polso.
«Non credo ce ne sia bisogno» e alzandosi a sedere, John ricevette l'ordine. Scagliò il candelotto fumogeno dentro la casa, dalla finestra aperta, e tutto ciò di cui si accorse Irene fu l'enorme quantità di fumo che proveniva da dietro il divano e un urlo lontano che somigliava a “Al fuoco!”. Si alzò di scatto, e lo stesso fece Sherlock. Lui le fece cenno di uscire, ma lei sembrava non essere ansiosa di andarsene prima di aver fatto un'unica cosa: si precipitò a un vecchio scrittoio e, con una piccola chiave che teneva appesa a una catenina lunga e sottile intorno al collo, aprì un meccanismo e la parte superiore dello scrittoio rivelò un netbook, qualche chiavetta usb e diversi cavi. Sherlock si aspettò di vedere lo scrigno, pc o pendrive che fosse, che conteneva la famosa fotografia di Von Ormstein, ma Irene non si curò affatto di quelli e infilò le dita in una feritoia bassa e lunga, nella quale stava una foto con i colori un po' alterati di quella che sembrava una donna felice, che le somigliava, e la sua bambina. Sherlock, preso in contropiede, si guardò intorno mentre Irene metteva in salvo quella fotografia tra le dita, e le comunicò, con straordinaria calma, che non c'era alcun incendio. Andò a prende il candelotto, circondandolo con la sua sciarpa, e glielo mostrò. Irene rimase senza parole, guardandolo con la fronte aggrottata: stava evidentemente cercando di elaborare ciò che era successo, e quando capì, gli occhi le si allargarono, e il loro verde sembrò a Holmes ancora più intenso, mentre le labbra le si schiudevano e stringeva la foto con meno forza. L'uomo, con uno strano peso sul cuore, non fece altro che ringraziarla per l'aiuto, con la voce più neutra che riuscì a mettere insieme e se ne andò, portando via il fumogeno con sé. Sentì un inusuale fastidio, non riuscendo a comprendere se derivasse dal fatto che non aveva elementi per capire dove la pietra dello scandalo di Von Ormstein fosse nascosta, o se venisse dal suo stesso comportamento, che aveva spaventato quella che alla luce dei fatti pareva una donna innocente.
John arrivò a casa prima di lui e quando gli chiese spiegazioni, Sherlock non fece altro che mettersi sulla sua poltrona e accordare il violino. Holmes era nervoso e il rumore non era per nulla piacevole. Persino Mrs Hudson andò al piano di sopra per sincerarsi che la smettesse, e l'uomo zittì lei e John con un urlo di ammonimento: «Mi serve per pensare, andate a lamentarvi da un'altra parte. Tu, John, hai o no il tuo blog?»
Watson si fece dare dall'amorevole landlady un paio di tappi e la mattina arrivò fin troppo presto. Sherlock lo buttò giù punzecchiandolo con l'archetto alle 7. John lo cacciò fuori e dovette vestirsi il più in fretta che poté, dato che Sherlock sembrava ansioso di andarsene. Non aveva più la sua sciarpa preferita, ormai distrutta dal candelotto incandescente della sera prima, e così ne indossava una praticamente identica, ma più scura. Senza una parola, Sherlock uscì e John, insospettito un po' dal suo modo ancora più strano del solito di comportarsi, non fiatò e lo seguì: non lo aspettavano alla clinica fino al pomeriggio.
Holmes fermò il primo taxi e, salendo ma rimanendo seduto dritto e guardingo, disse al conducente l'indirizzo di Pitt Street di Irene Adler. John si mise accanto a lui, e pensò bene a quale doveva essere la sua protesta più efficace per fermalo, ma non aveva ancora capito che cosa era successo la sera prima e si azzardò a chiederglielo.
«Pensavo che con il fumogeno, lei sarebbe andata in panico e sarebbe andata a salvare la foto di Von Ormstein, e in effetti voleva salvare qualcosa. Ma non quella. E ora devo sapere, maledizione!» disse, stizzito, più a se stesso che a lui. John ci pensò un secondo di più prima di replicare.
«In che senso non quella? Un'altra foto?» disse, cercando di non suonare troppo insistente. Aveva uno strano presentimento, ma non osava parlare.
«Era una foto di sua madre. Le somigliava molto e aveva una bambina con sé. Sembrava scattata un certo numero di anni fa, abbastanza perché la bambina fosse lei e sullo sfondo si intravedeva un paesaggio che non era affatto inglese» spiegò Sherlock, molto più a suo agio ad analizzare i fatti, ma quando passò al tassello successivo sentì di nuovo fastidio «ha cercato di salvare la cosa più preziosa che aveva, ma non era quella che pensavo io»
Dopo qualche secondo, in cui John poteva quasi sentire gli ingranaggi della sua mente incastrarsi perfettamente, eppure con un cigolio, un disturbo nuovo, Sherlock intimò al conducente di riportarli indietro, abbandonandosi con un sospiro sconfitto sul sedile. Quando furono tornati a Baker Street, Sherlock pagò il conducente e se ne tornò in casa, davanti a un John parecchio stranito. C'era Mrs Hudson alla porta, però, che fermava la loro strada.
«Sherlock, una ragazza coi capelli rossi, tanto carina, mi ha lasciato questo per te. Mi sembra di averla già vista da qualche parte... in televisione forse?» domandò affabile la landlady. Sherlock quasi gli strappò di mano quello che era un pendrive di medie dimensioni, e senza dirle altro se ne salì al piano di sopra.
«John, io davvero non lo capisco quel ragazzo... l'unica cosa che mi consola è che forse è davvero dalla parte dei buoni. Meno male che ci sei tu!» concluse, tornandosene nel suo alloggio al piano terra, dopo che Watson le ebbe fatto un cenno di comprensione e le ebbe meso una mano sulla spalla, con partecipazione. John inseguì Sherlock al piano di sopra, concentrato sul suo laptop, al quale aveva appena collegato l'oscuro regalo di Irene Adler.
La chiavetta conteneva un solo file, un video con un titolo anonimo, che Sherlock non esitò ad aprire. Si vedeva Irene, immersa nella luce rossa del tramonto, che parlava direttamente alla telecamera. Dopo pochi secondi iniziò a parlare:
«Sherlock Holmes, è questo il suo nome. Devo ammettere che non ero pronta a un'ulteriore aggressione alla mia casa. Godfrey ripete sempre che sono troppo buona e troppo gentile e che dopo delle aggressioni e i furti, non dovrei permettere a estranei di entrare, a meno che non li accompagni lui o non li abbia chiamati io. Non avrei lasciato una persona ferita per strada, però, e lei lo sapeva. Quando ho visto il fumo, devo ammettere che il panico mi ha fatto correre a salvare la foto di mia madre, è la cosa più preziosa che ho, l'unica che ho nascosto dopo i furti. Perché mai un uomo con una evidente commozione cerebrale era così lucido nel dirmi di uscire, nel farmi vedere che l'incendio in realtà non c'era? Sapevo di averla già vista, e ho fatto qualche ricerca. I siti di notizie di cronaca nera sono riusciti a fornirmi una sua foto, e devo dire che il suo sito è piuttosto interessante, e mi fa capire che lei non è necessariamente il criminale che credevo. Mi sembra più che altro ossessionato dalla verità. Poi ho trovato il suo nome nel blog di John Watson e mi sono sentita ancora più tradita. Sul momento mi sono sentita cadere il mondo addosso, ma ad una lettura più attenta, posso solo constatare che John è la persona per bene e generosa che ho conosciuto oggi, e di sicuro è stato lei a costringerlo ad aiutarla. Ho ricollegato tutto solo quando ho visto cosa avevo nello scrittoio, insieme alla foto: chiavette usb, il nascondiglio perfetto per dei file, per delle foto. E ho ricollegato tutto alla faccenda di Von Ormstein. Quel verme ha illuso e maltrattato una mia grande amica, ed essendo lei troppo spaventata per minacciarlo, l'aveva chiesto a me. Gli avvenimenti di oggi mi hanno distratto da tutte queste cose, e Godfrey ha già piani per l'immediato futuro. Mi dispiace informarla, signor Holmes, che la fotografia è andata distrutta. Non ho più voluto, ora che ho compreso tutto, mettere in pericolo me o mio marito per la vanità di un calciatore strapagato. Appena farà un altro passo falso, e non mancherà molto, si rovinerà da solo. Le auguro una buona giornata, signor Holmes, e mi saluti tanto John...» disse, e dopo una piccola pausa in cui le si dipingeva un sorriso sul volto, concluse «e gli dica che Mary non aspetta altro che una sua telefonata. Chissà, magari in un futuro potrà farmi ricredere, con il suo comportamento, della brutta impressione che mi aveva dato»
Il video si interruppe e il lettore multimediale rimase fermo, con alcuni bottoni disattivati e alcuni comandi come “riguarda il video” e “accedi alla libreria”.
Sherlock rimase ammutolito e serio per un paio di secondi, poi scoppiò a ridere. Dapprima era una risata leggera e ironica, poi divenne sempre più aperta e divertita. John aveva un sopracciglio aggrottato e l'altro sollevato.
«Sono sempre più convinto che in quei cerotti non ci sia nicotina... o almeno non solo quella» commentò, scuotendo la testa, e tornandosene a letto, sperando di recuperare qualche ora di sonno.
Sherlock Holmes ebbe l'istinto di inseguire quella donna. Era stata lì pochi minuti prima e non poteva essere lontana. Aveva parlato di piani dell'immediato futuro, quindi era probabile che non sarebbe sparita per molto, se si riferiva a un improvvisato viaggio di nozze. Soppresse quell'idea perché era perfettamente ridicola. Non aveva abbastanza elementi per sapere se fosse partita in auto, oppure con il treno o in aereo, né da quale stazione o aeroporto sarebbe partita. Dato che John era già sparito al piano di sopra, fece una cosa che non si sarebbe mai aspettato lui stesso: guardò ogni foto del matrimonio sul laptop di Watson, cercando di studiare i soggetti ritratti. 
Da allora, nel suo cellulare si poteva trovare una foto di Irene Adler, sola, nel suo abito color panna e rosso, su uno sfondo color foglie indefinito, che sorrideva a qualcuno, fuori campo. John Watson lo venne a sapere solo quando fu troppo tardi.
   
 
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