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Autore: Kaiko    18/12/2005    1 recensioni
la storia è un po' cambiata e non so se ho preso tutti i particolare iepr bene u.u
Cmq parla di una ricerca di un regalo e di un ritrovo di un cadevere con tanto di assassini. Già, gli assassini in questa storia sono due
Genere: Dark, Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era la notte del 4 febbraio 1892 quando il conte Cain decise che avrebbe fatto un regalo al suo maggiordomo. Da quasi dieci anni gli era vicino, si occupava di lui e della sua sorellastra Marywhite nata da suo padre e da una cameriera a loro servizio orami morta. Cain era figlio di una relazione immorale fra suo padre, Lucius, e sua sorella Augusta. Sua madre si era tolta la vita gettandosi nel vuoto non appena l’ebbe dato alla luce.
Il conte era un bel ragazzo di venticinque anni con capelli neri, occhi del colore dello smeraldo più splendente con striature gialle e viola, la statura rispettabile e una corporatura invidiabile.
Nel castello che aveva ereditato dopo la morte del padre, teneva una collezione… velenosa.
Passò per le infinite stradine di Londra quando, sotto la luce di un piccolo lampione vide una donna riversa a terra in un bagno di sangue.
Si avvicinò lentamente tenendo conto di tutti i particolari. Non era in polizia ma sembrava che quei casi lo seguissero quindi, la polizia di tutto il paese, lo conosceva.
C’erano molti indizi e questo faceva pensare che l’assassinio non era premeditato. Il coltello affilato e grande, che era ancora affondato nell’addome della donna, faceva pensare ad un colpevole di sesso maschile dato che, la lunga lama, era affondata nella carne fino al manico di legno. Il vestito della donna di un blu notte ormai macchiato del liquido della vita, era spiegazzato e ricamato finemente, era una nobile donna. Dal viso si vedevano i segni del tempo. Avrà avuto si e no quarant’anni.
I capelli, sciolti e sparpagliati sul terreno, erano sfuggiti dall’acconciatura, era prova di colluttazione visto che il fermaglio era poco più in la, a terra. I gioielli, come la borsa, erano ancora accanto alla vittima, anche l’assassino era benestante quindi.
Le mani avevano i primi segni d’irrigidimento, quindi era morta da almeno due o tre ore.
Il conte non si fece sfuggire i cerchi che partivano dal centro delle unghie, bianche e poco distanziati fra di loro. La vittima era stata avvelenata con piccole dosi d’aconito.
Nella sua collezione di veleni l’aconito era il più affascinante. In piccole dosi paralizzava, in dosi medie mandava in come, in dosi massicce uccideva.
Arrivata la polizia spiegò loro l’accaduto e gli indizi trovati.
Aveva un sospetto ma non era cauto rivelarlo ora.
La signora era una sua conoscente. Si chiamava Dalilah Zabini, sposa di Alastor Zabini.
In città si vociferava dei suoi continui tradimenti ai danni del marito sempre con uomini diversi. Forse il marito l’aveva colta in flagrante.
Tornò a casa e scese nei sotterranei, ormai il regalo per Riff, il suo maggiordomo, era passato in secondo piano.
Sua sorella lo seguì.
Accorgendosene, sorrise e si voltò velocemente verso di lei spaventandola.
Marywhite aveva la cattiva abitudine di ficcare sempre il naso nelle sue faccende, soprattutto quelle con omicidi. Mary era un’ottima chiaroveggente e Cain, per accontentarla, la portò in salotto e si fece leggere le carte su delitto.
L’impiccato, la morte di Dalilah.
I gemelli, questo non tornava.
C’erano segni d’avvelenamento.
L’aconito era uno dei veleni nobili. Costava molto procurarselo e bisognava avere un minimo di cultura per saperlo usare. La gelosia indicava a Cain che il marito aveva un movente.
L’aveva paralizzata per farla soffrire ma questo voleva sostenere che aveva curato tutto nei minimi particolari. I gemelli indicavano che erano due gli assassini. Allora chi era il vero assassino?
Il conte ringraziò la sorella e fece per andarsene ma questa lo fermò scoprendo l’ultima carta, l’angelo.
Cain le sorrise e tornò nei sotterranei. La loro villa era molto grande e i sotterranei non erano da meno, infatti, scendevano molti metri sotto al livello del mare. Ma lui s’interessava ad una sola stanza e vi ci si diresse. Spalancò la porta e passeggiò un po’ tra gli scaffali e si fermò davanti ad uno in particolare. Prese una boccetta in mano e sogghignò uscendo.
Prese la carrozza che si fermò davanti al maniero Zabini. Si fece aprire ed entrò. Si sedettero in salotto e cominciarono a discutere della perdita. Mentre il padrone di casa si era alzato un attimo per andare a prendere un sigaro, versò rapidamente alcune gocce del contenuto della boccetta nella tazza da te di Alastor che poco prima la cameriera aveva portato loro.
Il signore tornò e, accendendosi il sigaro, cominciò a sorseggiare il te.
Dieci minuti dopo la tazzina di Zabini cadde a terra e si ruppe. Cain cominciò a parlare dei suoi sospetti, degli indizi e, cosa più importante, lo informò di averlo appena avvelenato con dosi medie d’aconito, stesso veleno con cui sua moglie non potette reagire al colpevole. Tirò fuori un’altra boccetta e affermò che quello era l’antidoto. Il signore sbiancò e raccontò di come l’avesse seguita, di come l’avesse vista in atteggiamenti poco ortodossi con un altro e di come avesse preso ad avvelenarla in modo che, il veleno, non fosse stato rivelato dell’autopsia perché ormai parte integrante dell’organismo. Il conte, soddisfatto delle risposte prese il cappotto e se n’andò, ma non prima di averlo avvisato che gli aveva somministrato solo della morfina, che paralizzava solo gli arti.
Uscito dal maniero si diresse nuovamente al centro.
Ora era il momento di trovare il vero colpevole!
Ritornò sul luogo del delitto e si mise a riflettere.
Il marito aveva cominciato ad avvelenarla per i suoi continui tradimenti. E si pensava che gli amanti non fossero fissi ma occasionali. Ma forse non tutti gli amanti lo erano.
Se fosse riuscito a trovare l’amante più frequente avrebbe trovato anche l’assassino.
Fece un giro dei locali dove trovò molti di quelli occasionali d’amanti. Alla fine entro al “Topo Bianco”, una delle taverne più malfamate di tutta Londra, e chiese al barista. Egli rispose di aver visto molte volte Dalilah in compagnia di Erebo Parckinson e glielo indicò. Si avvicinò all’uomo e si fece ben volere offrendogli da bere. Andò a prendere i boccali di birra e in quello dell’uomo mise delle gocce di belladonna. Erebo svenne appena finito di bere e Cain, con la scusa dell’ubriachezza, lo portò alla centrale di polizia.
Ogni indizio portava a lui.
Aveva scoperto degli altri amanti e del bimbo che ella portava in grembo da parte di uno dei tanti. L’aveva uccisa dopo averla vista con un altro e l’aveva violentata subito dopo. L’autopsia, infatti, aveva rilevato segni di violenza carnale post-mortem.
Non l’aveva derubata per far ricadere la colpa sul marito.
Dopo la confessione, il conte, salì sulla sua carrozza e si diresse in centro.
Al suo maggiordomo avrebbe regalato un servizio di te e, per ringraziarla, alla sorellastra avrebbe regalato un cappello nuovo.
Sogghignò.
La carta dell’angelo era lui, ma lui non era l’angelo. Aveva risolto il caso, ma non era l’angelo.
Lui era il diavolo.

  
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