Il sorriso di Toki
Nel carcere di Cassandra l’unico suono era il pianto: dei prigionieri, dei
muri e dei demoni. A volte persino quello dei carcerieri. Aveva mura solide, il
carcere di Cassandra, cancelli robusti e guardie ad ogni entrata. Solo la luce
mancava ché la disperazione è sposa del buio.
Toki era grigio e immobile come la pietra della sua cella, non emetteva un
fiato, un lamento o un gemito. Né pareva sentire le grida di agonia, i
singhiozzi e i pianti che aleggiavano nell’aria assieme alla polvere.
I suoi carcerieri avevano avuto l’ordine di osservare ogni suo movimento, ma
persino gli occhi del guerriero erano immoti. E alle guardie non restava che
fissare una statua di cera incatenata.
Toki sedeva, immobile, proprio come faceva al monastero di Hokuto, nelle lunghe
ore passate in meditazione, quando il tempo gli scivolava addosso e lui si
concentrava in se stesso, estraneo ad ogni suono, ad ogni luce, ad ogni cosa.
Poi c’era stata l’Apocalisse e tutto era cambiato.
Era rimasto per due settimane a guardare in faccia la solitudine e la morte ed
era sopravvissuto. Profondamente cambiato, ma pur sempre vivo. Quando l’allarme
era cessato e Ken lo aveva dissepolto dalle ceneri velenose, Toki aveva trovato
conforto tra le braccia del fratello e aveva potuto addormentarsi col sorriso,
senza sapere – e, per la prima volta, senza preoccuparsi – se si sarebbe
risvegliato o meno. Aveva abbracciato suo fratello e insieme a lui il sonno e
l’oblio.
Si era svegliato nel suo letto, ma le radiazioni che erano entrate in ogni fibra
del suo corpo lo stavano mutando: il tempo, per lui, aveva cominciato a scorrere
veloce, molto più veloce di prima. Era fuggito da Hokuto, incapace di resistere
a tanti sguardi affettuosi e pietosi, che leggevano nei suoi capelli candidi e
nel suo volto provato le stigmate di una morte che lui non voleva – non ne era
ancora pronto! – provare dentro. Se n’era andato e aveva vagato senza meta,
senza scopo, ben conscio di avere poco tempo e nessuna soluzione al passato o al
futuro. Finché era giunto a Miracle Village: in mezzo a tanto squallore e
disperazione si era sentito a casa e, giorno dopo giorno, aveva ridato un senso
alla vita che gli restava da vivere. Aveva tirato fuori da un cassetto il suo
vecchio sogno di utilizzare le tecniche fatali della scuola di Hokuto per
portare guarigione. Era così che si era meritato l’appellativo di “Salvatore” e
la sua venuta veniva acclamata in ogni villaggio in cui metteva piede. Ma la
distruzione sembrava seguirlo come la sua ombra e anche Miracle Village – la sua
nuova casa – non era stato risparmiato dai banditi e dai predoni che
scorrazzavano per il deserto. Di nuovo ogni equilibrio faticosamente costruito,
ogni speranza creata dal nulla venivano distrutte dalla ferocia degli uomini.
Proprio come quando un cacciatore gli aveva ammazzato Koko davanti ai suoi
occhi, la rabbia lo aveva accecato: aveva sterminato i predoni per poi rimanere
senza forza e diventare egli stesso una facile preda, venire catturato e portato
a Cassandra assieme alla propria disperazione.
“Il re di Hokuto non vuole che costui incontri l’Uomo dalle Sette Stelle,” aveva
detto uno dei suoi carcerieri mentre lo trasportavano a Cassandra.
Una frase che, in lui, aveva fatto rinascere fiducia, attesa e speranza. Perché
solo un uomo poteva autoproclamarsi re quando Hokuto aveva sempre avuto solo un
erede, solo un predestinato benedetto dalle sette stelle dell’Orsa Maggiore.
Potevano essere solo loro: Raoul e Kenshiro. Il fratello maggiore e il fratello
minore.
La prigione di Cassandra divenne per Toki un luogo di riposo e meditazione. Il
luogo ideale per attendere il proprio destino. Avrebbe affrontato di nuovo il
buio e la solitudine, ma non l’avrebbe fatto con la certezza di morire. Aveva
bisogno di prepararsi a vivere.
Fino allora il buio sarebbe stato perfetto.
Fino a quando i suoi carcerieri ebbero qualcosa da riferire: Toki aveva sorriso.
Il suo destino era arrivato e non si era limitato a bussare alla porta: l’aveva
divelta.