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Autore: Melian    18/01/2011    10 recensioni
"Le tradizioni di Astaldo dovevano essere rispettate. E le tradizioni prevedevano che tutti i ragazzi, alla soglia dei diciotto anni, scegliessero una guida spirituale all’Abbazia dei Chierici e intraprendessero la scalate del Monte Zanna per incontrare il Signore dei Cieli, un’impresa che ne avrebbe fatto, se fossero sopravvissuti, finalmente degli uomini."
[Prima classificata al contest "Il bestiario" indetto sul sito Fanworld.it]
[Terza classificata al contest "The Winner is..." di JonS e Aleena indetto sul forum di EFP. Vincitrice dei premi "Miglior attore non protagonista" e "Miglior fotografia".]
[Vincitrice del premio "Uno è tutto e tutto è uno" al Summer Contest di My Pride sul forum di EFP]
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL SIGNORE DEI CIELI E L’OPERA AL NERO

 
 
La montagna si stagliava solitaria e aguzza contro il cielo rosseggiante del tramonto. Era ripida, scoscesa e, all’apparenza, inospitale per chiunque non fosse stato una capra o uno stambecco. La sua cima si perdeva tra i nembi grigi e voluminosi che preannunciavano l’arrivo di un temporale.
Lungo un sentiero che si inerpicava sul fianco della montagna, un giovane uomo si inerpicava curvato in avanti per poter far presa con le dita callose contro la pietra tagliente. Avanzava lentamente, ma inesorabilmente, col viso bagnato di sudore che gli incollava i capelli scuri e scarmigliati alla fronte. Aveva lo sguardo risoluto e concentrato.
Poco dietro di lui, sbuffando e ansimando, col viso paonazzo, una seconda persona si accingeva alla difficoltosa scalata. Era un ometto dall’aria impacciata, oltre che affaticata: si capiva a una prima, superficiale occhiata, che non si era mai imbarcato in un’impresa simile, né che ne fosse entusiasta.
I due sembravano così diversi l’uno dall’altro, che si faceva fatica a capire come potessero viaggiare assieme. Il primo era giovane, alto, dal fisico asciutto e allenato di un atleta, con gli occhi scuri e focosi e i lineamenti volitivi, mascolini, sottolineati da un pizzetto – al contrario dei capelli castani – ben curato. L’ometto invece era un po’ panciuto, aveva il naso a patata e i capelli biondi, oltre che due guance rosse come due mele.
Si scambiarono una breve occhiata, in silenzio, senza sapere che un occhio vigile e invisibile ne spiava ogni passo, come una presenza intangibile, eppure possente, che aleggiava sulla montagna. Un occhio che non si chiudeva mai.
«Possiamo fare una pausa? Ho i piedi che sembrano burro tremolante!» L’ometto si lagnò, asciugandosi il sudore con un fazzoletto enorme e colorato che poi ricacciò nell’ampia manica della tunica di tessuto grezzo che indossava.
«Ma se abbiamo fatto una sosta meno di mezzo giro di clessidra fa!» Gli fece notare il suo compagno, con l’ardore tipico dei giovani. Si piantò in viso un sorriso ironico e aggiunse, con vago divertimento: «Per essere un chierico, non mi sembri poi così in gamba…»
Il Chierico mise su un broncio indignato e, sbuffando e agitando le braccia in segno di protesta, rispose accorato: «Non così in gamba? Non – così – in – gamba? Viene a dire a me, Barnaba, il Chierico Maestro, che non gli sembro in gamba! Un po’ di rispetto, giovanotto, per chi ha la grazia degli dèi dalla sua! Quand’ero giovane io, di scalate ne ho fatte a iosa, ma adesso… adesso ho la mia età. E… e… e poi io preferisco lo studio in abbazia a tutto questo scorrazzare su per i monti! Non sono mica una capra, no?»
Il ragazzo scoppiò in una risata divertita e diede una pacca sulla spalla di Barnaba, scuotendo il capo e sogghignando. Infine, acconsentì, mormorando ironicamente: «No, non sei una capra. Va bene, riprendi fiato!»
Si fermarono quasi alla fine del loro percorso. Mancava poco per raggiungere la vetta; il vento lo suggeriva: soffiava forte, freddo e improvviso, insinuandosi tra le rocce e sibilando senza sosta.
«Certo è, ragazzo, che vorrò vedere se riuscirai a conservare la tua irriverenza anche quando entreremo nel seno della montagna e scenderemo nel suo cuore, laggiù, fino alla grotta scavata nella pietra viva. Voglio vedere se, davanti alla Creatura, avrai ancora quel sorriso sfacciato!» borbottò Barnaba, mentre si stringeva nel suo mantello consunto e si sedeva su una pietra bassa, osservando il ragazzo impegnato ad accendere un fuocherello di fortuna. Ma, in tutta risposta, ricevette un sorriso compiaciuto e sicuro e uno sguardo illuminato da una volontà di ferro.

Il ragazzo si chiamava Leonnato.
Da quando aveva cominciato la scalata del Monte Zanna, non aveva più ripensato alla città che si era lasciato alle spalle, né si era più guardato indietro. Avanti, andare avanti e solo avanti, fino a trovare l’entrata della stanza del Signore dei Cieli; non aveva altro pensiero.
Però, mentre ravvivava il fuocherello seduto accanto a Barnaba, gettò uno sguardo alla strada appena percorsa, fino a che il pensiero lo condusse ai piedi dell’altopiano, scendendo in picchiata come un falco, fino alla cittadina chiusa tra la catena montuosa e il mare, la ricca Astaldo.
Immaginò le vie che si illuminavano non appena le lanterne venivano accese; il profumo delle focacce al miele e della carne alla brace che si spandeva in ogni angolo; l’andirivieni degli uomini al ritorno dal lavoro; lo scalpiccio dei cavalli e il rumore dei carri. Gli parve di sentire le risate e le grida di giubilo dei bambini e la voce delle madri che li chiamavano per la cena. Vide la città viva e brulicante nella propria mente, con gli stendardi azzurri e dorati che sventolavano dalla Rocca dei Venti che dominava, su una collinetta, tutti i quartieri.
Vista dall’alto, Astaldo aveva la forma ovale di un opale incastonato al centro di una collana, con vie sinuose, rigogliosi angoli verdi, nobili caseggiati e sobborghi più modesti. Aveva un porto e comunicava con le città limitrofe attraverso lunghe vie carovaniere che tagliavano attraverso i monti.
Tutti sapevano, Leonnato compreso, che la bellezza e la prosperità di Astaldo era garantita dalla presenza e il dominio indiscusso del Signore dei Cieli, quella Creatura alata che compariva negli stendardi, sugli scudi dei guerrieri, sugli arazzi e i tappeti.
Tutti sapevano e tutti temevano quella presenza che era l’anima del Monte Zanna, quel cuore che batteva nella pietra, quell’occhio dalla pupilla verticale, nero come la notte e capace di spezzare la volontà di chiunque e riempirlo di folle terrore.
Le tradizioni di Astaldo dovevano essere rispettate. E le tradizioni prevedevano che tutti i ragazzi, alla soglia dei diciotto anni, scegliessero una guida spirituale all’Abbazia dei Chierici e intraprendessero la scalate del Monte Zanna per incontrare il Signore dei Cieli, un’impresa che ne avrebbe fatto, se fossero sopravvissuti, finalmente degli uomini.
Leonnato non faceva eccezione: aveva lasciato la sua casa, portato con sé il minimo indispensabile e si era messo in viaggio con Barnaba accanto, il Chierico che lo aveva seguito fin da bambino come un secondo padre. Doveva raggiungere la cripta che era stata scavata secoli prima e incontrare la Creatura.
Alzò gli occhi al cielo e vide le nuvole addensarsi e vorticare, tinte di nero: la tempesta stava per esplodere.
 
***


Faceva caldo.
Il calore emanato dalla fornace, l’Athanor, era così denso, da poter essere toccato e tagliato a fette.
I contorni degli oggetti tremolavano e si sfocavano nel vapore che aleggiava in quella vetusta stanza di pietra. Il fuoco ardeva senza posa, ravvivato dagli stantuffi, e saliva in lingue sinuose e rosse come il sangue.
I vestiti gli si attaccavano addosso: quella tunica era per lui come una seconda pelle fradicia di sudore. Ma il giovane non pareva farci caso, come se nulla avesse valore all’infuori del fuoco che fissava come ipnotizzato, coi grandi occhi verdi sbarrati e il viso sporco di fuliggine.
Nero. Tutto era completamente nero: la pelle, i capelli appesantiti dalla cenere, la tunica del ragazzo, l’intonaco delle pareti, i pavimenti aspersi di polvere, la copertina del libro che troneggiava su un leggio e che aveva le pagine di fine pergamena, su cui si alternavano simboli, disegni e scritte apparentemente strani.
«Pazienza, umiltà, rispetto.» mormorò il giovane come in una litania, con la voce bassa e vibrante, profonda, quasi venisse da un altro luogo.
Tese le braccia verso il fuoco dell’Athanor, abbandonando la seggiola su cui stava sprofondato poco prima con un movimento subitaneo, e vi immerse le mani, ma non si bruciò. Le fiamme gli lambirono le dita e non le incenerirono, ma le carezzarono dolcemente come una madre col figlio.
Poi venne il rombo del tuono e il lampo squarciò il cielo, nero anch’esso, e cadde la pioggia. Le gocce ticchettarono contro la finestra del laboratorio e il vento spirò più forte, insinuandosi tra le fessure per raggiungere il ragazzo, portando con sé le foglie di un giovane albero.
Sembrò che i quattro elementi si fossero riuniti solo per quel giovane e che volessero attorniarlo senza dargli respiro, per corteggiarlo e sfidarlo.
Nella parte più nascosta di Astaldo, la Loggia troneggiava dietro una cortina di alberi sempreverdi, con la sua forma esagonale, fatta di ampi portici che si aprivano su un labirinto di siepi. Erano pochi – i soli iniziati – a conoscere i segreti di quel luogo esoterico, sulle cui pareti e pavimenti erano iscritti segreti accessibili solo a chi parlava il Linguaggio Universale.
Lì, nella Loggia, si dipanavano i destini di quanti osavano alzare lo sguardo dalla terra per guardare al sole.
Lì, nella Loggia, il sentiero che si snodava attraverso il dedalo era lastricato d’oro.

Il giovane si chiamava Xante.
L’Arte era la sua massima aspirazione di vita, era la sua stessa vita. Si era votato anima e corpo alla Grande Opera e aveva passato anni a viaggiare da un luogo all’altro per inseguire la propria Leggenda. Dal deserto alle montagne, veleggiando su mari e fiumi, fino ad Astaldo, alla Loggia i cui cancelli gli erano stati schiusi dopo giorni di estenuante attesa da un uomo dall’aria venerabile e lo sguardo penetrante.
Xante guardava, ascoltava, toccava, assaggiava ogni cosa e si sforzava di farlo come un bambino, con la stessa purezza e lo stesso entusiasmo. Cercava tracce dell’Anima del Mondo dietro ogni angolo e provava ad interpretare e parlare il Linguaggio Universale.
Voleva sfidare se stesso e provare che era pronto a compiere il miracolo: trasmutare il vile piombo in ferro, il primo passo verso il compimento della Grande Opera sulla Via Auri.
Nigredo.
Nero. Nero. Nero. Pensiero fisso.
“Il fango del volgo, dell’ignoranza e della mediocrità, è nero che sporca il cuore e la mente e frena la mano, e va lavato via, disperso nei colori smaglianti della Coda del Pavone, della rinascita.” Era questo che la sua guida gli aveva mormorato quando lo aveva introdotto nella Loggia.
Nigredo. VITRIOL. Lo ripeteva ancora.
“Perché devi morire e scavarti dentro, gettare lo sguardo alla tua stessa lapide per poter rinascere, come la fenice. Perché sei fango, cenere, polvere… sei così piccolo nei confronti dell’Universo, eppure sei così grande, e devi solo accorgertene, prenderne coscienza e decidere del tuo destino. Devi realizzare la tua Leggenda, ovunque ti porti.”
“Nigredo! Cadi e cadi e cadi. E poi ascendi, sempre più su, tra le stelle. Ma devi volerlo, devi sentirlo. Immergiti nel buio, sprofonda fino alle radici di te stesso e sboccia.”
Xante lo voleva. Xante lo cercava. Xante teneva a mente quegli insegnamenti.
 
***


Leonnato e Barnaba si fecero sorprendere dal temporale. La pioggia scrosciante spense il fuocherello e li costrinse ad affrettare il loro percorso.
Raggiunsero l’apertura di un cunicolo, apparentemente stretto e scomodo, e dovettero strisciare carponi uno dietro l’altro, fino a che superarono quell’imbocco e si ritrovarono in una caverna spoglia. Era buio pesto lì dentro e i due si mossero a tentoni, fino a che non sbatterono l’uno contro l’altro. Se Leonnato si piegò in avanti e si tenne la fronte con ambo le mani, ringhiando dal dolore, Barnaba crollò lungo disteso per terra, con un tonfo sordo e un sonoro: «Ahio!»
«Diamine, Barnaba, hai la testa più dura di una noce!»
Il Chierico strizzò gli occhi, si massaggiò il capo e si sbrigò a tirar giù i lembi della tunica che gli avevano lasciato scoperte le gambe piene e pelose e le braghe di una imbarazzante fantasia floreale. Paonazzo di vergogna, sperò che – complice il buio – Leonnato non avesse fatto caso all’accaduto. Tossicchiò e si rialzò, andando ad acciuffare il ragazzo per un orecchio, con fare imperioso. «Vogliamo parlare della tua testa di legno? Fatti da parte e lascia che faccia il mio… uhm, lavoro!» Si collocò al centro di quella caverna, ad occhi chiusi e nella posa raccolta di chi è intento a pregare.
Leonnato non poteva vederlo, ma sentì una nenia prendere vita dalla bocca del Chierico, una nenia bassa e dolce, continua, in una lingua che lui sapeva essere sacra e che non conosceva, ma gli ispirava riverenza. Gli venne istintivo abbassare lo sguardo persino nel buio, in segno di rispetto, quando la preghiera si innalzò e crebbe di intensità e volume e uno sprazzo di luce bianca scaturì dal medaglione a forma di triscele che Barnaba portava al collo. La luce, diretta emanazione della divinità evocata, la Grande Madre, pulsò e, un attimo dopo, il fuoco zampillò dalle torce disseminate lungo tutto il perimetro roccioso della caverna e illuminò i fregi che ornavano i battenti laterali e l’architrave d’una porta scolpita nella pietra viva, chiusa da una lastra spessa.
Leonnato contemplò i battenti interamente decorati e Barnaba sorrise, mentre chiarì: «Questa è la via che ci condurrà all’Aula del Tesoro.»

Il Drago stava disteso sul tesoro che custodiva da sempre. Era un enorme collina d’oro, argento, pietre preziose, sculture, vasellame e fini tappeti, creazioni senza eguali appartenenti ad epoche e paesi lontani, tanto perfetta da far sospettare che fossero realizzate non già da artisti umani, ma da quelli del Popolo Alto degli Elfi che vivevano nelle terre al di là del mare.
Il Drago non dormiva mai e i suoi occhi di un giallo dorato, con la pupilla ellittica nera e brillante, erano sempre aperti; di quando in quando, erano eclissati dietro la palpebra sottile e traslucida, ed erano i momenti in cui la creatura spingeva la propria vista magica a scrutare il Monte Zanna dall’alto e i territori circostanti, compresa Astaldo. Erano occhi rapaci di predatore che scandagliavano il proprio territorio con perizia.
Il Signore dei Cieli era mastodontico e imponente, il suo corpo – benché di una stazza più che notevole – era affusolato e aerodinamico, coperto di scaglie di un cupo blu; la lunga coda era ripiegata contro il fianco, come a proteggere il ventre di una tenue sfumatura azzurra; le zampe erano ornate da artigli affilati. Ciò che rendeva la sua presenza ancor più gigantesca e temibile, tuttavia, erano le ampie ali telate con i loro aguzzi uncini apicali; sembravano vele di un enorme vascello o teli fluttuanti tra due mani.
Nella sua gola, la creatura covava il fuoco e, tra le sue fauci potenti e affilate, serpeggiava una lingua sottile e di un rosso smagliante.
L’enorme bestia restava acquattata sul suo bottino, ma ben sapeva che qualcuno stava penetrando nella montagna, avanzando tra i filari di pietra, lungo le gallerie scavate in tempi antichissimi: li aveva visti prima, mentre avanzavano curvi sotto il peso della fatica della scalata. Semplicemente, aspettava e li seguiva da lontano con la sua magia segreta e terribile.
La lunga coda si srotolò e strinse a sé o un grosso uovo dal guscio duro come marmo, levigato e bianco come madreperla. Si sa, una madre può divenire particolarmente ostile se qualche intruso osa toccare il suo piccolo…


***

Il Laboratorio era saturo dell’odore dolciastro di erbe gettate su un braciere di rame. Il fumo che si innalzava in vaghe spirali dava un senso di vertigine e di smarrimento e, nel contempo, acuiva ogni senso.
Xante ondeggiava quasi fosse un fuscello smosso dalla brezza, con espressione trasognata. Era come un lago coperto da una patina di fango nero in cui viene tirato un sasso e la cui superficie, allora, si increspa in cerchi sempre più larghi. Tutto ciò che albergava nel suo animo, in ogni piega profonda, fluiva e saliva a galla. Fluiva. E il suo cuore cantava: “Lascia che l’Anima del Mondo ti penetri e fluisca in te, portando in ogni vena del tuo corpo la Verità. Lascia che il vaso pieno della terra del tuo corpo e della tua anima bruci e si cuocia sul fuoco della consapevolezza. Tu sei il vaso che, di notte, deve essere cotto, putrefatto, disgregato dal fuoco dell’Arte e, perciò, purificato e riportato alla vita. Guarda il Nero. Affoga nel Nero. Abbraccia il Nero! Muori ora, ragazzo! Muori, desideralo!”
Xante ondeggiava e guardava le sue mani infilate nella fornace e le vide, stavolta, ardere e carbonizzarsi. Sentì il vento che urlava nella tempesta sferzargli la schiena e aprire ferite sanguinose, l’acqua gelarlo e la terra tremare sotto i suoi piedi. Spalancò la bocca e urlò di angoscia e spavento.
Tutto, attorno a lui, roteava. Gli sembrò che mille anni gli pesassero sul capo e che fosse, d’un tratto, diventato vecchio e incartapecorito, e si curvò, toccando il pavimento con le ginocchia.
Vennero a lui un giovinetto androgino e danzante attorno a due figure abbracciate, l’emblema del maschio e della femmina, in vesti sgargianti di rosso e blu e gli mormorarono: «Coagula!»
Xante riconobbe nel giovinetto Rebis e nei due sposi il Mercurio e lo Zolfo, e lui si vestì di giallo e fu Sale, immergendo le mani nere nel proprio petto; si strinse il cuore palpitante e a lui chiese cosa fare, dove andare. Fu in quel momento supremo in cui il cuore gli parlò ancora e gli sussurrò di urlare ciò che realmente voleva e aprire gli occhi, che Xante esclamò: «Voglio diventare un Alchimista! Voglio essere più puro, più vero!».
Così, si ritrovò a sprofondare nel pavimento del laboratorio, come se fossero sabbie mobili. Affondava e soffocava, e la sabbia gli riempiva la bocca e le narici e lo accecava. Ma quelle sabbie altro non erano che un passaggio, un’apertura, infatti il ragazzo sbucò di colpo in una piana desertica e i corvi vorticavano sopra il suo capo in ampi cerchi e con acute grida. Lo puntavano coi loro occhi rossi e gracchiavano, mentre il più grande e maestoso scese in una rapida picchiata proprio verso di lui e gli ghermì il petto, artigliandosi alla pelle. Xante sentì il dolore provocato dagli artigli rapaci e strinse i denti, mentre acciuffava il collo del corvo con una mano e con l’altra sollevava il falcetto. Decapitò il Corvo.
Decapitò il corvo e vide davanti a sé una lapide su cui c’era il suo nome e pianse. Pianse perché quella era la sua tomba, pianse per il se stesso che gettò nella fossa assieme alla testa del Corvo. Pianse perché aveva trovato il significato del Vitriol: “Visita l’interno della tomba e, rettificando, troverai la pietra nascosta”. Pianse perché si era guardato dentro, era sprofondato nel buio della Nigredo e aveva trovato una nuova forza, una nuova consapevolezza di sé: era rinato.
Le sue mani non erano più bruciate, ma lisce e morbide, così come il suo volto era sereno e sorridente. Persino le sue vesti ora portavano indosso non già il nero, ma il rosso smagliante della Fenice che rinasce dalle proprie ceneri.
 
***


Leonnato e Barnaba camminavano in fila lungo la galleria, tenendo alte le loro fiaccole che proiettavano lunghe lingue di luce sulla pietra fredda. Di colpo, i due si fermarono, perché la galleria si trasformò improvvisamente in una camera talmente enorme che l’eco provocata dal rumore dei loro passi rimbalzò innumerevoli volte sulle sue pareti concave. Pilastri giganteschi ed intarsiati sostenevano le volte immerse nella penombra, così alte che la luce delle torce non vi penetrava.
Leonnato trattenne un’esclamazione di sorpresa, e Barnaba dovette fargli cenno di non fiatare quando gli cadde sott’occhio la sagoma mastodontica del Drago. Spalancò la bocca e batté le palpebre nell’osservare l’immenso tesoro su cui la creatura era distesa e che riempiva ogni angolo con uno scintillare d’oro, bronzo e argento.
Il Drago li vide subito. Teneva il capo rivolto verso l’entrata della propria tana e gli occhi da rettile ben aperti, con sbuffi di vapore caldo che gli salivano dalle narici. Emise un ruggito possente e terrificante, che fece traballare sia il ragazzo che il Chierico e li costrinse a tapparsi le orecchie con le mani, con aria sofferente. Subito dopo, il Drago fece serpeggiare la lunga coda verso i due e la usò come una frusta, per scaraventarli per terra.
I due si ritrovarono bocconi con aria intontita, e avanzarono carponi verso la parete dell’aula, strisciando contro di essa, al riparo.
«Perché ci attacca?!» esclamò Leonnato col fiatone.
«Non lo so, forse ha la luna storta!» ironizzò Barnaba, e rifilò un’occhiataccia al ragazzo. Tuttavia, gli diede una pacca d’incoraggiamento sulla spalla e gli mormorò: «Presentati al Signore dei Cieli e cerca la sua benedizione!»
Leonnato non parve molto convinto; tutta la sua baldanzosità parve eclissarsi in un attimo. Fissava la testa crestata del Drago e le lunghe zampe che si muovevano per far ruotare il collo e il corpo. Vide la lunga coda arrotolarsi attorno a un uovo e si accigliò. «Credo sia una mamma arrabbiata, Barbaba!» e gli indicò proprio l’uovo con un gesto appena accennato, dubbioso.
Barbaba si portò la mano alla fronte, tergendosi il sudore sul volto paonazzo. Mugugnò qualcosa tra sé e sé e sbuffò, rimettendosi in piedi. Subito, dal suo corpo venne irradiata l’aura mistica di un tenue azzurro che inspirava una calma e una pace divine, mentre la triscele al suo collo brillava e vibrava, satura del potere che il Chierico stava mutamente invocando. «Vai, ragazzo! Vai dal Drago!»
Così, Leonnato si tirò su e si diresse a passi incerti al cospetto della creatura. Quando gli arrivò proprio davanti al muso, dovette alzare il capo per poter seguire il profilo delle fauci che venivano spalancate e che mettevano in mostra la chiostra di denti da predatore. Venne investito da un’ondata di vapore caldissimo e da un senso di vertigine e timore: era piccolo come una formica e il Drago avrebbe potuto schiacciarlo con una zampata. Tenne le mani bene in vista, in segno conciliante, e abbassò lo sguardo quando parlò alla bestia: «Vengo in pace, non voglio far del male al tuo piccolo. Sono di Astaldo e cerco il tuo favore perché possa essere chiamato un uomo, un guerriero che protegga la città che tu stessa guardi dall’alto di questo monte.»
Il Drago parve non intendere quelle parole e fece schioccare le mascelle in un morso talmente vicino al giovane che avrebbe potuto dilaniarlo, non fosse stato per l’intervento di Barnaba che, salmodiando, espanse la propria aura fino a lambire la creatura alata.
«Il giovane dice il vero, Signore del Cielo! Per gli dèi e il potere che mi è stato da loro conferito, io l’ho portato al tuo cospetto perché tu possa giudicarne l’animo e la mente. Nessuno oserà toccare il tuo piccolo, te lo giuro nel nome degli dèi, Semidivino!»
Il Drago si quietò, scrutò il Chierico dall’alto con aria maestosa e poi, adagio, calò il capo, toccando il pavimento della grotta con la mascella e trattenendo lo sguardo su Leonnato. Lo guardò coi grandi occhi antichi e irradiò il suo potere per indurre il giovane a ricambiare lo sguardo. Così, quando ebbe gli occhi di lui nei propri, restò lungamente a fissarlo e sembrò che il tempo si fermasse e che tutto perdesse d’importanza.
Leonnato era immobile, prigioniero di una malia. Sembrava una statua dagli occhi spalancati che si riflettevano e si perdevano nelle pupille verticali del Drago. Sentì il suo potere su di sé, lo sentì insinuarsi nelle pieghe della sua mente e nei profondi recessi della sua anima e riportare a galla i vecchi ricordi, giudicare le sue azioni e le sue parole, impartirgli insegnamenti. E capì di colpo come il Drago possedesse una saggezza antica quanto il mondo e più grande di qualsiasi altro essere umano, come essa venisse dagli dèi, di cui era progenie. Comprese come quell’intelligenza bestiale, così diversa dalla sua, potesse discernere il giusto dall’ingiusto e il bene dal male e, allo stesso tempo, essere così macchinosa e astuta, da predatore instancabile. Si sentì del tutto svuotato e stanchissimo, tanto che ansimò e portò la mano al cuore, e – subito dopo – fu riempito di un’energia nuova e vigorosa.
Il Drago distolse lo sguardo e sciolse il suo incantesimo, scrollò gentilmente il capo e lasciò cadere ai piedi del ragazzo uno dei suoi denti più piccoli, subito sostituito da uno nuovo, forte e bianchissimo. Guardò con un basso ringhio soffuso la porta della sua aula e ordinò silenziosamente sia al giovane, sia al Chierico, di andar via: quella era il massimo della sua magnanimità e della tollerabilità di cui era capace.
Leonnato si mosse con una leggerezza nuova, acciuffò quel dente e poi indietreggiò, seguito da Barnaba, fino a che l’Aula del Tesoro fu soltanto uno scorcio scintillante dietro la curva del cunicolo che li avrebbe riportati all’esterno.
«Sii fortunato, ragazzo. Hai resistito allo sguardo del Drago e hai ricevuto un dono concesso solo a chi supera la prova. Non sai quale pericolo hai corso!»
«Era nella mia testa, Barnaba. Sapeva tutto di me e il suo sguardo era irresistibile, ma così bello! Cosa poteva esserci di pericoloso?» Leonnato gongolava e non smetteva di sorridere.
«Te lo ripeto! Sentiti onorato e fortunato, Leonnato: lo sguardo del Drago uccide gli indegni!»
 
***


Astaldo era bagnata da un pioggerella leggera e profumata dall’odore dei pini che crescevano nelle vallate.
I bambini guardavano in strada aggrappati al davanzale delle finestre, mentre la cena era in tavola e fumava. Il rumore del maglio contro l’incudine, proveniente dalla bottega del fabbro, riecheggiava regolarmente sul fondo di una delle viuzze, mentre il pescivendolo dal lato opposto della strada travasava il pesce fresco dalle cassette di legno ai banchi d’esposizione.
Sulla Rocca dei Venti, gli stendardi umidi garrivano al venticello e funzionavano alla pari del richiamo di una sirena per quanti tornavano alla loro casa.
Due giorni dopo la scalata del Monte Zanna e l’incontro col Drago, Leonnato e Barnaba avevano attraversato le porte della cittadella e, adesso, percorrevano le vie con aria felice e soddisfatta.
Leonnato irradiava una nuova sicurezza e sembrava, d’un colpo, divenuto più adulto, più forte e più consapevole di sé. Camminava con l’andatura regolare e marziale del guerriero cosciente della prontezza della propria mente e dei suoi riflessi, con il dente del Drago legato al collo: era il segno distintivo su cui tutti i passanti appuntavano lo sguardo, salutandolo con calore e riempiendolo di congratulazioni per aver superato la prova imposta dalle tradizioni.
Barnaba era compiaciuto e, anche se si sosteneva ora su un bastone nodoso, non sembrava più stanco come all’andata. Diede un’altra pacca sulla spalla di Leonnato e lo lasciò per rientrare all’Abbazia dei Chierici con un sorriso pieno e orgoglioso. Anche lui era temprato e ringiovanito dall’incontro col Drago.
Leonnato camminò da solo per Astaldo, godendo ogni angolo della città, fino a che incrociò, davanti a uno dei palazzi più vecchi, un ragazzo vestito di brillante rosso e un volto splendente di serenità.
Si riconobbero subito e, ognuno di loro, notò i cambiamenti nell’altro, scambiandosi un abbraccio vigoroso e fraterno. Si guardarono negli occhi e sorrisero.
«Quindi, alla fine, sei tornato vivo e vegeto e il Drago non ti ha mangiato! Guardati, sei un uomo, un vero guerriero di Astaldo!» rise Xante, sfiorando il dente di Drago al collo dell’amico.
«E tu, straniero, con questo vestito così carino, cosa fai, eh?» Leonnato diede un pugno scherzoso al braccio di Xante e scrollò il capo, con finta incredulità.
Xante assunse un’aria vaga, si grattò il mento e, come se fosse una cosa di poco conto, annunciò: «Sono un Alchimista, adesso.»
«Scommetto che per tutti e due è stata una passeggiata, eh, amico?» scherzò ancora Leonnato e fece cenno a Xante di accompagnarlo lungo la via, mentre procedeva a passo spensierato verso la grande fontana che troneggiava nella piazza principale di Astaldo.
Su di loro, dal Monte Zanna avvolto nella nebbia, si posò l’occhio sempre vigile del Drago.








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Note dell’autrice:

Storia partecipante al contest: “Il Bestirario”, di Fanworld.it e vincitrice del primo premio.
Come animale del bestiario ho scelto, come si è ampiamente notato, il Drago. Ho ben cercato di far risaltarne la natura magica, senza scadere nell’umanizzazione. Spero di esserci riuscita.
Per quanto riguarda il colore, la mia scelta è ricaduta sul “nero” e ho voluto usarlo in modo un po’ “filosofico”, rifacendomi a una delle fasi della cosidetta Grande Opera degli Alchimisti: l’Opera al Nero, chiamata Nigredo; l’Opera la Bianco, detta anche Albedo; e l’Opera al Rosso, ovvero la Rubedo.
So che, di primo acchito, leggere di riferimenti alchemici ed esoterici può disorientare, eppure ho cercato di essere quanto più chiara possibile, provando – nel contempo – a non perdere quella sfumatura onirica e quasi ossessiva delle scene che riguardano Xeno e la sua prova per diventare un Alchimista vero e proprio. Ho voluto conservare un carattere visionario per quelle scene, contrapponendo quelle in cui ci sono Barnaba e Leonnato che sono un po’ più “terrene” e meno “filosofiche”.
I rimandi alla notte, alla Nigredo, al vaso che deve cuocere, alla putrefazione sono tutti legati alla simbologia dell’Opera al Nero, così come pure il cosiddetto “Vitriol” e la comparsa di Rebis, Sale, Zolfo e Mercurio.
Spero insomma, di non aver lasciato lacune o difficoltà nella comprensione del testo. Se così fosse, son qua per chiarire ogni dubbio.



Melian
   
 
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