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Autore: Kimmy_90    18/01/2011    3 recensioni
Rotolano sotto il cemento i rumori dei Branchi. Ringhiano, graffiano, mordono. Lottano.
Per Gioco.
Fra di loro si chiamano Demoni e Bestie. Sono ragazzi, sono uomini – a volte sono bambini, anche se è raro che un Branco ne accetti uno. Sopra il cemento non ne sa niente nessuno. O quasi.
Fintanto che rimane un gioco, il sangue che cola è semplice divertimento.
Ma ogni gioco viene scoperto, in un modo o nell'altro. E ogni gioco ha le sue regole.
La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.
Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.
Credeva.
"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."
L’idea l’attraeva.
"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

// Fantasy contemporaneo cambientato in Italia tra gli anni '70 ed oggi. //
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quamvis si liberus essem noluissem, tamen coactus volui.

[Anche se, essendo libero di decidere, non avrei voluto, tuttavia, costrettovi, volli.]

 

 

Un’oscurità affatto silenziosa lambiva le pareti di cemento grezzo. Auto rumorose passavano, di tanto in tanto, lungo la strada.

Ma loro erano sotto, al coperto, al sicuro.

In larga parte schiacciati contro le mura, osservavano il centro di un’arena delimitata da borsoni, magliette, pezzi di legno e bottiglie di plastica. Un borbottio sommesso permeava l’aere, agitato e frenetico.

Un piccolo barlume di luce.

Si iniziò ad esultare, ad inveire, a gridare e a spronare.

I due contendenti si fissavano, rabbiosi, sfiatando nuvole di condensa bollente. In respiri pesanti e ansimanti radunavano la forza di resistere al dolore che schizzava nel loro corpo, assieme all’adrenalina – pungente.

Alessandro si sporse verso il perimetro improvvisato, passando il palmo della mano sul terreno e sfregando le dita.

Sembrava tutto a posto.

Ancora accovacciato, fissò i due in mezzo all’arena: fasci di muscoli tesi e frementi, occhi indemoniati, gialli e scarlatti. Mordendosi il labbro, manteneva lo sguardo immobile.

«Oggi Amanda è carica da far paura.»

Alessandro non si mosse, mentre dietro di lui Emanuele pronunciava quella frase.

«Rimani qua con me, non si sa mai.» rispose, dopo qualche istante.

«Il siero ce l’hai, non devi preoccuparti sempre così, Ale.» contestò l’altro.

«Ho detto Rimani Qua.» – Lapidario.

Uno zoccolo colpì violento il terreno, e la bolgia esplose.

Emanuele non ribattè oltre: d’altronde sapeva perfettamente che quello era un ordine a cui non sarebbe stato furbo sottrarsi.

 

 

E mentre le zanne delle due bestie brillavano nell’aria, nasceva l’ennesima notte.

 

 

 

 

 

1. Elogio di Epicuro



 

[17 giugno 1973]

«Criptato.» Sillabò Ema.

Adam annuì, con un cenno rapido e profondo. Ciocche di capelli biondi e disordinati rimbalzavano sul volto ancora infantile, gli occhi ramati incollati sull’altro.

Ema tacque, osservando il ragazzino.

«Sai cosa vuol dire ‘criptato’?» si azzardò a domandargli, infine.

Adam scosse il capo in cenno di diniego, con tutta la convinzione con cui aveva annuito poco prima.

Emanuele Rondi sbuffò. «Vai a prendere il dizionario.»

«Il dizionario?» fece l’altro, fra l’interrogativo e lo scocciato.

«Sì, Adam, il Dizionario, quella cosa grande e brutta su cui sono scritte tutte le parole.»

«So cos’è il Dizionario» sottolineò il ragazzino, la voce squillante ed acuta «ma non me lo puoi dire tu, cosa vuol dire ‘Criptato’?»

«… Ma non Voglio.» Ema sorrise lontanamente divertito – e forse anche un po’ cinico. Adam si alzò in piedi, mugolando di disappunto, e si inoltrò lungo il sotterraneo alla ricerca del fantomatico Dizionario.

«E’ nella libreria!» fece Ema, ad alta voce, ancora seduto sui talloni mentre Adam si allontanava. Il ragazzino fece un verso d’assenso, mentre reperiva la torcia e iniziava a muoversi su scalini e corridoi di cemento grezzo.

Humana ante oculos foede cum vita iaceret

«Criptato, o crittato – » lesse Adam a gran voce, mentre, impugnando il dizionario, camminava fra pareti grigie, fredde, sulle quali rindondava ogni sua sillaba. «Part pass di criptare» Lungo il corridoio l’aria era fresca, ma la luce inesistente: puntava la torcia sul librone che teneva nella destra, e camminava ormai ricordando a memoria il percorso che doveva fare. «Anche agg, cifrato, codificato, programma televisivo ci.» La sua voce leggermente acuta si spanse per tutto il sotterraneo.

Giunse nuovamente davanti ad Ema, che sedeva ancora per terra, nell’androne.

Lo guardò interrogativo.

«Io starei studiando!» fece, lontana ed infastidita, una voce maschile.

«Anche noi!» rispose Ema, gridando per farsi sentire da chi aveva parlato. «Allora, Adam» continuò, verso il ragazzino. «Capito?»

«… no.»

in terris oppressa gravi sub religione,

«Che vuol dire ‘cifrato’?» domandò il biondino, continuando a rileggere la definizione del Dizionario di ‘Criptato’.

«Non chiederlo a me, chiedilo al dizionario.» fece Ema, levandosi in piedi.

Adam sbuffò, guardando verso il soffitto lontano. «Ma non puoi spiegarmelo tu?» insistette, cercando distrattamente la parola ‘Cifrato’.

Ema sorrideva divertito, limitandosi a rispondere come sempre: «Certo che Posso, ma non Voglio.»

Adam grugnì.

Odiava quando Ema faceva così.

E ogni volta che facevano lezione, Ema faceva così.

Altro che insegnante: passava il tempo a fargli cercare le nozioni fra i libri. A che serviva un ‘insegnante teorico’ se tanto poi le cose le leggeva dai libri?

Tanto valeva avere solo i libri.

«Tho, Cifrare» iniziò a leggere «vì ti erre ricamare in cifra.» Sollevò lo sguardo verso Ema, che ridacchiava scuotendo il capo.

«Ma ti pare che ricamiamo?» domandò, ancora divertito dal modo che aveva Adam di leggere le voci del dizionario.

Il ragazzino grugnì nuovamente, roteando gli occhi, e tornando alla definizione. «Trascrivere un testo, un messaggio e sim secondo un codice. Va bene questa?»

Ema annuì, ridacchiando.

«Sì? Ma è tipo come quando facciamo a scuola i bigliettini nel nostro alfabeto, così i prof se li beccano non sanno cosa c’è scritto?»

«Più o meno.»

Adam espirò rumorosamente. «Tutto qua?» domandò, quasi infastidito che il termine ‘Cifrato’ si riducesse ad una banalità del genere.

«Ah, no. Decisamente no.»

Il ragazzino si sedette per terra, chiudendo violentemente il dizionario. «E allora?» domandò, scrutando l’altro di sottecchi.

 

quae caput a caeli regionibus ostendebat

Emanuele Rondi era un venticinquenne disastrosamente magro e disastrosamente basso. Non era affetto da nanismo, ma poco ci mancava: ormai conosceva Adam da parecchi mesi, e temeva il giorno in cui anche il ragazzino sarebbe diventato più alto di lui. Viste le premesse, era davvero questione di poco tempo.

Un metro e cinquantacinque di intelligenza agile e sottile, in un corpo esile e apparentemente fragile: ecco cosa era Ema. Il volto, abbastanza anonimo, era ricoperto da uno straterello fine di barba, nera, come i capelli che teneva lunghi sino alle spalle – ma rigorosamente puliti. Gli occhi azzurrini erano ingranditi dalle due piccole lenti rotonde dei suoi occhiali da vista, che metteva e toglieva in continuazione, quasi fosse un tic.

«Se invece di sostituire ogni lettera con un simbolo, scrivo secondo una legge, più complicata è la legge più è difficile capire il messaggio.»

Adam lo guardava perplesso, un grande punto interrogativo dipinto sul volto.

«Guarda.» Andò a raccattare un foglio e una penna dalla sua borsa, lasciata in un angolo dell’androne.

Si sedette nuovamente per terra, poggiando il foglio sul ginocchio, e iniziò a scrivere.

Mi chiamo Ema.

Adam osservava perplesso.

Ema scrisse una seconda riga:

maibcchdieafmgoheimla

«La legge è: una lettera sì e una no.» disse poi, porgendo il foglio ad Adam.

Quello osservò interessato le due righe di testo, gli occhi a fessura.

«Ma è facile.» commentò infine.

Ema si riprese il foglio, scrivendo la terza riga:

mpioicuhytiradvmbokieumjha

«Trova la legge.» fece, porgendo il foglio e la sfida.

Adam rimase qualche istante a contemplare la scritta, concentrato.

«Tipo… una sì, una no, una sì, due no, una sì, una no…?»

«Mh-mh!» Ema annuì.

«Ma è facile!» rimarcò il ragazzino, allegro.

«Ok.» l’altro si riprese il foglio, e tornò a scrivere.

aydseantdmeugeecumnwieddlgtiedhoaqtwa

«Avanti. Trova il messaggio.» fece, infine, con la certezza di chi ha appena proposto un problema spacciandolo per una banalità.

horribili super aspectu mortalibus instans,

Adam rimase incollato alla riga di lettere per dieci minuti buoni, la giovane fronte corrugata nello sforzo richiesto per decifrare il messaggio di Ema.

«Boh.» concluse.

«Ma non era facile?» domandò l’altro, schernidore, con il suo sorrisetto affilato e la risatina malcelata.

Adam raccolse nuovamente la sfida, spronato dall’ ‘insegnante’.

Ci perse altri cinque minuti: finchè, ad un certo punto, si voltò verso Ema con un sopracciglio levato e lo sguardo basito.

«*Adam è un idiota?*» fece il ragazzino, recitando il testo che aveva trovato nella fila di lettere.

Ema scoppiò a ridere.

primum Graius homo mortalis tollere contra

«Il nostro codice genetico è, si può dire, criptato.»

Adesso si ragionava. Adam sedeva per terra, le gambe incrociate, intento ad ascoltarlo con vivo interesse.

«Hai presente un filamento di dna, no?» Ema congiunse indice e pollice delle due mani. «Prendi gli estremi di una spirale, e li srotoli.» mimò il gesto, come se avesse il filamento fra le dita. «Adesso hai una serie ordinata di basi azotate. Quali sono le basi azotate?»

«Adenina, Citosina, Guanina, Timina. E Uracile nell’Rna.» Recitò il ragazzino.

Ema annuì. «Almeno questo te lo ricordi.» lo canzonò. «Dunque, il dna definisce in che modo è fatto ogni essere vivente, quindi contiene tutte le informazioni necessarie per farci funzionare.»

Adam annuì lievemente.

«Il problema è: come sono scritte, nel dna, queste informazioni?»

Il ragazzino lo osservava, attendendo bramoso la risposta.

Ema taceva, fissandolo.

Rimasero in silenzio.

«Bhe?» domandò infine Adam, incalzando Ema. «Come sono scritte?»

«E dai, pensavo ci arrivassi da solo!»

Il biondino corrugò la fronte, storgendo le labbra. «Criptate?»

«Eh! Sì, più o meno.»

« ‘Più o meno’ » gli fece il verso Adam, roteando gli occhi. «Perchè non dici semplicemente le cose come stanno, invece di continuare a girarci attorno? Eh?»

Ema ridacchiò – il ridacchiare poteva considerarsi un suo marchio di fabbrica, fintanto che le cose non si facevano serie. Quand’era rilassato, Ema ridacchiava.

«Perchè non lo sappiamo, esattamente, come stanno. Ti pare staremmo negli scantinati, a parlare di queste cose, se ne avessimo una spiegazione perfettamente scientifica? Io sarei già andato a caccia del Nobel, molto tempo fa, pubblicando tutto il pubblicabile.»

«Molto tempo fa? Ma se hai venticinque anni.» sottolineò il ragazzino.

«E allora?»

Adam lo scrutò infastidito. Non gli piaceva quando Ema iniziava a far della sua intelligenza un vanto.

Ma Ema non lo faceva: semplicemente, sognava il Nobel – Quel Nobel; e sognava ancor di più il giorno in cui tutto ciò sarebbe potuto uscire, finalmente, da cantine, taverne, sotterranei e simili.

«Quindi non c’è una spiegazione scientifica?» domandò all’insegnante.

«Certo che c’è. C’è Sempre una spiegazione scientifica.» rimarcò Ema. «Solo che non è esattamente semplice da trovare.»

est oculos ausus primusque obsistere contra;

«Il codice genetico non viene letto linearmente, ma secondo una legge. Dato che l’alfabeto genetico è così ridotto, basterebbe un filamento di sole quattro basi e la legge giusta, per generare qualsiasi codice genetico possibile.»

Adam inclinava la testa, neanche fosse che da quell’angolazione potesse capire meglio di cosa stesse parlando l’altro.

Per Ema spiegare una cosa del genere ad un tredicenne era una sfida.

Anzi, era La sfida.

Ormai si era fatto il leader intellettuale del branco, e la sua passione per le ricerche e l’insegnamento compensavano il fatto che fosse una persona normale. Si dilettava nel far passare quel poco di sapere che aveva accumulato negli anni al resto del gruppo, ed ora, fare la stessa cosa con Adam, poco più di un bambino, significava dover dimostrare definitivamente d’essere un insegnante geniale. A venticinque anni.

La sola idea lo solleticava abbastanza da cimentarsi nell’impresa.

«Dato che il nostro dna è decisamente più lungo di quattro elementi, da esso è chiaramente possibile ricavare anche informazioni differenti da quelle fornite del codice genetico standard, con leggi più o meno semplici. La chiave di lettura ‘normale’ del dna è automatica, quindi possiamo dire davvero che il nostro codice genetico contiene tutte le informazioni necessarie per vivere e sopravvivere. Ma, se introduciamo una nuova chiave di lettura, possiamo ricavarne sempre qualcosa di nuovo. – Bhe, ‘qualcosa di nuovo’ potrebbe essere anche un tumore, quindi non è banale come te la sto vendendo.»

 

quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti

Adam si era fatto improvvisamente ricettivo, avendo compreso che finalmente si giungeva al sodo. Le schiena, ch’era stata sino ad allora mezza ingobbita, si era rizzata man mano che Ema procedeva nel suo monologo.

Non era sicuro di aver compreso tutto, ma una cosa era certa: da qualche parte, in quelle nozioni, era ben nascosta una cosa che molti di quelli come loro cercavano.

Il ‘perchè’.

«Il modo naturale che induce una nuova chiave di lettura, è la vibrazione dei volui di Gaia.»

Adam annuì.

Questa parte la conosceva.

«E’ abbastanza semplice, perchè mantiene il codice genetico inalterato, ma semplicemente lo legge in maniera non lineare, ma modulata.»

Adam lo fissò perplesso.

Ecco, Ema iniziava a partire per la tangente.

«Credimi.» Rispose l’insegnante allo sguardo stranito del ragazzino. «Poi ti darò un libro da cui leggere, se la cosa ti interessa.»

Anche le imprese di Ema avevano un limite, come ce l’aveva la capacità di comprensione di un tredicenne privo delle basi fondamentali. Andare più a fondo con il discorso era del tutto inutile.

«Generalmente,» continuò, «dato che siamo mammiferi con moli enormi di genoma in comune con i mammiferi più evoluti, quello che salta fuori è il codice animale prevalente.»

«Lo stesso animale che vedo nella mente delle persone?» domandò Adam, illuminato.

«Esattamente. Dato che è prevalente, una parte si sviluppa anche normalmente, senza bisogno della nuova lettura genetica, e si palesa in parte nella psiche. Di solito si tratta di mammiferi. Per quelli come Alessandro carnivori od onnivori, per quelli come Amanda generalmente erbivori – per la gente comune, un po’ di tutto. Capitano anche rettili o uccelli, seppur molto raramente.»

murmure compressit caelum, sed eo magis acre

Adam portò le mani dietro la nuca, fissando Ema.

Il venticinquenne lo osservava a sua volta, attendendo che il biondino facesse la domanda che gli spettava.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre tutti e due pensavano la stessa cosa.

«Ok.» fece Adam infine. «E io?»

Ema sorrise, apprensivo.

inritat animi virtutem, effringere ut arta

«E tu sei uno dei motivi per cui io non sono ancora pronto a reclamare il Nobel.»

Adam sbuffò.

 

naturae primus portarum claustra cupiret.

 

 

***

 

 

 

[19 giugno 1973]

 

«Mentre l’umanità giaceva vergognosamente sulla terra» recitava una voce giovane e possente, dalle vocali larghe e le consonanti marcate.

«Oppressa, davanti agli occhi di tutti, sotto il grave peso della superstizione» continuò una ragazza, dal tono esile e leggero «che, dalle regioni del cielo, mostrava il suo capo incombendo dall’alto sui mortali con il suo terribile aspetto, per la prima volta un uomo greco osò sollevarle contro gli occhi mortali, e per primo osò opporsi ad essa. E non lo intimorirono né le dicerie sugli dei, né i fulmini, né il cielo con il suo mormorio minaccioso, anzi: ciò eccitò ancor di più l’ardente virtù del suo animo, tanto da desiderare di spezzare per primo gli stretti serrami delle porte della natura.»

La ragazza prese una grande boccata d’aria, dopo aver finito di recitare tutto d’un fiato il passo tradotto. Esausta, posò lo sguardo sull’altro, che sorrideva.

«Andava bene?» domandò al ragazzo.

«Sì, decisamente.»

Amanda espirò, sgonfiandosi e accasciandosi su tavolo e libri.

Il pomeriggio se n’era andato così, a ripetere a oltranza passi su passi di traduzione di Lucrezio. Fortunatamente la cantina, le cui pareti erano ricoperte di mensole ospitanti vini, era un posto piacevolmente fresco. La luce langueva, entrando unicamente da una finestrella che dava sul marciapiede, ed oramai stava divenendo fioca a causa dell’ora tarda. La stanza era la massima espressione dell’arte d’arrangiarsi: un paio di lampadine erano poste per terra o legate a mensole vuote, e il tavolo su cui studiavano era del tutto improvvisato: due cavalletti da cantiere reggevano una tavola di compensato verniciata. I due ragazzi sedevano su sgabelli costruiti da batterie di decine di bottiglie di plastica, legate fra di loro con lo scotch e imbottite con cuscini di poco prezzo.

Ma si stava decisamente comodi.

Da una porta aperta discendeva il corridoio, buio e spoglio, che si muoveva fra qualche scalino e girando ad angoli retti, ora a destra, ora a sinistra. Una delle porte su cui dava, che tentava d’essere chiusa ermeticamente sempre con mezzi improvvisati, portava alla libreria. L’altra, invece, in coda al corridoio, era l’accesso al grande androne di cemento, spoglio e rettangolare, che nasceva come ampio garage per una decina di automobili.

Era un giugno dannatamente caldo, e avere quel posto sotterraneo e fresco in cui rintanarsi sembrava una manna.

«Eilà, ancora con il De Rerum Natura?» domandò Emanuele, affacciandosi alla porta della cantina.

Amanda lo guardò sconsolata.

«Odio mandare le cose a memoria!» fece la ragazza, prendendosi il volto fra le mani.

«Se non sai tradurre il latino, Amanda» ribattè Alessandro, che aveva passato il pomeriggio a insegnarle come si mandano a memoria in tempi brevi trecento e passa versi di traduzione «questa è l’unica, per la matura.»

La ragazza espirò, alzandosi in piedi e chiudendo i libri con un gesto definitivo.

Era piccola e magra, con un volto rotondo e dolce: sugli occhi verdi ricadeva qualche ciuffo dei suoi lunghissimi capelli corvini. Superava Ema di qualche centimetro.

Alessandro, invece, era colossale. Non grasso, ne’ un armadio come un giocatore di football, ma semplicemente alto e tonico: la mascella squadrata, i capelli castani perennemente disordinati, due occhi neri da far perdere la pupilla nell’oscurità dell’iride. A momenti faceva impressione, se non fosse ch’era la persona più pacata del mondo, e la sua voce, possente, raramente diveniva accesa. Vedere Alessandro furioso era uno spettacolo tanto raro quanto inquietante: e non tutti i suoi amici avevano avuto la fortuna – o sfortuna – di assistervi.

Quello che pareva poter essere una promessa del basket o della pallavolo, era un tranquillissimo studente del primo anno di lettere e filosofia.

Ed il capobranco.

«Andiamo a mangiare qualcosa?» domandò Ema, recuperando il suo borsone.

«Io devo andare a casa…» si lamentò Amanda «altrimenti i miei non mi lasciano venire al raduno.»

«Neanche una pizza?» insistette quello, rivolgendo poi lo sguardo verso Alessandro.

Il ragazzo annuì, stiracchiandosi. «Vada per la pizza. Adam è andato a casa?»

«Da un pezzo, con David.»

«Bene, quindi qui siamo rimasti solo noialtri.»

«Io vi saluto» s’intromise Amanda «o perdo anche questo autobus. Grazie mille, Ale, mi hai salvata.»

«Vedi di ripassare» fece Alessandro, ammonendola «o abbiamo sprecato un pomeriggio.»

Amanda annuì, iniziando ad incamminarsi, rapida, verso l’uscita.

«Amanda!» la richiamò Alessandro, a voce alta. «Mi raccomando, non fare stronzate! Sabato c’è il raduno, risolveremo lì tutto quanto, quindi Evita stupidi battibecchi!»

«Siiiì» rispose la ragazza, ormai quasi fuori dallo scantinato.

I due si guardarono, sperando che Amanda non si facesse effettivamente prendere da strane idee.

 

 

 

***

 

 

 

 

[23 giugno 1973]

«Sei un idiota!»

Adam ruzzolò dall’altra parte del garage, avviluppato su se’ stesso e terrorizzato. Lasciò una piccola scia di sangue sul cemento, grondante dalla ferita che aveva sul fianco.

«David, piantala!» Amanda cercò di avvicinarsi al ragazzo che aveva scagliato il biondino lungo lo stanzone. Quello, come risposta, ringhiò.

Moro, dalla barba curata: David sembrava pronto per l’esercito, con il suo fisico tonico e possente, le spalle larghe, perfettamente proporzionato.

Per un certo periodo della sua vita aveva anche preso seriamente in considerazione l’idea di arruolarsi.

Ma non adesso.

Adesso, ancor più gonfio a causa dell’ira, ringhiava contro il fratello.

«Come ti è saltato in mente?» continuò David, furibondo.

Adam se ne rimaneva dov’era atterrato, la nuca fra le mani, lo sguardo impaurito incollato su Alessandro.

Il capobranco, poco più in là, osservava la scena senza proferir parola. Taceva in un silenzio studioso e gelido, che Amanda avrebbe voluto spezzare tirandogli un cazzotto dritto sul volto immobile.

Odiava quando faceva così.

Sapeva benissimo cosa stava facendo – ma se la stava prendendo troppo comoda. Cosa importava quali erano stati realmente i fatti? I due fratelli erano sul punto di scannarsi. Anzi, il più grande stava per scannare il più piccolo, che, succube e impaurito, tentava alla meno peggio di proteggersi dai colpi iracondi del consanguineo.

David, che si ingrossava ogni secondo di più, mosse un piede in avanti e fece per sfoderare gli artigli.

«David!» lo richiamò Amanda.

Ma quello pareva non sentirla.

«Non l’ho fatto apposta!» piagnucolò il ragazzino, cercando di rimettersi malamente in piedi.

«Non me ne frega niente!» ringhiò il fratello maggiore «Ti sei rincretinito? EH? Rispondi!»

Adam si fece minuscolo, mentre faceva oscillare lo sguardo stranito e disperato fra la figura di David e quella di Alessandro.

«Basta così.» intervenì infine il capobranco. «David, lascialo stare. Per oggi ne ha prese decisamente abbastanza. Adam, tu stasera non vieni, beninteso.»

David continuava a fremere.

«David.» insistette Alessandro. «Ho detto Lascialo Stare.»

Quello si volse verso di lui, fissandolo con gli occhi rosso mattone, l’iride larga e lo sclero ormai nascosto dalle palpebre scure.

«Lo hanno aggredito loro.» spiegò il capobranco, alzandosi in piedi e muovendosi verso i due fratelli «Non poteva fare altro che difendersi, per come erano messi. Stasera dobbiamo parlare con Vittorio, e non sognatevi di fare niente finchè non ve lo dico io. Se lo rifanno, giuro che li ammazzo.»

Adam fu ben che rasserenato dalle parole di Alessandro, anche se si sentì in parte come scoperto: il capobranco aveva letto nella sua mente, senza nemmeno avvertirlo.

Ma almeno, aveva evitato che il fratello continuasse a prendersela con lui.

«Non avevamo detto che si chiedeva il permesso, quando si entra nelle menti altrui?» apostrofò David, mentre cercava di riacquistare stabilità.

«Non credo che in un momento del genere ci fosse il Tempo di chiedere e controllare. Era un’emergenza.»

David schioccò la lingua sul palato, espirando e raddrizzando la schiena.

Lanciò un’ultima occhiata ammonitrice al fratello, per poi concludere con un secco «Bah.».

Adam se ne rimase lì, tenendosi il fianco ferito, lo sguardo basso e le lacrime pronte ad insorgere.

 

 

 

 

Emanuele si caricò in spalla un borsa che avrebbe potuto contenerlo interamente. Flesso dal peso, mosse qualche passo, cercando di uscire dallo scantinato.

Amanda, dietro di lui, era ancora agitata per quanto accaduto poco prima. Si martoriava le mani, sudaticce, per poi asciugarsele sulla maglia.

«Giuro che ci mancava solo questa. Io dopodomani ho la terza prova, diavolo!»

Ema annuì, apprensivo.

«Amanda, puoi anche tornare a casa a studiare.» sottolineò Alessandro, uscendo a sua volta dallo scantinato.

Il tramonto lanciava qualche ultimo raggio arancione da dietro una serie di nuvolette gonfie. I lampioni erano già accesi da mezz’oretta, ed il buio oramai incombeva.

«Sempre con questa storia, Alessandro.» rispose infastidita la ragazza «Piantala.»

I tre si fermarono a qualche metro dalla soglia, ad aspettare che i due fratelli si facessero vivi.

«Ci tenevo solo a precisare.» rispose il capobranco. «Ci manca solo che venga fuori che venite ai raduni contro la vostra volontà.»

Amanda roteò gli occhi, mormorando parole di fastidio. «Sempre con le stesse turbe, Ale.»

Alessandro si strinse nelle spalle.

«Adam rimarrà qui.» dichiarò David, varcando la porta. Il biondino, appoggiato allo stipite, osservava sempre in basso. Da sotto la maglietta si intravedeva una fasciatura impostata in maniera quasi professionale.

«Non possiamo lasciarlo qui, dai!» intervenne Amanda.

Che diavolo stava succedendo? Un momento di idiozia collettiva?

La ragazza guardò torva David e Alessandro.

«Non può tornare a casa, avevo detto che stanotte stava con me.» spiegò il fratello maggiore. «E comunque, finchè non si rimarginano le ferite, non è certo il caso che si faccia vedere da mamma e papà.»

«Non so se sia più sicuro lasciarlo da solo al rifugio o portarselo dietro al raduno.» commentò Ale, ad alta voce.

Adam rimaneva sulla porta, lo sguardo sempre più avvilito. Dire che si sentisse un peso era un eufemismo.

«Ale, non puoi lasciare un tredicenne da solo nel rifugio, mezzo ferito, ci manca solo che lo trovi la polizia, guarda!»

«Perchè dovrebbe venire qui la polizia?» domandò Adam terrorizzato, risollevando lo sguardo su Amanda.

«Ma se avete ingaggiato battaglia in mezzo alla strada?» domandò retorica la ragazza al biondino. Quello sgranò gli occhi, illuminato e scosso al contempo.

Oddio, sì.

Avevano combattuto in mezzo alla strada.

Ma non era stata colpa sua.

Davvero, non era stata colpa sua.

E se la polizia lo stava cercando?

Se lo aveva visto?

«Non è stata colpa mia!» articolò, sgomento, il ragazzino.

«Amanda, non far venire più paranoie del necessario al piccolo, ti prego.» intervenne Ema «Non vedo come possano risalire a questa casa entro stasera. Se non sono arrivati adesso, non arriveranno almeno per i prossimi giorni. E qui attorno non c’è nessuno, no?» domandò, verso Alessandro.

Il capobranco annuì. «Non è della polizia che dobbiamo preoccuparci, ma eventualmente di altri attacchi, magari mossi direttamente al nostro rifugio. Quindi Adam farà la guardia.»

«La guardia?»

«La guardia. Adam, hai carta bianca.»

«Cosa?»

«Se succede qualcosa, devi difendere il rifugio.»

«E la libreria.» sottolineò Ema.

«Soprattutto la libreria.» rimarcò Alessandro.

I due fratelli li guardavano con la bocca semiaperta.

 

 

 

 

 

Adam si sedette in mezzo all’androne, o garage che fosse. L’aria umidiccia e fresca circolava da piccole finestrelle aperte.

Era solo. Solo nel rifugio.

Solo a controllare il rifugio.

Avrebbe passato la notte lì dentro, mentre gli altri regolavano i conti che si erano creati nelle ultime settimane.

In teoria avrebbe preferito essere al raduno, a vedere i suoi compagni combattere – o vedere Alessandro dichiarare definitivamente guerra al branco di Vittorio: quello sì che avrebbe significato movimento.

Incrociò le gambe, inspirò, socchiuse gli occhi.

Ora sentiva il peso di una responsabilità che era calata dal cielo, del tutto inaspettata, e forse anche fasulla.

Che i ‘grandi’ si fossero inventati qualcosa da fargli fare? Era possibile.

Ma non poteva escludere che ci fosse un fondo di verità.

E comunque, anche se fosse andato al raduno, non lo avrebbero lasciato combattere – come sempre.

Almeno, così avrebbe fatto qualcosa.

Cercò di aprire la mente, non senza una certa difficoltà: non gli era ancora del tutto naturale; esplorava tutto il circondario – forte di un sesto senso innato – andando a tangere ogni tanto in qualche essere senziente. Spanse la sua volontà nel sotterraneo sino a farla uscire e, con un certo sudore, si appigliò ad alberi e terra per poter spaziare ancora più lontano. Entro qualche faticoso minuto, Adam ebbe la percezione di tutti gli esseri viventi che si muovevano nel raggio di un paio di chilometri. Finito il linkaggio, poté rilassarsi: la rete era costruita, ora doveva solo vigilare su essa.

E, nella remota casualità in cui fosse entrato qualcuno di pericoloso, fare il suo lavoro di mastino da guardia.

 

 

 

Alessandro vide Vittorio lanciare un’occhiata severa ai due ragazzi dietro di lui.

Il bunker era affollato, l’aria bollente, e la tensione fra i due gruppi si stava facendo palpabile. Svariate decine di persone osservavano quella che stava rischiando di diventare una dichiarazione di guerra ufficiale.

Una cosa era scontrarsi entro le regole riconosciute dalla comunità, un’altra era avere due branchi che erano pronti ad uccidersi in mezzo alle strade della città.

«Allora?»

«Vuoi dichiararmi guerra? Sai benissimo cosa comporta. E’ un rischio per tutti noi.» fece notare Vittorio.

«Da che pulpito giunge la predica.»

«Non sono stati mandati da me. Lo sai che non sono così stupido da mettere in pericolo tutti quanti per una stupidaggine del genere.»

«La Tua stupidaggine ha rischiato di ammazzare un Mio compagno. Come minimo pretendo delle scuse, e una punizione per i due idioti che hanno avuto la geniale idea di aggredire Adam nel bel mezzo della città.»

«Non è la prima volta che succede. Vorrei ricordarti che solo qualche manciata di mesi fa la tua Amanda ha imbastito un bel teatrino dalle parti del suo liceo. O sbaglio?»

Amanda, ch’era dietro ad Alessandro ed Emanuele, arrossì violentemente.

«E’ stato un incidente.» la difese Alessandro. «E abbiamo porto le scuse del caso. E Amanda è stata punita: sono un capobranco serio, e lo sai benissimo. Non credo che cercare di uccidere Adam sia un’idea molto furba, ne’ paragonabile al dare in escandescenze di Amanda.»

I due ragazzi dietro a Vittorio si scambiarono un’occhiata indecifrabile.

«Ragazzi, per cortesia» – un uomo sulla trentina, basso e grassoccio, intervenne fra le due fazioni. «Cerchiamo di non fare stupidaggini. Penso che siamo tutti ben che interessati a sapere cos’ha portato Mattia ed Edoardo ad aggredire il ragazzino, non è vero?»

Il bunker tacque. I due ragazzi chinarono il capo, fuggendo lo sguardo indagatore e attonito dei partecipanti al raduno.

Alessandro vedeva negli occhi di Vittorio che c’era qualcosa sotto. Non sarà stato lui il mandante, ma, in fondo, Sapeva. Non gli serviva entrare nella sua mente, e comunque non ci sarebbe riuscito: ma anche senza questa possibilità, c’era evidentemente un nesso legante che Vittorio cercava di non far trapelare.

C’era Quel nesso legante.

David si guardava attorno, mentre un sommesso parlottio iniziava a spandersi fra i presenti.

Non ci vide più.

«Ancora con questa storia?» esplose il moro, tuonando. Alessandro si voltò di scatto verso il compagno adirato.

Lo vide fremere nel tentativo di reprimere l’istinto maldomato di mutare il suo aspetto. «Provate a toccare un’altra volta mio fratello e giuro che vi ammazzo tutti quanti! E se non io, vi faccio ammazzare direttamente dai militari, Stronzi!»

Vittorio indietreggiò, mentre Mattia ed Edoardo avanzavano per difendere il loro capobranco.

L’uomo basso e grassoccio si avvicinò ulteriormente al ragazzo iracondo, cercando di calmarlo.

Ema percepiva tutta la tensione accumulata e sul momento un istinto tanto umano quanto animale gli suggeriva di cercare la fuga: se la guerra generale esplodeva in quel momento e in quel luogo, lui sarebbe stato il primo a rimetterci direttamente la vita. Essere uno dei pochi umani in un covo di demoni e bestie significava anche questo.

«Non me ne frega niente di cosa è o cosa non è! Fanculo a Gaia e a quelle cazzo di leggende, se lui si trasforma in un drago anziché in un cane o in un cinghiale, a voi cosa cazzo cambia, eh?»

«E’ pericoloso…» iniziarono a levarsi cori di disappunto e paura.

«Calmati, David.» rincarò Alessandro, posandogli una mano sulla spalla gonfia.

Come tutta risposta quello lo allontanò con un gesto violento. «Vorrei vedere voi ad avere metà della comunità che pensa che suo fratello sia un pericolo e debba essere fatto fuori! Aggredito in mezzo alla strada da due ventenni che sono il doppio di lui! Sono mesi che sento gente parlottare di quanto mio fratello sia un mostro e non vi rendete nemmeno conto che qui siamo tutti dei fottutissimi mostri, gente che di punto in bianco si sveglia con la stazza e la potenza di un orso o di un leone! Cerchiamo di nasconderci in questi dannatissimi posti per non farci scoprire dalla gente normale e intanto cercate di uccidere vigliaccamente uno di noi a cielo aperto! A cielo aperto! Senza nemmeno dichiarare una sfida o un combattimento ufficiale!»

Il tipo grassoccio andrò verso Vittorio, separando le due fazioni che stavano per venire alle mani – anzi, agli artigli.

«Siete dei fottutissimi ipocriti!» sbraitò, in finale, il moro.

Voltò le spalle – il bunker zittito dall’ultima graffiante battuta -, e ancora fremendo per la fatica di reprimere l’istinto della metamorfosi, raggiunse l’uscita sbattendosi la porta pesante alle spalle.

L’intonaco si incrinò.

 

 

 

 

Adam si tolse la fasciatura che gli aveva fatto il fratello. Sotto, pelle nuova e rosata segnava i confini di quella che poco prima era stata la sua ferita.

Passò le nocche sulla carne rigenerata, strofinando, finchè la pelle non si squamò leggermente e della cicatrice non rimase più segno alcuno.

 

 

Una ragazza fece capolino dalla porta, osservando la figura di David poggiata al muro – intento a prosciugare a pieni polmoni una sigaretta rollata.

Il ragazzo le scoccò una rapida occhiata, per poi tornare alla sua nicotina.

«Eilà.» disse infine quella, chiudendosi l’uscio del bunker dietro le spalle.

«Eilà.»

Rimasero in silenzio.

Dentro, sotto, il bunker mormorava piano, discuteva perplesso, forse scosso, in larga parte impaurito dalla visione che tutti avevano avuto: una guerra pronta a scoppiare e che avrebbe significato non solo la morte di molti di loro, ma anche il rischio inevitabile di essere scoperti dal resto del mondo.

Nessuno sapeva quale delle due fosse peggio. Erano sempre rimasti, negli anni, separati, occultati, nascosti. I film di fantascienza con cui la maggior parte di loro era cresciuta gli avevano suggerito di non andarsene in giro con sembianze che trascendevano l’umano sfociando nell’animale, toccando l’alieno. Si erano ritrovati per caso ad essere qualcosa che in pochi avevano immaginato, e che nessuno aveva realmente pensato potesse esistere.

E invece erano lì.

Bande, branchi, di ragazzi e ragazze, o volendo anche uomini e donne, che battibeccavano per sfizio, che testavano le loro capacità, che giocavano.

Giocavano.

Per quanto si scannassero e si ferissero, si insultassero e si malmenassero, tutto era sempre stato solamente che un gioco.

Adam.

Adam aveva inserito la realtà, sebbene assurda, in quel mondo di giocatori sfacciati. Un semplice ragazzino che invece di diventare orso come suo fratello o lupo come il suo capobranco, acquistava le sembianze d’un drago tolkeniano, scarlatto, dalle squame rilucenti e le corna affilate.

Adam – che per quanto se ne sapeva sino ad allora, non avrebbe dovuto aver diritto d’esistere – , era semplicemente comparso. E, da bravo ragazzino, si divertiva all’idea di combattere sfruttando quell’inaspettato potere. Per gioco.

E per gioco avevano sempre letto nei testi più antichi nascosti nella libreria del rifugio di draghi poderosi, di umani che si tramutavano in rettili alati.

A loro non importavano le leggende, ne’ davano troppo peso alle dicerie. Non sinchè un vero ragazzino-drago non era comparso.

Che importava?

Era tutto un gioco.

Non lo chiamavano gioco, lo chiamavano comunità. Lo chiamavano passare le notti a combattere in cantine e garage, bunker e gallerie cadute in disuso. Non lo chiamavano per nome, ma non era mai morto nessuno. E fintanto che non moriva nessuno, era tutto un grande gioco.

Ma alla luce di un tentato assassinio, il gioco scompariva.

«Hai fatto bene ad andartene. Si sono calmati tutti.» disse la ragazza, accostandosi a David. Quello fumava imperterrito la sua sigaretta.

«Hyun, non è vero?» domandò infine il ragazzo, volendosi accertare del nome.

Lei annuì.

«Sono la sorella adottiva di Michele.»

«Del branco di Erica. Sì, ho presente. Sei una persona normale, se non erro. Hai rischiato molto, stasera.» la nicotina pareva avere un effetto assai più calmante di quello che aveva immaginato. Si sorprese nel riuscire ad articolare frasi che non erano ricolme d’insulti.

«Anche il vostro amico Emanuele ha rischiato.»

«Lo so.»

La ragazza annuì. Dai tratti orientali, piccolina, più piccola di Ema. Gli sorrise, gli occhi scuri stretti fra le palpebre tipiche della sua gente.

«Pensi che finirà in guerra?» domandò al ragazzo, mentre lo osservava dal basso. Non che David fosse particolarmente alto, ma un metro e ottanta contro uno e cinquanta si fa sempre sentire.

«Fintanto che la gente temerà una guerra fra demoni e bestie più di quanto non tema, immotivatamente, mio fratello – no.»

«Al momento non è successo nulla solo perchè tu te ne sei andato.»

«Ero io che stavo rischiando di far saltare tutto in aria. Alessandro sa fare bene il capobranco, devo imparare a lasciar fare le cose diplomatiche a lui. Se fosse stato per me, avrei già staccato la testa a morsi a quei due.»

Hyun rise leggermente.

«Qualche ora fa ho fatto ad Adam una ramanzina di quelle che non finivano più.» continuò il ragazzo. «Gli ho tirato un ceffone che lo ha fatto volare dall’altra parte della stanza, per essersi messo a combattere a cielo aperto. Pensavo che fosse stato lui a fare la stronzata – dio, ha solo tredici anni. Invece lo hanno attaccato loro.»

Lanciò il mozzicone per terra, spegnendolo con un colpo secco della suola.

«Se iniziamo a temere il diverso fra i diversi, dove andremo a finire? Una cosa è fare la guerra fra bande, e una cosa è diventare improvvisamente razzisti e assassini.» «

Hyun ascoltava in silenzio, scrutando quel ragazzo grosso e muscoloso, i lineamenti marcati addolciti dalla barba, lo sguardo, ai suoi occhi maturo, che spaziava lontano e perso.

«Devo scusarmi con lui.» concluse, iniziando ad annegare nei sensi di colpa su cui galleggiava già da qualche tempo. 

   
 
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