Io?
Bè, non c’era molto da
dire su di me. Ero sempre stata una ragazza solitaria, molto
vendicativa, e
maledettamente orgogliosa. Ed è stato per il mio stupido
orgoglio che un giorno
mi ritrovai, sola e senza spiegazioni, a Irecath.
***
Era
una mattina soleggiata e
calda. Napoli risplendeva sotto i raggi primaverili. Amavo la mia
città,
nonostante tutti i suoi problemi. Mi affacciai alla finestra
dell’aula. Si
vedeva quella scimmia urlatrice del bidello annaffiare rabbiosamente le
piante
del giardino.
All’epoca
avevo diciassette
anni ed ero al penultimo anno del liceo classico. Già
tremavo all’idea che,
quasi un anno dopo, avrei dovuto sottopormi agli esami per la
Maturità. Non
avevo di certo idea, che presto, quella notte stessa, le mie idee per
il futuro
sarebbero brutalmente crollate.
«Mannello,
vorrebbe
cortesemente ripetere alla classe ciò che ho appena
detto?»
La
domanda della professoressa
d’Arte mi lasciò spiazzata. Non avevo propriamente
ascoltato con attenzione le sue
ultime parole. In realtà non avevo ascoltato proprio nulla.
«Ehm,
io … professoressa
… veramente
…»
«Allora,
presti più
attenzione, oppure non mi lascia altra scelta che chiamare sua
madre.»
Sgranai
gli occhi,
terrorizzata. Mia madre no. Tutto, ma non mia madre. Non avevo nemmeno
paura
dei rimproveri. Ciò che mi intimoriva era la delusione che
avrei letto nel suo
viso.
La
professoressa mi guardò con
una certa aria compiaciuta. Sapeva che in quel modo mi avrebbe avuto in
pugno.
Il
resto della lezione passò
con una lentezza scoraggiante. Fortunatamente, l’idea che
quella fosse la
penultima ora, mi rendeva la noia più sopportabile.
Quando
suonò la campanella
tirai un sospiro di sollievo. Di sentire tutte le innovazioni che il
Romanticismo aveva apportato all’arte europea non avevo
particolare voglia.
Mi
alzai dal banco. Ora avrei
avuto Educazione Fisica e, poi, finalmente, a casa.
Presi
lo zaino e andai in
palestra chiacchierando con una ragazza decisamente brutta che dicevo
mia
amica, ma che in verità consideravo a mala pena tollerabile.
Quel
giorno avevamo la
partita, come sempre d’altronde. Il professore ci divise in
quattro squadre:
due femminili e due maschili. Eravamo ventiquattro in classe, per cui,
i gruppi
erano quasi sempre perfetti.
Iniziammo
a giocare prima noi
ragazze. Odiavo
giocare con loro. Il
loro livello a pallavolo era pari a zero.
Secondo il professore ero la femmina più brava.
Infatti, a volte,
metteva me a giocare con i ragazzi e un tipo sfigato, che a parere di
tutti era
ermafrodito, a giocare con le mie compagne.
Michela,
l’ “amica” di cui
parlavo prima, mentre mi buttavo a prendere la palla, mi fece lo
sgambetto,
facendomi cadere col viso a terra.
Il
naso bruciava da impazzire,
era come quella volta in cui Armando, a Taekwondo, me lo aveva quasi
rotto con
un calcio in combattimento.
Mi
misi in ginocchio,
portandomi le mani al viso. Sentivo il sangue colare dappertutto.
Nel
frattempo quegli disgraziati
dei miei compagni non avevano niente di meglio da fare che ridere come
dei
pazzi della situazione. Lorenzo, addirittura, si era buttato a terra
cercando
di simulare la mia caduta. Non c’era nessuno che si
preoccupasse di me.
Bella l’amicizia, vero?
Sulle guance, mescolandosi
al sangue, scendevano
lacrime di rabbia. Io non piangevo mai:
l’ultima volta mi era successo quando, a
quattordici anni, era morta mia
nonna, cercando di evitare di farmi investire.
Dopo
un po’, vedendomi a
terra, il professore mi si avvicinò. Notando lo stato del
mio
naso, mi
accompagnò all’ospedale, dove mi misero una specie
di impalcatura sulla faccia,
e mi rimandarono a casa, raccomandandomi di non fare movimenti bruschi
per
almeno due giorni. Strinsi i pugni. Il giorno dopo avevo una gara di
Taekwondo.
Erano mesi che mi allenavo in previsione di quella gara, che avevo
intenzione
di vincere. E, ora, per colpa di quella puttana di Michela, avrei
dovuto
rinunciarvi.
Ah,
ma mi sarei vendicata.
Senza dubbio. E a qualsiasi costo.
***
Inspirai
profondamente. Quel
che stavo per fare era profondamente sbagliato. Eppure incredibilmente
giusto.
Lessi
l’ora dalla sveglia. Era
l’una di notte.
Perfetto.
Mi
alzai dal letto già
vestita. Al mio posto, per non far insospettire i miei, misi una
vecchia
bambola gigante con cui giocavo quando avevo sei anni, ma che non avevo
mai
avuto il coraggio di buttare.
Mi
legai i capelli in una coda
veloce, presi il grimaldello acquistato il giorno prima dal ferramenta
per
metterlo in borsa ed uscii.
L’aria
fresca mi sferzò il
viso. Mi calai meglio il cappuccio sul viso.
La
casa di Michela stava a
pochi minuti di cammino da casa mia. La raggiunsi in fretta.
Mi
guardai intorno sperando
che nessuno mi vedesse. Ero ancora in tempo per andare via e fingere di
essere
lì per caso.
Coraggio, ce la
posso fare. Mi
ripetei quelle parole come una litania infinita.
Presi
dalla mia borsa un panno
e lo posai sulla telecamera vicino al cancello. A quel punto, afferrai
il
grimaldello e forzai l’inferriata. Per riuscire
nell’impresa senza fare rumore
mi ci vollero alcuni minuti, che a me sembrarono secoli.
Ora,
non voglio che pensiate che io fossi una criminale abituata ad entrare nelle case della
gente
così.
Credetemi,
era la prima volta,
purtroppo non l’ultima, che facevo una cosa simile.
Ero
una brava ragazza,
diamine, ma la vendetta è pur sempre vendetta!
Piccole
gocce di sudore mi
imperlavano la fronte, e cadevano negli spazi vuoti tra la fasciatura e
il
naso, dandomi un prurito terribile. Preferii non badarci, mentre, cautamente, mi infilavo nell’edificio.
Salii
le scale che dal
giardino portavano alla casa, e mi preparai al lavoro davvero duro. La
porta
sembrava blindata. Poi mi venne un’idea.
Una
volta Michela mi aveva
detto che sua nonna, che viveva con lei e la madre, metteva sempre la
chiave di
casa dentro il portaombrelli.
Mi
guardai intorno alla ricerca
del suddetto. Quando lo trovai, mi preoccupai di infilare dei guanti,
per non
lasciare impronte, e presi le chiavi.
Era
un mazzo bello grosso, ma
verso il quinto tentativo riuscii ad aprire.
Mi
misi le chiavi in tasca ed
entrai.
La
casa era ben arredata, con
tutti mobili antichi di legno.
Se
la memoria non mi
ingannava, la stanza della mia compagna era la seconda a sinistra
dell’ingresso.
Schiusi
piano la porta per
controllare di aver ragione. Notai la chiazza di lunghi capelli biondi
sparsi
sul cuscino. Sì, era decisamente Michela.
Sorrisi
tra me. Si avvicinava
il momento della rivalsa.
Feci
per entrare, ma non avevo
fatto i conti con la gravità, che quel giorno sembrava
accanitasi con me.
Infatti,
il dislivello che non
avevo notato mi fece cadere con un tonfo insopportabile.
Cazzo
… è finita.
Michela
si rigirò nel letto.
Benedetto sonno
pesante.
Sospirai.
Mi
alzai, posando a terra la
borsa. La aprii, e afferrai le cesoie da giardino di mia madre.
Mi
avvicinai lentamente alla
testata del letto.
Michela
aveva un unico
orgoglio, e quello era la sua capigliatura biondo intenso.
Le
afferrai una ciocca di
capelli, tagliandola praticamente alla radice. Fu lo stesso destino di
tutti
gli altri ciuffi.
Ghignai
silenziosamente. Io
non avrei potuto fare la mia gara, ma lei avrebbe dovuto mettere
cappelli per
almeno altri sei mesi.
Il
mio spirito malvagio
esultò, estasiato dalla mia opera.
In
quel momento, la mia
distrazione mi fu fatale.
La
punta delle cesoie andarono
a tagliare un pezzetto di pelle del viso di Michela, facendola
svegliare.
Dio
volle che avessi ancora il
cappuccio ben disceso sulla faccia, così che la ragazza
oramai pelata non mi
riconoscesse.
Quindi,
cesoie e borsa in
mano, scappai.
Mentre
correvo via e buttavo
le chiavi della loro casa a terra, sentii le urla che provenivano
dalla
stanza.
Mi
sembrava di volare. Sentivo
i piedi muoversi veloci come non avevano mai fatto. I polmoni
bruciavano, ma
non osavo fermarmi, qualcuno avrebbe
potuto raggiungermi.
Un
sasso. Non avevo visto un
malaugurato sasso. E di nuovo la gravità a fare reclamo dei
suoi diritti su di
me. Ma questa volta non sentii la terra come pensavo di sentirla.
Fu
più che altro la sensazione
di galleggiare nell’aria. E vedere i contorni che sfumavano,
confondendosi fra
loro e creando una nebulosa grigia.
Era
poco dire che mi sentivo
confusa.
E,poi,
finalmente, il terreno.
Duro, compatto, erboso. Un attimo. Erboso?
«Benvenuta
a Irecath, nella
regione di Amaphlion. Mi fai vedere il permesso di spostamento e il
foglio di
identificazione?»
My
Corner
Eccoci
qui, con il primo
capitolo di questa entusiasmante(?) FanFiction. Non ho molto da dire,
se non
che questa è la mia prima creazione del genere Fantasy e
spero possa piacere.
Fatemi
sapere che ne pensate!
A
presto,
Mafra