Fisica delle particelle
(prima parte)
Al
di là del “panorama mozzafiato”, degli
“ampi spazi che
deliziano l’occhio” e degli altri luoghi che
ispirarono a John
Keats la stesura di una parte del suo Endymion
descritti sugli opuscoli disponibili in ogni negozietto di souvenir,
c’era una verità sotterranea ma innegabile che
rimaneva proprietà
esclusiva della fauna adolescenziale di Teignmouth e che ovviamente
non giungeva all’orecchio dei forestieri.
La
verità che risiedeva nelle tre “S” della
gaia Tin-muffa:
Sbronzarsi, Sballare, Suonare.
Nei
mesi estivi e nei week-end settembrini, tempo permettendo, chi poteva
cercava di abbronzarsi sulla breve striscia di spiaggia cittadina;
oppure, inforcava il motorino o si incamminava gambe in spalla e
zaino sulla schiena dirigendosi verso le colline fra le quali la
città era “sapientemente incastonata”,
per dirla in termini da
guida turistica, piantando le tende sul cocuzzolo della più
alta.
Arrivati
fin lì, non c’era molto da scegliere.
C’era
chi si sfondava di birra e sidro, chi metteva mano a qualche bustina
contenente dei funghetti che di certo non erano buoni per il risotto.
C’era
chi imbracciava la chitarra e suonava attorno al falò che
scoppiettava nel focolare di pietre grezze. C’erano le
ragazze che
si lasciavano cullare dalla melodia, gli occhi lucidi e le guance
arrossate dal calore del fuoco.
C’erano
le ragazze che, grazie a Dio, dopo tanto strimpellare si facevano
anche scopare – la quarta “S” che per
molti restava solo una
fantasmagorica visione.
Poi
l’autunno si riprendeva il pur sempre timido e spesso fugace
sole
estivo, e le fughe in collina con annessi e connessi venivano
archiviate almeno fino a giugno.
Nel
frattempo, c’era la scuola.
Dominic
Howard era uno studente piuttosto diligente; meticoloso, determinato,
poco incline a distrazioni varie ed eventuali… Tipo una vita
sociale degna di questo appellativo.
Il
suo primo approccio con la città era avvenuto
all’età di otto
anni, quando la sua famiglia si era trasferita lì arrivando
da
Stockport – un altro buco di cittadina che probabilmente
avrebbe
odiato come Teignmouth, se vi avesse trascorso l’adolescenza.
In
realtà all’inizio era stato bello. Era tutto verde
e bianco e
azzurro, c’erano le barche e c’era il Den,
quell’enorme spiazzo
d’erba da percorrere da cima a fondo con un pallone ai piedi,
all’impazzata.
Poi
erano trascorsi gli anni e palloni, prati e barche avevano perso
tutto il loro fascino.
In
compenso, era arrivata la musica.
Il
liceo di Teignmouth era caratterizzato non solo da una mandria di
studenti troppo svogliati per indulgere in comportamenti scorretti
diversi dal bigiare di tanto in tanto e da un’equipe di
insegnanti
vagamente demotivati seppur competenti, ma anche da un discreto
complesso autodefinitosi “jazz”.
I
componenti erano quasi tutti ragazzi dell’ultimo anno, quindi
il
ricambio generazionale era assicurato; fin da quella volta in cui
aveva assistito ad una loro prova pomeridiana in primo superiore,
Dominic era rimasto letteralmente catturato, desiderando far parte
delle sostituzioni annuali.
Aveva
gettato la spugna dopo essere stato scartato per ben due volte, alle
audizioni – il complesso era un affare piuttosto serio, con
provini
e concorsi ai quali presenziare e tutto… Non accettavano di
certo
il primo venuto con ambizioni artistiche.
Una
bella botta all’autostima, sentirsi rifiutati a quel modo.
L’amore
che provava nei confronti del suo strumento – quella batteria
che
detestava venisse toccata da qualsiasi mano estranea e che continuava
a volere dentro la sua camera invece che in garage – grazie
al
cielo prescindeva da ogni provino andato storto.
La
sua piccola. L’unica entità terrestre che si era
guadagnata il suo
affetto incondizionato negli ultimi tempi.
In
effetti non provava un’eccezionale trasporto nei confronti
del
genere umano – soprattutto quella parte di esso intrappolata
nel
lungo e pericoloso tunnel dell’adolescenza.
Non
era neanche odio, o disprezzo. Forse noncuranza. Forse presunzione o
insofferenza.
Fatto
stava che gli ultimi amici veri che avesse mai avuto con i quali
condividere degli interessi erano da rintracciare in parte nella sua
infanzia a Stockport, in parte nei primi quattro anni di permanenza a
Teignmouth.
Quel pomeriggio, mentre fissava il volto appassito del professore di Musica e quello rubizzo della coordinatrice delle attività extracurricolari dal palco allestito in aula magna per le prove del complesso, Dominic Howard sperò per la terza volta di poter cambiare quello stato di cose solo grazie alle sue mani e al suo senso del ritmo.
-
Howard… Howard Dominic.-
-
Sì… Sono io. – confermò con
un sorriso nervoso il ragazzo.
Si
mosse sullo scricchiolante sgabello in pelle in cerca di una
posizione comoda, aprendo e chiudendo le dita fredde e sudate lungo
le bacchette di legno.
-
Sei al terzo anno, giusto? Non sei fra i miei alunni.-
-
No. - rispose rauco il ragazzo, schiarendosi la voce un istante
più
tardi. – Ho avuto musica solo in primo anno. -
Il
professor Bowman si lisciò un sopracciglio, controllando la
lista
dei partecipanti alle audizioni: - Mhm… Ok. Comunque, mi
pare di
aver già sentito il tuo nome al di fuori di… Hai
già tentato di
entrare a far parte del complesso, se non vado errato.-
Fu
dura ammetterlo, per Dominic: - Già… Due volte.-
Due
fottute
volte. Due fottuti “Può bastare,
grazie.”, che nel gergo di
Bowman stavano a significare “Ok, ci hai provato, figliolo.
Ora va’
a casa a meditare sui tuoi errori, eh?”
Fra
gli altri contendenti seduti sulle poltrone rosse dell’aula,
qualcuno soffocò malamente una risatina derisoria.
Dominic
arrossì sotto l’impietoso chiarore delle lampade
al neon.
La
professoressa Bishop si voltò verso il resto della platea,
senza
dire nulla, per poi dedicare a Dominic un enorme sorriso
d’incoraggiamento.
-
Allora, cosa hai intenzione di farci sentire?-
Il
ritmo delle mie sistole e diastole, ad esempio… Le piace
l’idea?
… nonono.
Ok. Respiro profondo. Controllo.
Incanaliamo questa fifa porca in qualcosa di buono, Howard.
-
Può bastare, grazie.-
Dopo
qualche minuto Bowman alzò la mano in un gesto stanco, senza
neanche
sollevare lo sguardo dal foglio dei nominativi dei provinanti.
Quanto
tempo impiegava un essere umano a pronunciare tre parole di fila?
Quanto
tempo impiegava il destinatario di un messaggio così breve a
coglierne l’esatto significato?
Dominic
ci mise una decina di secondi, uno per ogni battito del suo
cuore.
Poteva
bastare. Poteva bastare.
… d’altronde,
non si dice forse “non c’è due senza
tre”?
Scendendo
i gradini del palco, Dominic ripensò ai movimenti
effettuati, si
sforzò di individuare delle pecche nell’esecuzione
appena
ultimata.
Abbandonò
il campo di battaglia a capo chino, camminando lungo il corridoio che
divideva la platea in due porzioni simmetriche di poltroncine
scarlatte.
Non
aveva voglia di sapere chi si sarebbe aggiudicato il posto a cui
anelava – non aveva voglia di sapere chi se lo meritasse
più di
lui.
Quando
si trovò di fronte alla porta, dovette lo stesso bloccarsi;
l’uscio
era ostruito da un alto ragazzo mollemente appoggiato allo stipite
con le braccia e le gambe incrociate.
-
Peccato. Andrà meglio la prossima volta.-
Dominic
dovette piegare il collo per fissare dritto negli occhi lo spilungone
che gli sorrideva tranquillo, una massa di ricci capelli castani ad
incorniciargli il volto.
Lo
conosceva di vista, ma non era sicuro che il nome che gli era venuto
in mente fosse quello giusto.
-
Certo… Non lo sai che non c’è due senza
tre e quattro vien da
sé, vero? - rispose acido Dominic, già di pessimo
umore per la
sconfitta subita qualche minuto prima.
Che
poi, chi diavolo lo conosceva quello? Che voleva da lui?
-
Scusa? - il tizio non sembrava aver colto l’allusione
– forse non
aveva assistito a tutta la scena svoltasi poco prima.
-
Lascia perdere… - sospirò Dominic, sentendosi
improvvisamente
svuotato.
Aveva
voglia di uscire dalla scuola, di correre fuori sentendo il freddo
artigliargli il viso e poi rifugiarsi in camera sua per magari non
uscirne mai più.
Il
ragazzo si fece da parte cortesemente per lasciarlo finalmente
inseguire il suo desiderio.
Quando
l’ultimo raggio di sole si sciolse in un chiarore purpureo
sulla
linea piatta dell’oceano i lampioni si accesero, baluginando
rossastri come in un tentativo di scimmiottare il tramonto
agonizzante sull’acqua.
I
gabbiani planavano in orbite circolari attorno ai pescherecci
attraccati in porto, stridendo dialoghi incomprensibili
all’orecchio
umano.
L’erba
sul quale era seduto era umida e fragile; Dominic ne prese un ciuffo
fra le dita, strappandone qualche filo.
Quella
sera il Den era tutto per lui. I bambini che di solito vi giocavano
erano rincasati da un po’ – con quel freddo, le
mamme preferivano
farli rientrare presto.
A
Dominic importava poco del gelo, dei pantaloni oramai umidicci e del
pericolo di un raffreddore.
Anzi,
magari ne avesse buscato uno – avrebbe dato chissà
cosa per
potersene stare a letto almeno un giorno… Magari
l’indomani.
Buttando
all’aria la prudenza, Dominic si sdraiò
sull’erba.
I
lunghi capelli biondi assorbirono pian piano
l’umidità del prato,
così come i jeans poco prima.
Ma
sì. Ma chi se ne fregava. Un bel malanno da curare col
calduccio
delle coperte e un sacco di TV era tutto ciò che desiderava
in quel
momento, a parte tornare indietro nel tempo di circa un’ora e
mettere su un’esibizione stratosferica sul palco di
un’aula magna
per strappare un posto da batterista in una stupida band scolastica.
Ecco,
un virus era più abbordabile come opzione.
Chiuse
gli occhi, e il mondo divenne pura sensazione tattile ed uditiva
capitata per caso fra i ricordi.
I
gabbiani continuavano a berciare sospesi per aria e la Bishop gli
sorrideva per tranquillizzarlo.
Il
vento soffiava e Bowman lo bocciava senza mostrare un minimo accenno
di interesse nei confronti della cosa.
Brividi
di freddo iniziavano ad increspargli la pelle e un ragazzo dai folti
capelli ricci tentava di rincuorarlo.
-
Vuoi morire assiderato?-
Una
voce lo sovrastò concreta, profonda e curiosa.
Quando
Dominic sollevò le palpebre la voce divenne un ragazzo
apparentemente della sua età o poco più piccolo;
viso ossuto,
capelli scuri spioventi sul viso, occhi brillanti alla luce delle
luminarie cittadine.
Mise a fuoco i lineamenti il ragazzo ed immediatamente gli
sovvennero un nome ed un
cognome, senza possibilità di confusione.
Matthew
Bellamy. Quel
Matthew Bellamy.
Cliffhanger,
perché sono notoriamente malvagia. XD
Sinceramente non so cosa aggiungere, non vedo l'ora che
questa domenica inattiva sia trascorsa e sono mogia
da far spavento - interessante, no? :/
A presto, e grazie.
♥
Edit, perché Stregatta dimentica sempre tutto: per "fisica delle particelle" si intende questo - citare *sempre* le fonti, first of all. :D