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Autore: DubheShadow    25/01/2011    0 recensioni
Quasi - quasi - una song-fic. Semplicemente, pensavo a una persona che tanto amo, e intanto ascoltavo la canzone dei Simple Plan "I Can Wait Forever". Poi la penna è corsa veloce sul quaderno, una di quelle poche volte in cui predilisco la carta alla più comoda tastiera di un computer.
Sono solo pensieri, frasi intrise d'amore, intristite da una forte nostalgia che si rende insostenibile nei primi giorni di distacco, e che poi diventa solo un dolore sordo in fondo al cuore, quanto tutto il resto ormai ha fatto l'abitudine a viverci senza.
Questa storia è nata come una One-Shot solitaria, ma poi Tuomas ha risposto. Perciò andrà avanti così, con me che scrivo le lettere secondo il punto di vista della donna, e lui secondo l'uomo.
"Mi sento come una margherita: m’ama, m’amerà ancora, davvero m’ama ancora? E intanto sfiorisco. Deliziosa, mi ritroverai che sarò solo un gambo! Un tuo bacio, solo uno, e sboccerò di nuovo. È una promessa."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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06/03/1823 – Interludio

Londra, Casa Hinchinghooke.

 

La tela s’incava sotto le sue mani sottili. Il corpo di una donna, apoteosi di piacere che rifugge dall’armonia fatale, la matita che consuma la sua grafite nei tratti grossolani e imprecisi delle sue fragili dita. Il tramonto tinge d’oro le fibre tessute, così delicato che pare quasi mortificare il suo animo con la fuggevole bellezza dei suoi nastri. Passati lì per caso a condurlo in una scia di docile piacere.

Vi amo. In ogni secondo. Ascolto l’organo che abortisce voi nell’accordo di rimembrarvi sempre. Prima o poi.

Un movimento più in basso, strascicando le forme di un braccio, i pizzi e i merletti affinati dal filare una mano. Fasci di lavande a ricoprire il tutto, un universo frammentato, una marea ritratta nell’odoroso ricordo. È così forte che quasi infastidisce: l’alcol che permea forte e stilla di dolore acidi tagli. Le lavande hanno l’odore di fiori blu in un campo deserto. Hanno odore d’oceano, di quello forte, del sale che corrode la stessa tela, fino a sfinirlo nelle lacrime che cascano in frantumi d’infanzia.

Si vede appassire, sfiorire greve, sulle gambe petali seccati, strappati crudelmente alle rose ch’aveva donato alla madre al suo arrivo. Poi sospira. La matita gli sfugge quasi, ma stringe di nuovo, deciso. Si sente burattinaio, costruttore del miraggio, artefice di una composizione incisa a parole, e visioni sussurrate nell’inseguirete il distacco.

Un sibilo fioco più in fondo, asciutto, gli annunzia che la matita ricade al suolo, nello scoccare, all’unisono, del suo cuore.

Mani. Mani. Ancora mani. Mani che si allentano, come un affresco decadente, separati da una crepa che apre uno squarcio inafferrabile. Un vuoto marginale. Il vuoto in cui ricade, straziato come i suoi sogni, amori affacciati da un oceano di carta.

Non era mai stato un bravo pittore. Ci aveva provato, talvolta, suo malgrado bozze increspate e sporche, stracciate delle proprie mani, abituate forse all’inseguire l’inchiostro, che ad altro.

Il ribollire ridente dell’acqua, il pennello che vaga nella frescura del barattolo di fragili vetri incrinati.

Veloce. Il chiaroscuro sulle ombre delle mani, il respiro trattenuto un attimo prima di scoppiare. Li ha dipinti. Apparsi misticamente come anelli su un fondale ingrigito.

Il violetto, la punta d’ametiste fuso, così fluido a puntellare gli steli. Indorato è l’orizzonte in cui si spiega il fragile volare della sera, su ali arrossate d’imbarazzo.

Mancherebbe solo il piano, si dice. La melodia che l’accompagna algido nell’altalena di soni, frammisti e fragili, il cantilenare d’inaudite sirene.

Sirene, vi prendo e vi porto via. L’inganno della bugia che serbate in seno, siero invischiato al petrolio più oscuro, vanifica ogni vostro respiro.

Madre, sapete del ricadere di gocce in un pozzo profondo.

Una scia rossa gli imporpora le gote di lui bambino. Screzia gli occhi in un temperamento che sa di cioccolata, mista a lacrime di cannella. Ha il volto sporco di terra.

Piange.

Poi una danza più oscura, più dolce, l’infinito, il tremore del cuore afferrato d’altre mani…

Lei profuma di crisantemi, invece. Ha petali che sono ciglia, lunghe, sottili filamenti di violino, sbocciate nel rigoglioso silenzio che vi cresce dentro. L’intimità odorosa di lapidi e petali fusi nell’essenza del suo respiro.

***

La porta è socchiusa. Non cigola, non produce rumore, quando una mano la spinge per entrare nella stanza. La figura viene investita dai raggi brucianti di un ultimo sole, che alla fine del suo percorso riesce a infuocare l’ambiente, intrufolando tiepidi serpenti di rubino da ogni interstizio.

 Un odore di vernici la investe. Casa. Casa è dove c’è lui: dove ogni filo dei suoi capelli di grano si trascina il sapore dell’estate, dove la vita si consuma nei baci riversi sulla sua pelle luminosa.

 Sta dipingendo. La sua mano, decisa nell’impugnare una penna, ora è insicura sulla tela e pare giocare con i peli del pennello che tratteggiano delicati il suo dolore.

 Gli si avvicina, nonostante vorrebbe in cuor suo restare un’eternità a rimirarlo nell’ombra, sentendolo ignaro della sua presenza. Lascia scorrere le dita sul suo braccio – il primo tocco è un tuono che percuote le membra –, la camicia bianca arrotolata fino al gomito, quindi gliele avvolge attorno al polso con cui acquerella il quadro. Lo guida in alcune rifiniture, qualche istante per assaporare in pace il suo profumo di fiori di pesco, e cannella, e legno di sandalo. Un’armonia di sensi che le inebria la mente.

 Ferma il tratto, ed entrambi tremano, hanno sempre tremato, delle foglie nate sullo stesso ramo di betulla e pronte a cadere sulle sponde del fiume. In silenzio. I loro sguardi non si cercano perché non ancora pronti a incontrarsi, rifuggono adocchiando il nulla.

 È seduto su uno sgabello senza spalliera, e lei sente la sua schiena che le sfiora il grembo. Stavolta non è il corpetto azzurro troppo stretto a levarle il respiro, è una presa diversa a scuoterle l’animo. Quasi non si accorge di essersi chinata appena, per lasciar scivolare le labbra sul suo collo liscio, le spighe di grano della sua chioma che la sfiorano e le solleticano il viso, come una carezza data in un campo pronto al raccolto.

«Byron, mio Byron.» È un sussurro che infrange ogni specchio.

***

«Scacco matto.»

«Oh, perdessi meno spesso» sospira Evangeline.

«T’amerei di meno?» Il ragazzo fa per rimettere a posto le pedine, un giocatore accorto, che carezza ogni pezzo levigato con la stessa cura di una sarta che ammira la sua ultima creazione. Un sorriso mesto spunta appena dal suo volto, quindi prende un respiro e continua: «A dodici anni m’innamorai per la prima volta. Una ragazza di strada, capelli rossi, l’accento di Nantes. Una figlia di Satana.»

«Un po’ azzardato, per un bambino.» Lo aiuta nel richiudere la scacchiera in cristallo, dopo che l’esercito è ritornato silenzioso nelle sue bare, custodite da quella lastra lucida, troppo pulita per portarsi dietro così tante vite mangiate. Il re nero giace accanto alla sua regina, ma non si tengono per mano: muto è il ringraziamento verso quella figura femminea che, di nuovo, lo aveva salvato.

«Non ero immaturo» dice, quasi stesse cercando una scusa per il suo comportamento, quindi si alza dalla poltrona rivestita di velluto rosso. Il salone è pervaso dalla solitudine, solo il fuoco nel camino crepita stanco le sue lamentele. Pochi sono i riverberi di luce, qualche candela poggiata su un candelabro dorato, sparse per l’ampia stanza con la casualità di un cameriere distratto.

 Tutto giace nell’immobile penombra di una scena da consumarsi al buio.

«Non lo sei mai stato, vero? Non hai età, non hai mai avuto anno in cui annotare un cambiamento nel tuo spirito.» Evangeline resta seduta, e osserva l’uomo percorrere il tavolino rotondo di legno, lentamente, un passo per volta, accompagnando il tutto con una mano che soprappensiero ne ripercorre il bordo incavato. Un dito che segue il percorso del destino, lasciandosi trasportare, senza rivolte.

«Ho cristallizzato la mia vita nel momento in cui mio padre è morto. L’ho visto cadere come un bicchiere di vetro. L’ubriaco tira un po’ la tovaglia, e il calice s’infrange al suolo. Sparge un veleno d’imbrogli.» Lo sguardo, invisibile, coperto da ombre fragili e impalpabili come nebbia, è privato anche del suo consueto chiarore. Il ricordo si disperde, è il liquido che macchia il tappeto una volta che il bicchiere ha completato la sua caduta. « Lei, la rossa… quella bambinetta dei miei sogni, colpa sua» e l’incertezza si diverte a colpire la sua voce in balbuzie stolida. «Mia madre mi aveva… avvisato, e così aveva fatto con lui. Chi ha i capelli di fuoco è solo un bugiardo partorito dall’inferno.» Una pausa: la voce roca sfuma nel soffio di una vita devastata. «Io ho aperto le porte dell’oltretomba, portandola in casa. Era un angelo sperduto fra la polvere di Vaucluse, ma poi s’è rivelato demone dell’anima mia.»

«Continua, per favore.»

«Fuggimmo, incontro alle lavande in sboccio. Vaucluse non è mai stata rifugio più casto: eravamo aliti dispersi nel vento, non eravamo nulla, eravamo la proiezione di un passato cancellato male. Io e la rossa, che ci confondevamo fra i fiori, amandoci fino allo scandalo, fino al disastro, il sangue che riverse la mia vita. Colpa sua, maledetta!» È arrivato alle spalle della donna, ma non la tocca. Osserva la dolce linea della sua nuca piegata in basso, i capelli castani raccolti in uno chignon semplice, gli occhi socchiusi in un ascolto assorto. Osserva le sue bugie, i suoi segreti taciuti, scivolare a terra e liberarsi della loro coltre di gelo.

«Lei… è ancora viva?» chiede.

«Oh, Eva, non sai che il demonio non muore?»

***

Sfiora il corteo, bianco, una crisalide di lapidi spezzate e poi subito nere. La scia del suo dito, l’unghia tonda, che scivola fluida in una scala gentile, le fa crescere brividi di solitudine in seno.

La tentazione a cui sta per cedere il suo amato è languida, mortale. Ha paura che quelle dita, come filamenti spinati, ricadano in cenere nell’alternanza del campo santo nella quale, ora – per sempre – incide il suo tono. Più in alto, imperioso, come un mare di vetro in frantumi.

La stanza è un locale oblungo, illuminato dalle luce di un camino che arde nel rossore delle sue braci e combatte la notte, una fiamma s’infila come un’ombra lungo la parete e crea un ramo frastagliato, un teatrino di luci e tenebre circonfondono il tutto. Un pianoforte, un uomo su uno sgabello, una donna oltre la coltre di legno scurito, in fronte all’amore impersonato.

«In principio ci furono due mani. Odorose d’inchiostro che s’amavano in un intrecciarsi perpetuo, profilate lungo una penombra interminabile. Un’assenza, un’angoscia che premeva nel petto dei due. Si contesero, appena, per sempre. Combatterono a rose rosse e talvolta dal nero gentile, asservite con rovi che stillarono sangue puro. Poi nacqui e sfilarono cinque anni senza accorgermene, intrisi nei miei occhi di bambino. Da Le Havre, la vergine neve imbiancava i loro animi insanguinati d’amore, scappammo a Vaucluse, Valensole. E là, le lavande imperversavano in un oceano di ametiste, acute, rozze, accoglienti come le mani dei miei genitori.»

Scomposta, il suo respiro ansante le percuote il petto, ansiosa. Pretende. Sta seduta in una poltrona, ricamata con rami neri e foglie di primavera beccate da passerotti infatuati. Sta in fronte a lui e lo guarda negli occhi.

«La conobbi che era appena cominciata l’estate, in uno di quei giorni in cui s’attendeva oziosi lo sboccio delle lavande, così frementi d’avere in corpo il profumo screziato di quei fiori, in cascate di gemme dal proprio stelo. La conobbi che di nascosto m’ero inoltrato in un campo violetto, i fiori trattenuti ancora a sé, alcuni prematuri reclamavano la loro morte per sfuggire all’astiosa vita solitaria, in attesa dei loro fratelli. Ne raccolsi una, la spiga più bella, piegato, con gli occhi accesi di stupore.»

La musica intorno a loro, quelle note che salgono al cielo e ricadono meste, s’accorda perfetta, richiudendo porte d’inferni e paradisi al loro passaggio, alla voce narrante che novella un’immagine e ne interpreta un’altra.

«M’ero piegato, le dita strette intorno al verde del gambo, premevo con forza perché venisse via. Il tatto, scottante, invasivo e distorto d’altra pelle, che sfilava dal terreno la pianta novizia. Ci ritrovammo instabili, la spiga violetta stretta nelle sue mani. Nel trionfo di due volti. Uno solo.» Lei lo guarda, la sua pupilla dilatata trattiene nell’intenso il buio, distoglie per un istante lo sguardo.

«Le disgrazie, Eva, sono ghiacciate. L’amore però s’accende del rossore soffuso, placato, dei suoi capelli. Lei, impacciata, le mani in grembo, lasciò la lavanda a me, e s’allontanò d’imbarazzo dipinta sull’esanime pelle.»

Byron cessa la fugace melodia. Le candele brucianti ai muri indorano i contorni del pianoforte come filigrana di sole ad accendere picchi d’intimità.

«Per poco non scappò. Oramai ammaliato, corsi dietro al suo fuggire, lo strascico della bianca veste che le copriva le gambe in una corolla di giglio, rialzato tra le mani. Era lacera, povera, sporca. Timida come la farfalla che si posa sul suo primo fiore.»

«Sai, mio Byron, ho un inconsueta passione per i tuoi racconti. Sono bestiole ammansite dalle tue sillabe, sussurrate col dolcezza, intrinseche di melanconia; accendono fuochi di gelosia in me. Continua, oh mio Byron, pure per sempre.»

«La trascinai a casa, corremmo come due fiori estirpati dallo stesso stelo, mano nella mano, e pian piano calava la sera.»

Evangeline esitante, chiede, il farfugliare delle sue mani a mezz’aria è il giogo di un linguaggio profondo, taciuto.

«E fu tua?» Lui affranca un dito alle labbra schiuse, lascia che il monito plachi tutto, cali il sipario di un intoccabile silenzio.

«Mio padre la raccolse in casa, mia madre l’occhieggiò come un gatto randagio, e lei odiava i gatti che d’estate sgusciavano nel verone passeggiando.» Stacca il dito dalle labbra, semoventi, il monito spezzato, le dita che scompaiono sulla tastiera del pianoforte.

«Non aveva famiglia, lei era il reietto a cui tanto aspiravo, il fascinoso terrore che mi incastrava nella trama intessuta. Mi amava, o faceva finta.»

«E basta? Solo questo?» Pensierosa, le palpebre che si socchiudono in una foga, la smania di un bacio, mosaico di ciglia.

«Era il mio segreto più turgido, il rampollo di un fiore d’oro che splendeva ai tramonti di baci, le lavande sotto i nostri piedi intralciavano il passo. Che amore, quel profumo, la fragranza di toni assaporava il bacio. E fu il mio primo bacio, l’inimitabile.» Si blocca, la musica attorno si riaccende con un botto basso. Le mani avevano sbattuto con forza contro i tasti, poi di nuovo silenzio. «Oh, Evangeline, l’emozione che trasudate è un concetto d’invidia pura, non vogliatemene. È una parte importante. È d’infanzia.»

«Non curartene, Byron, è solo il mio cuore che piange a tradimento. Avrei voluto esser io quel papavero appena colto e curato con tanta passione. Quando l’hai baciata, che sapore ebbe?»

«Un sapore diverso. Ha sapore? Tutto ciò che è tensione allo spasimo, ha tutt’altro sapore. È lo sbocciare di un mondo silente, dove le timide roselline crescono sottosopra e sopravvivono alimentandosi di brividi contrastanti. Perché con lei, c’era una soglia focosa in cui sprofondavo lieto e incauto e spiragli di brina che stoccavano ai fianchi.»

«Qual era, il suo nome?»

«Katherine.» E mentre lo dice, contrae la faccia in un espressione dolosa.

E poi s’alzano, statuine affusolate che vagano sul palco di un carillon stonato.

Riprenderai, mio Byron, perché nell’altra parte, son sicura, il soleggiare del giorno mi aiuterà a non averne paura.

   
 
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