Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Satomi    27/01/2011    16 recensioni
Corre l’anno 1683 a Cayona, capitale dell’Île de la Tortüe.
La schiava nera Dinah viene acquistata assieme alla figlia. Per la donna è l’occasione di riflettere sulla propria condizione di oggetto, destinato a soddisfare la libidine degli uomini; sull’importanza del colore della pelle, che ha reso schiave lei e la piccola mulatta che ha dato alla luce; su Jérôme Durand, il bucaniere che l’ha acquistata, risoluto a impedire che il suo sangue diventi merce ambita al mercato del paese.
A far da sfondo una Cayona violenta e in fermento come non mai, causa un’imminente spedizione che promette di essere la più audace mai pensata dai Fratelli della Costa.
La conquista di Veracruz.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questa storia si è classificata:

SECONDA
  al contest Colori e...ore! indetto e giudicato da  Emily Alexandre
TERZA PARIMERITO al contest Al di là del tempo che fu giudicato da (Gaea)
QUINTA  al contest Dramatic giudicato da Calypso.
[i giudizi sono stati spostati sul mio LJ per non intasare ulteriormente la pagina]

Inoltre nel contest Possa la fortuna essere sempre dalla vostra parte, indetto e giudicato da Feel Good Inc e Ray08, il distretto - in cui partecipava assieme alla storia di _Yuki_ si è classificato TERZO. Qui di seguito il banner di partecipazione:

 
NA: i particolari circa la spedizione di Veracruz, compresi i nomi dei capitani e la datazione, sono del tutto storici. Tutti gli altri personaggi sono di mia invenzione.

 

“Trecento.”
“Duecentocinquanta.”
“Duecentottanta.”
“Duecento.”
“Satanasso!” scattò il vecchio Bernard picchiando un pugno sulla tavola, tanto che i bicchieri ivi posati traballarono. “Duecento pezzi da otto per due schiave? È un furto!”
“Tentennate ancora e la mia offerta continuerà a calare, messere.”
“Siete un ladro!”
“Solo un uomo poco avvezzo a perder tempo colla feccia” replicò il suo interlocutore, un sorriso furbo che gli si distendeva sotto l’ampio cappello; i suoi vestiti in pelle erano lordi di sangue rappreso.
“Allora, Bernard? Volete che i duecento pezzi divengano centottanta?”
Ma il proprietario della locanda, grinzoso ma ancora robusto e in salute, era poco propenso a dargliela vinta. “Perché dovrei cedervi due mie proprietà per questa miseria?” borbottò, gli occhi iniettati di sangue.
“Chiamate proprietà una puttana che vi rende sempre meno? Vi faccio un favore, messere, al mercato non la vorrebbe più alcuno.”
“E perché la vorreste, voi? Se non sbaglio è la marmocchia che v’interessa.” Bernard era iroso e avaro, doti che peggioravano col passare degli anni, ma di certo non stupido. E l’uomo dinanzi a lui non tardò a capirlo.
“Se compro anche la negra è per evitarmi l’impiccio di cercare una balia di certo più costosa” sibilò, punto sul vivo.
“Ci tenete parecchio alla mocciosa” ghignò il locandiere. “Forse vi state rammollendo, Durand? Il vostro comandante non ne sarebbe felice.”
“Vedo che amate le chiacchiere più del denaro, messere. Centosettanta pezzi da otto, è la mia ultima offerta.”

 Dinah si lasciò alle spalle senza alcun rimpianto la stanza ove il nostromo Roques aveva preso a russare sonoramente. Il lezzo di sudore e alcol impregnava qualunque stanza della locanda, ma questo non significava che lei ci fosse avvezza: ogniqualvolta veniva trascinata al piano di sopra dall’ennesimo cliente, doveva fare sforzi sovrumani per impedirsi di rimettere il cibo che il padrone le passava giusto per tenerla in carne e renderla più appetibile.
Neanche il bugigattolo concessole da Bernard si salvava dagli odori pregnanti dovuti perlopiù alla scarsa igiene. Dinah, come sempre, si sentì mancare il respiro, mentre la piccola Marianne sembrava non farvi caso: guardò appena la madre entrata in quel momento per poi tornare a occuparsi della sua bambola, confezionata alla buona con avanzi di stoffa; la prostituta li aveva sottratti alle proprie vesti pur di ottenere qualcosa che potesse baloccare la sua bambina.
Marianne era malvestita al pari della sua controparte di pezza, con un abitino rappezzato in vari punti e più corto del dovuto, tanto da metterle allo scoperto le gambette smagrite. Dinah aveva da tempo perduto quel poco di pudore di cui una qualunque donna avrebbe dovuto disporre, ma al vedere sua figlia così palesemente messa in mostra arrossì di vergogna: sapeva fin troppo bene quali progetti Bernard avesse in serbo per la piccola, una volta che fosse cresciuta.
Si era appena voltata verso l’angolo, ove teneva l’unico secchio d’acqua a sua disposizione, quando la figura comparsa sulla soglia la costrinse a gettare un grido. “Zitta, stupida” le intimò Durand afferrandola per un polso; Marianne, spaventata, scoppiò in lacrime e lasciò cadere la sua bambola. Era alla piccola che andava lo sguardo del bucaniere, e Dinah non poté non accorgersene: era uno sguardo attento, avido, quasi che Durand cercasse nei lineamenti della mulatta qualcosa che potesse appartenergli.
“Perché siete qui?” mormorò la prostituta con un filo di voce. Ottenne in risposta un ghigno sbilenco che mise in mostra i denti bruniti del bucaniere. “Diavolo, dov’è finito il tuo acume? Eppure una volta eri molto abile a capire ciò che desideravo.”
“Marianne…”
“…mi appartiene, al pari di te. Fa’ smettere di piangere la marmocchia; vi ho comprate, tutt’e due, e ho intenzione di portarvi via quanto prima da questo porcile.

Dinah avanzò timorosa in quella che d’ora in poi sarebbe stata anche casa sua, con Marianne che le si era abbandonata in seno: la stanchezza aveva avuto la meglio sulla paura e la testolina fattasi pesante aveva finito per posarsi sulla spalla della madre. Durand guidò la negra attraverso l’ingresso, indicandole spiccio una branda ove avrebbe potuto posare la bambina; pareva ansioso di parlare con la donna al più presto, così Dinah si affrettò a mettere a letto Marianne, coprendola con un vecchio lenzuolo che aveva trovato; un gesto di protezione istintivo e mirato a celare per quanto possibile le piccole forme ancora acerbe della mulatta. Non sapeva quali intenzioni avesse Durand.
Il bucaniere l’attendeva dinanzi a un tavolo ove troneggiava un grosso fiasco d’aguardiente. Non fu difficile per lui leggere la paura negli occhi della donna; ne fu alquanto divertito. “La bambina è al sicuro, qui” spiegò. “È mia e certo non l’ho comprata per farne un giocattolo per uomini.”
“Allora perché?”
“Uh! Mi deludi, ancora una volta” commentò il francese, scoppiando in una risata roca che indicava un generoso uso di tabacco. “I negri sono null’altro che stupide bestie, ma tu sei sempre stata sveglia. Che ti piglia? Ti metto forse in imbarazzo?” Le girò attorno fino a fermarsi dietro di lei; le pose con forza la testa nell’incavo del collo, aspirando voluttuoso l’odore della sua pelle color carbone. Alle nari di Dinah giunse prepotente quello del sangue: i bucanieri, prima ancora che uomini di guerra e formidabili tiratori, erano cacciatori abili nella macellazione degli animali da loro uccisi e i cui pezzi venivano cotti nel boucan, specie di graticola da cui tal razza di gente prendeva il nome.
“Hai paura?” le domandò Durand.
“No” fu la sicura risposta. Dopo i primi istanti di confusione, la schiava era tornata padrona di sé: l’uomo che ora le percorreva il corpo con ruvide carezze non era molto diverso dai suoi camerati, dalla gente di Cayona che sperperava i propri averi in mille modi prima di tornare in mare per conquistarne altrettanti. Incerti se Dio avrebbe concesso loro di riveder l’indomani, i filibustieri e i bucanieri dell’Île de la Tortüe vivevano giorno per giorno al massimo delle loro possibilità, inconsapevoli schiavi di quei piaceri che quotidianamente ricercavano.
E talvolta questa dipendenza dalla carne poteva renderli vulnerabili.
Dinah aveva conosciuto Durand anni prima, e sapeva come fosse attratto dal suo corpo. Il tempo era passato anche per lei, avvizzendole la pelle segnata dalle percosse del padrone, ma ciò non diminuiva l’eccitazione crescente del bucaniere che in quel momento le umettava la schiena con la punta della lingua. Le sue mani callose le stringevano l’abito con tale forza da rischiare di strapparlo, ma di questo la schiava fu felice: Bernard la costringeva a vestirsi di bianco per meglio esaltare il colore naturale della sua pelle, più scuro di quello di gran parte degli schiavi. Un contrasto che Dinah odiava dal profondo dell’animo perché le ricordava, anzi le sbatteva in faccia, quella sua diversità che aveva fatto di lei una schiava, un ottuso essere senza identità e dignità.
La donna avrebbe fatto a brandelli con le sue mani la stoffa che le cingeva il corpo, ma sapeva come Durand preferisse spogliarla di persona e lo lasciò fare, come lasciò che se la posasse in grembo una volta calatosi i pantaloni. “Ho tolto te e tua figlia dalle sozze mani di quel verme” le mormorò all’orecchio il bucaniere. “Merito un qualche ringraziamento, non trovi?”
La schiava non rispose, affondando le mani nella capigliatura arruffata dell’uomo. Lo sentiva muoversi sotto di lei rude e insaziabile, e ormai prossimo a venire; si strappò al senso di stordimento che le aveva pervaso le membra, tappandogli la bocca con la propria quando si accorse che stava per cacciare un urlo. “Sveglierete Marianne” gli sussurrò a fior di labbra con inaspettata lucidità. Ottenne in risposta un verso non dissimile dal cupo brontolio d’un animale, sazio e per questo più docile. Durand la rovesciò su un giaciglio nell’angolo, quasi schiacciandola col suo corpo; lei gli si avvinghiò contro e gli circondò il torace robusto con braccia e gambe, con un trasporto che lasciò interdetto lo stesso bucaniere. “Non credevo… ti fossi mancato…” ansimò l’uomo.
Ancora una volta Dinah tacque: Durand non poteva capire cosa realmente la spingesse a comportarsi in quel modo; lui non era mai stato uno schiavo, costretto a dipendere da qualcuno fin dalla più tenera età e senza possibilità di difendersi. A dispetto di ciò che si diceva, quelli della sua razza non erano dissimili dai bianchi per sentimenti e ragione; era la condizione forzata di schiavitù a favorire il loro abbruttimento fisico e morale, la loro incapacità a non sentirsi altro che merci, il loro attaccamento a uomini che in qualche modo si mostravano clementi verso di loro, anche di poco. Un asino tirato su a carote anziché a bastonate prenderà a seguire ovunque il suo padrone, anche se volesse condurlo al macello.
Dinah non era priva d’intelligenza ed era stata nel mondo abbastanza a lungo da imparare a comprenderlo, ma convivere con uomini schietti e privi di morale come i filibustieri non l’aveva esonerata da quel senso di dipendenza che raramente l’abbandonava. La donna non aveva mai desiderato libertà o rivalsa, non perché fosse ottusa, ma semplicemente perché tali concetti le erano del tutto ignoti: non li aveva mai provati, né qualcuno gliene aveva parlato.
Raramente Dinah aveva avuto a che fare con persone che non la battessero o comunque limitassero le violenze nei suoi confronti. Durand era una di queste.

Edmond Bernard era un vecchio filibustiere “in pensione”, per così dire. Arricchitosi sotto l’Olonnais e Michel Le Basque, artefici della fortunata presa di Maracaibo del 1666, si era ritirato a vita privata mettendo su una locanda, una delle tante lì a Cayona. Bernard, al pari dei suoi vecchi colleghi, vestiva con abiti sfarzosi e vivaci, frutto di svariate rapine, e spendeva subito gran parte dei suoi guadagni, escluso il necessario per mandare avanti la baracca. L’unico oggetto che ancora conservava era un orologio da tasca, una rarità per quell’epoca: a giudicare dal fregio sulla cassa doveva essere appartenuto a qualche riccone.
Dinah era analfabeta, come naturale per una della sua condizione, ma le era stato insegnato a riconoscere i numeri affinché i clienti non l’ingannassero circa le tariffe. Dunque non era difficile per lei distinguere le cifre sul quadrante di quella piccola meraviglia, che spesso Bernard esibiva con orgoglio dinanzi ai suoi clienti.
Tre anni prima, Durand serviva come bucaniere su un vascello di infima importanza, pur desiderando combattere al soldo di capitani della risma di de Grammont o di de Graaf. Dopo aver passato mesi e mesi sul mare ove poteva contentarsi solo di mozzi piacenti o, alla meno peggio, di vecchie schiave malandate, era naturale che desiderasse sfogare i suoi istinti su bocconi più appetibili. Il bucaniere conosceva Bernard, anche se non si era mai recato nel suo regno; Dinah l'aveva visto entrare per la prima volta nella locanda in un’afosa serata di luglio, mentre era occupata a servire ai tavoli, con le mani di molteplici avventori che le carezzavano i seni scoperti.
Durand l'aveva guardata di sottecchi per un po’, prima di afferrarla per un polso e trascinarsela al piano di sopra; al contrario di molti suoi camerati che sbrigavano i loro servizi negli angoli più bui del locale, il bucaniere preferiva la tranquillità di una camera chiusa e la comodità di un letto, quantunque pieno di cimici. Dinah non era bella né affascinante con quei lineamenti marcati tipici della sua razza, i grandi occhi umidi e spauriti e i fianchi larghi, ma Durand non desiderava appagare i suoi occhi, bensì i suoi appetiti.
Dopo quella prima sera aveva preso a recarsi nella locanda di Bernard a giorni alterni, con una regolarità tale da lasciar stupefatta la diretta interessata: non appena Durand si presentava chiedendo di lei, Dinah sapeva che, sull’orologio del padrone, l’unica lancetta si era appena posata sull’otto. Era lo stesso Bernard a controllare, stupendosi a sua volta di quell’insolita puntualità mai riscontrata nemmeno nei clienti più affezionati.
Durand soleva vestirsi delle pelli degli animali che lui stesso uccideva e macellava; una sorta di divisa che indicava il suo essere bucaniere e che portava odori forti e pregnanti con cui presto Dinah ebbe familiarità. All’ora dei loro incontri l’oscurità era sovrana a Cayona e Bernard, che come tutti gli avidi era anche avaro, soleva risparmiare sull’illuminazione; per questo la schiava, nei primi tempi, non sarebbe stata in grado di descrivere con esattezza l’uomo cui si concedeva un giorno sì e uno no.
Alla fioca luce delle candele, Dinah però poteva distinguere il colorito bruno della sua pelle, cosa che istintivamente le impediva di odiarlo del tutto: la donna aveva avuto a che fare fin troppo spesso con uomini grassi e unti, vogliosi e violenti, il cui colorito pallido le era rimasto impresso a fuoco nella memoria; un bianco nauseante che aveva imparato a detestare con tutte le sue forze, e che era diventato la sua ossessione.
Bernard sapeva dei crucci della sua schiava, che potevano essere fonte di fastidi per lui; avrebbe certo convinto Dinah a dimenticarli, magari servendosi della sua frusta, se Durand non avesse espresso il desiderio di avere quella donna tutta per sé, a costo di pagare di più i suoi servizi: era abbastanza ricco, il lavoro di bucaniere gli fruttava bene, e poteva permettersi di soddisfare quel suo capriccio. D’altronde non era la prima volta che mostrava un attaccamento quasi morboso a ciò che più eccitava i suoi sensi, ed era inviso a molti Fratelli della Costa proprio per il suo egoismo.
Dinah si era subito accorta di questo dagli sguardi che Durand le riservava, come se la ritenesse una sua proprietà, e dalla sua ansia di possederla tutta a ogni rapporto, ma lei non ne aveva paura: l’uomo la prendeva con forza e passione ma mai le aveva usato vera violenza, anzi, il suo attaccamento la proteggeva da altri clienti che più d’una volta le avevano fatto del male. E lei voleva approfittarne quanto più possibile.
Non poté non rammaricarsi quando Durand partì per una missione che si prospettava più lunga delle solite che lo tenevano lontano dalla Tortüe per alcuni mesi. Difatti non lo vide per un tempo molto più lungo; in paese si diceva che si fosse fermato a Port Royal o a Curaçao, altri sostenevano che fosse morto. Dinah non ne seppe mai abbastanza, ma non lo pianse mai: in fondo non l’amava, sebbene fosse per lei fonte di protezione.
Marianne nacque in quel periodo. Per la schiava non si trattava del primo parto ma negli altri casi i bambini le erano stati strappati alla nascita da Bernard; lei mai si era opposta, consapevole della sorte sfortunata che avevano i figli degli schiavi e lei stessa aveva subito da bambina. Ma nei confronti di Marianne, piccola bastarda di un bucaniere, il padrone mostrò di avere un atteggiamento ben diverso: forse, consapevole della scomparsa di Durand, temeva che Dinah tentasse la fuga perché ormai priva di protettore, e voleva tenersela buona; oppure sperava che la bambina, tempo un po’ di anni, gli avrebbe fruttato dei generosi guadagni quando ormai la madre gliene portava sempre meno. Fatto sta che non fece nulla per portarla via e lasciò che Dinah la tenesse con sé.
Certo non s’aspettava che Durand, dopo tre anni senza aver fatto saper nulla di sè, sarebbe tornato per reclamarle entrambe.
E ora Dinah era lì, stesa su un giaciglio a porgere il collo all’uomo che l’aveva comprata e fatta sua, che le sussurrava all’orecchio parole ansimanti e incomprensibili, un misto di francese e inglese che i bucanieri parlavano tra loro. La schiava sapeva come, a letto, gli uomini rivelassero insoliti aspetti del proprio essere: sopra di lei Durand muoveva i fianchi con una scioltezza inimmaginabile in un uomo dalle forme tozze e spigolose; a Dinah pareva che tra le sue braccia vi fosse un grosso felino, che le soffiava sul collo e borbottava soddisfatto a ogni carezza.
La carnagione cotta dal sole del bucaniere, a confronto con quella della schiava, sembrava tornar nuovamente bianca, e per un attimo lei si irrigidì, conscia che in fondo quell’uomo non era poi diverso dagli altri suoi vecchi clienti: restava un avido ladro, un assassino, uno schiavista.
E lei era uno dei suoi piaceri. Per quanto sarebbe durato?
“Che hai, mh?” mormorò Durand, giocando quasi pensieroso coi capezzoli di lei; i capelli scuri e arruffati solleticavano la pelle nuda di Dinah, ma lei non vi badò. “Cosa volete farne, di me e Marianne?” chiese: aveva dinanzi il padrone, il responsabile della sorte sua e di sua figlia, null’altro.
Il bucaniere sbuffò prima di rotolare al suo fianco: era nudo solo dal torso in giù, le pudenda ben in evidenza. Gli occhi scuri, in parte coperti dai capelli, parevano ridere. “La marmocchia è negra per metà, ma il mio sangue scorre nelle sue vene” spiegò brevemente.
“Allora...”
 “L’ultima cosa che voglio è che Bernard o chiunque altro si arricchisca con qualcosa che mi appartiene di diritto; finché sarò vivo, quella bambina resterà sotto di me. Quanto a te” aggiunse Durand rivolgendosi alla donna, “continuerai a occuparti di lei; sei sua madre, in fondo.”
Dinah abbassò il capo: non s’aspettava nulla di più da un uomo della risma di Jérôme Durand; non era affatto cambiato rispetto a tre anni prima, ma l’importante era che il suo egoismo fosse di protezione per lei e la piccola.
Nella casa fattasi d’un tratto silenziosa, si diffuse un pianto sommesso. “Maman!” chiamò una vocina acuta e sottile.
“Che aspetti?” borbottò il bucaniere, tirando su la schiava. “C’è qualcuno che ti reclama. Va’, prima che i suoi strilli mi assordino le orecchie.” Dinah annuì e raccolse la coperta sotto di lei per ammantarsi, quando l’uomo le alzò con forza il mento per baciarla ancora. “Non invecchiar troppo presto” lo sentì mormorare, prima che la lasciasse andare.

*


In quei giorni a Cayona regnavano un fermento e un’eccitazione che, a parere dei veterani della filibusta, non si vedevano dai tempi dell’Olonnais; per le strade, nelle taverne e nei bordelli tutti i discorsi vertevano su un unico argomento: il capitano Michel de Grammont, già famoso per alcune sue spedizioni fruttuose, progettava l’ardita conquista di una delle più ricche colonie della Nuova Spagna, e che fino ad allora era rimasta inviolata.
“Veracruz fa gola a molti dei nostri” non faceva che ripetere Durand a casa. “E de Grammont non è uomo da imbarcarsi in una tale spedizione senza averla progettata con cura; se l’impresa andrà in porto, diverremo ricchissimi.” Dinah, pur affaccendata nei lavori domestici e nelle cure verso Marianne, non si perdeva una sola parola di quei discorsi: sapeva come il bucaniere fosse ansioso di imbarcarsi, mai sazio delle ricchezze che gli altri viaggi per mare gli fruttavano. Ma questa volta non si trattava di abbordare un galeone spagnolo: le fortificazioni di Veracruz, almeno a quanto dicevano le voci, erano immense e il forte di San Juan de Ulùa era lo scoglio su cui i legni corsari rischiavano di frantumarsi.
Alla schiava poco importava della sorte degli altri filibustieri, anzi: più bianchi finivano in fondo al mare, tanto meglio per quelli della sua gente. Ma se Durand fosse caduto in battaglia, lei e soprattutto sua figlia sarebbero state nuovamente in balìa di uomini avidi e privi di scrupoli.
Per questo, quando il giorno della partenza accompagnò il suo uomo e padrone al porto, tenne sempre gli occhi bassi, stringendosi convulsamente Marianne al seno. Attorno a lei vi era un clamore assordante, una torma di uomini e donne, schiavi negri e indigeni che gridavano, si spingevano gli uni con gli altri, o semplicemente guardavano i legni ancorati in procinto di partire.
Durand aveva molte cose cui pensare, quel giorno, ma non poté non accorgersi della preoccupazione che animava il viso della sua schiava. Sospirò e la spinse lontano dalla folla. “Prendi” le disse, mettendole bruscamente in mano un foglio su cui erano vergate poche righe. “Le parole volano e le precauzioni non sono mai abbastanza. Qui vi è scritto che, qualora morissi, tutte le mie proprietà passerebbero all’uomo con cui ero affratellato.” Il bucaniere sospirò ancora. “Fabien è l’unico di cui mi fidi davvero; terrà te e la bambina con lui senza che alcuno possa accampare diritti su di voi.”
Dinah conosceva Fabien Dubois: magrissimo, cosa strana per un filibustiere, con occhi azzurri e vivaci, veniva sovente a casa di Durand, di cui era amico, per scambiare due parole o bere un bicchiere insieme; poco tempo prima aveva perso una gamba che però gli aveva fruttato un generoso compenso, e ora viveva mandando avanti una piccola piantagione di tabacco. Dinah, pur continuando a disprezzare e temere gli uomini bianchi, sapeva di potersi fidare: l’anno prima quell’uomo aveva preso in moglie una schiava negra resa libera che certo l’avrebbe aiutata. Inoltre Dubois teneva a Durand, suo compagno di lotte e compare d’anello, e avrebbe considerato la violazione delle proprietà dell’amico un’offesa alla sua memoria.
Dinah infilò il prezioso foglio sotto la veste. “Vedi di non perderlo” borbottò l’uomo; a giudicare dall’insistenza con cui alcuni lo chiamavano, era giunta l’ora di andare. Solo quando si fu allontanato la schiava osò alzare gli occhi: davanti a lei era ben visibile il profilo di un brigantino, carenato di fresco e pronto a salpare; ritto sul ponte di comando, il capitano Laurens Cornelius de Graaf gridava ordini ai marinai a tiro di voce.
La donna decise che era giunto anche per lei il momento di allontanarsi: incurante di ciò che le accadeva intorno, si fece largo tra la folla con Marianne che le stringeva il collo con le braccine sottili. Ciò che le avrebbe permesso di continuare a vivere con una certa tranquillità era lì, tra i suoi seni; quello importava e null’altro.
Si era ai primi di marzo del 1683. Salutata da una folla acclamante, la piccola squadra di velieri salpò diretta verso l’isola di Roatàn, al largo delle coste dell’Honduras, dove l’intera flotta partecipante alla spedizione di Veracruz si sarebbe riunita.
Dinah sospirò appena prima di decidersi a voltarsi indietro, i suoi occhi che cercavano la familiare figura ritta dietro la forcella che reggeva il fucile, lì, a prua del brigantino di de Graaf. In attesa, forse, di un semplice gesto di saluto che mai sarebbe arrivato.

   
 
Leggi le 16 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Satomi