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Autore: morgana85    28/01/2011    7 recensioni
In un passato dove il nome ha il potere di vincolare a sé il Destino di due persone, un ragazzo e una ragazza dovranno fare i conti con la sorte prima di trovare il loro posto nel Mondo.
[…] Dreyst adorava i suoi occhi, perché oltre ad essere del suo colore preferito, a suo avviso ‹‹erano luminosi come un raggio di sole imprigionato in una lacrima di fuoco››.
Sorrise soddisfatta, accorgendosi di non essere più la gracile fanciulla che il suo migliore amico aveva scherzosamente definito giunco da pesca. […]
Prima classificata al contest "Colori e...ore!" indetto da emily alexandre
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: =Morgana di Avalon= (morgana85 su EFP)
Titolo: Giunco da pesca
Personaggio scelto: schiava
Colore scelto: giallo
Orario scelto: 00:00
Genere: Romantico, malinconico, sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: One-shot
Introduzione:
In un passato dove il nome ha il potere di vincolare a sé il Destino di due persone, un ragazzo e una ragazza dovranno fare i conti con la sorte prima di trovare il loro posto nel Mondo.
[…] Dreyst adorava i suoi occhi, perché oltre ad essere del suo colore preferito, a suo avviso ‹‹erano luminosi come un raggio di sole imprigionato in una lacrima di fuoco››.
Sorrise soddisfatta, accorgendosi di non essere più la gracile fanciulla che il suo migliore amico aveva scherzosamente definito giunco da pesca. […]
 
 
 
Prima classificata
 
Grammatica e sintassi:19.8/20
Stile e lessico: 20/20
Pertinenza alla traccia: 15/15 punti
Caratterizzazione del personaggio principale: 15/15 punti
Trama: 20/20 punti
Giudizio personale: 10/10 punti
Totale: 99.8/100 Inizio con un appunto: né colore né orario sono stati segnalati in grassetto. Per il resto, se non fosse stato per un banale errore di battitura la tua storia avrebbe preso 100/100, meritatamente. La storia scorre sulle pagine fluida e armoniosa, il lessico è curato, perfetto. Gwennid è descritta a tutto tondo, entriamo nella sua vita, nel suo cuore, nella sua anima, e lo facciamo in maniera così delicata, palpitante, che è difficile non rimanerne ammaliati. Una storia perfetta sotto ogni punto di vista e per questo non posso che ringraziarti! Bravissima! Bravissima davvero!
 
 
 
 
 
 
 

 ~Giunco da pesca
 

Nonostante il freddo chiarore della luna e la lampada ad olio non fossero sufficienti ad illuminare completamente la stanza, riusciva a distinguere senza fatica il suo riflesso nel grande specchio a figura intera. L’immagine che la superficie d’argento le restituiva non cambiava mai molto, eppure era ogni volta diversa. Notò il seno morbido che, seppur non abbondante, aveva acquisito una rotondità che la inorgogliva. E i fianchi stavano abbandonando la spigolosità dell’adolescenza, lasciando spazio ad una sinuosità che la rendeva più femminile. I capelli castani dai riflessi rosso scuro si erano allungati in soffici onde, perdendo l’aspetto arruffato che avevano quando era bambina. Sapeva di non possedere una bellezza sfolgorante – era bassa e minuta, le gambe troppo magre – ma il contrasto tra la sua carnagione chiara come alabastro rosato e i suoi capelli scuri era piacevole. E lo strano colore dei suoi occhi la rendeva affascinante.
Tra lunghe ciglia scure, splendevano iridi gialle, dalle sfumature dell’ambra e del topazio. Ne andava fiera, perché erano una particolarità rara che in qualche modo la distingueva. Dreyst adorava i suoi occhi, perché oltre ad essere del suo colore preferito, a suo avviso ‹‹erano luminosi come un raggio di sole imprigionato in una lacrima di fuoco››.
Sorrise soddisfatta, accorgendosi di non essere più la gracile fanciulla che il suo migliore amico aveva scherzosamente definito giunco da pesca.
 
‹‹Gwennid, fermati!››.
‹‹Prendimi se ci riesci!››. Le parole si persero in una risata, mentre continuava a correre. Avvertiva il terreno morbido sotto i piedi nudi e l’aria della notte sfiorarle il viso, alleviando la calura del giorno. ‹‹Avanti Dreyst, sbrigati!››. Fece appena in tempo a raggiungere la piccola radura, prima che due braccia le circondassero la vita, facendole perdere l’equilibrio e rotolare tra l’erba alta e i fiori selvatici. Alla sua risata se ne aggiunse una più profonda e calda, dalle sfumature ancora fanciullesche. ‹‹Sei sempre il solito!›› lo rimproverò scherzosamente, allontanandolo con una spinta.
Alzò gli occhi al cielo, mentre le risate lentamente si spegnevano, sostituite dai suoni della notte e dal lontano rullare dei tamburi. Non c’era una nuvola e l’intera volta celeste somigliava ad uno spesso tappeto blu e le stelle ai suoi ricami.
Mancava poco.
‹‹Adesso vuoi spiegarmi perché mi hai portato qui, buttandomi giù dal letto?››. Dreyst la guardò con un’espressione a metà tra il curioso e il risentito, le mani poggiate sulle ginocchia nel tentativo di riprendere fiato.
‹‹Noi chiamiamo questo momento mezzanotte. Quell’attimo infinito che non appartiene più al vecchio giorno, ma che ancora non fa parte del nuovo. È adesso che si risveglia l’antica magia››.
‹‹Correvi come se il fuoco ti inseguisse. Cosa c’è di così urgente da…››
Lei si mise un dito davanti alle labbra, inducendolo al silenzio. Alzò il braccio verso il cielo, indicando un punto ben preciso. La luna, grande e rotonda, stava lentamente assumendo sfumature che variavano dal giallo, simile al colore dei ranuncoli, ad un intenso rosso, lasciando riverberi violacei tra il buio della notte.
Ogni cosa intorno a loro sembrava immobile, sospesa in quell’istante perfetto dove il confine tra cielo e terra non esisteva. ‹‹Non è stupendo?››.
Vide Dreyst annuire mentre le sedeva accanto, così vicino da poterne percepire il profumo.Vento e sole e muschio. Come poteva accorgersi solo in quel momento di quanto fosse buono? ‹‹Non avevo mai visto un’eclissi di luna. Mia madre dice che in notti come questa può accadere ogni cosa››.
‹‹Ha ragione. Esprimere un desiderio a mezzanotte, durante un’eclissi di luna, quando le Forze del Mondo sono più intense, equivale a stringere una promessa con l’universo››. Socchiuse gli occhi, inspirando a fondo. Una lieve brezza le scompigliò i capelli, portandole odori di terre lontane. ‹‹E’ qualcosa di eterno››.
‹‹Non dovresti essere con le altre sacerdotesse?››. Lei non rispose, sdraiandosi sull’erba e nascondendosi in parte ai suoi occhi. ‹‹Ah, è così?››. Un sorriso maliziosamente divertito gli incurvò le labbra. ‹‹La futura Custode del Tempio fugge per stare con me? Oh, ma questo è un onore troppo grande!›› posò entrambe le mani sul petto, in un gesto teatrale. ‹‹Non ti facevo così audace, giunco da pesca››.
‹‹Quante volte devo dirti di non chiamarmi così!›› ribatté lei, sollevandosi con uno scatto e assalendolo a suon di pizzicotti e solletico.
Rotolarono nuovamente sul terreno umido della prima rugiada notturna. Si fermarono solamente quando si accorsero di non avere più fiato per il troppo ridere– un vivace scampanellio la risata di lei, un suono virile e intenso quella di lui – ritrovandosi sdraiati una sopra l’altro, le gambe intrecciate e i petti che si sfioravano.
Finiva sempre così, ogni volta. Cominciavano con schermaglie infantili per poi immancabilmente trovarsi vicini. E nonostante sapessero quanto fosse sconveniente essere vicini in quel modo, per una vergine sacerdotessa di alto rango e un quasi cavaliere, non se ne curavano. Non avevano ancora trovato un nome per definire il legame che li univa – amicizia, affetto, fratellanza – ma anche quello non era importante. Erano loro, ed erano perfetti.
‹‹Conosci. Il. Mio. Nome›› sottolineò ogni parola premendo il dito contro il suo torace. ‹‹Sei pregato di farne buon uso››.
‹‹D’accordo,Aelardaileen››.
Non fu altro che un sussurro poco più forte del vento, che le accarezzò gli zigomi insieme al fiato caldo di Dreyst. Ma ebbe la stessa eco del rombo di una frana in una valle profonda. Avvertì il corpo irrigidirsi e il sordo battere del cuore rimbombarle nelle orecchie. Registrò solo lontanamente la voce preoccupata di Dreyst, che le chiedeva se andasse tutto bene. Si alzò con gesti impacciati, quasi si fosse scottata, sedendosi sui talloni e lisciando la gonna gialla del vestito, cercando di assumere un aspetto presentabile. Quando una mano le si posò sulla spalla, alzò il viso di scatto ‹‹Come puoi conoscerlo? Come?››.
‹‹Di cosa stai parlando?›› il ragazzo aggrottò la fronte, cercando di capire. ‹‹Gwennid, dimmi cosa succede››.
‹‹Come conosci il mio nome?››
‹‹Ci conosciamo da quando avevo sette anni›› allargò le braccia, sottolineando la banalità della domanda che gli aveva rivolto ‹‹è normale che sappia il tuo nome››.
‹‹No, no, tu non capisci!››. Si passò una mano sul viso, cercando di riportare tranquillità tra i suoi pensieri. ‹‹Quello che hai appena pronunciato è il mio nome celeste. Ogni donna ne possiede uno, solo lei ne è a conoscenza e le appartiene dalla nascita››. La sua voce era remota come quando partecipava ai rituali del Tempio. ‹‹E’ il racconto delle vite che ha trascorso e la visione di quelle che seguiranno. È il solo modo che possiede per ritrovare la sua anima affine››. Strinse i pugni, accartocciando il tessuto tra le dita. ‹‹Solo l’uomo che è destinata ad amare in eterno può pronunciarlo››.
‹‹Questo vuol dire che…››
‹‹No, non è possibile››. Scosse violentemente il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli, che le coprirono il volto. ‹‹Non puoi essere tu. Noi, tu…io…›› le parole le morirono in gola. Sentiva le lacrime pungerle gli occhi, ma trattenne il respiro pur di non piangere. Non aveva mai pianto di fronte a lui. ‹‹Devi promettermi che non lo dirai a nessuno, che lo dimenticherai››.
‹‹Gwennid, io…››
‹‹Promettilo!››. Lo disse con tale veemenza che quasi non riconobbe la propria voce.
Per un attimo, credette di essere sola. Percepiva la presenza di Dreyst, insieme al suo calore e al suo profumo– così intensi – ma il silenzio era così denso e immobile che pensò di essersi semplicemente immaginata ogni cosa. Quando con tocco gentile le mani del ragazzo le sollevarono il viso per costringerla a guardarlo, chiuse gli occhi. ‹‹Guardami››. La sua voce dolce e leggermente roca le solleticò l’udito, convincendola ad obbedirgli. Scontrarsi con quegli occhi blu così intensi – troppo profondi e misteriosi – fu più duro di quanto avesse creduto. ‹‹Va bene, te lo prometto. Non rivelerò mai il tuo nome››. Le sfiorò la guancia con il pollice, cancellando l’immaginaria scia di una lacrima. ‹‹Ma voglio che anche tu mi prometta una cosa››.
Lo guardò come probabilmente non aveva mai fatto. Nonostante avesse solo diciassette primavere, tre più di lei, i lineamenti del viso erano quelli di un giovane uomo, belli e virili. La sua corta zazzera bionda si stava allungando e le spalle erano diventate larghe e possenti. Non era più un bambino. Annuì, cullata dal calore delle sue mani.
‹‹Promettimi che il tuo primo bacio sarà per me››. Le disegnò il contorno delle labbra con le dita. ‹‹Me lo devi, giunco da pesca››. Le sorrise, in una maniera che improvvisamente lei trovò disarmante.
Si, glielo doveva.
 
Una folata di vento più forte delle altre fece spalancare la finestra, facendola sobbalzare. Chiuse in fretta i battenti, mentre un ultimo refolo di aria gelida le faceva ondeggiare i capelli. Lasciò che lo sguardo vagasse indisturbato, scivolando tra le ombre lunghe della notte. Una nuvola passeggera solcò il cielo, mentre il latrato lontano di un cane riecheggiò nel silenzio.
Il suo profilo sul vetro era poco più di una macchia indefinita, dai colori più chiari rispetto allo scenario scuro che lo incorniciava. Il sorriso che aleggiava sulle sue labbra era scomparso, sostituito da un’impalpabile sensazione di vuoto appena sotto il cuore, che le fece tremare il respiro. Si strinse le braccia intorno al petto – pallida e sterile imitazione di un abbraccio – nel vano tentativo di allontanare il freddo che le aveva sfiorato la pelle.
Perché ricordare faceva ancora così male?
A fatica riusciva a rivedere i colori della sua terra, sempre più sbiaditi e meno intensi; rievocare i profumi – erba e bosco e spezie – era ogni volta più difficile. La nostalgia delle persone che amava non era diventata altro che un retrogusto amaro nelle notti in cui la solitudine la travolgeva come la marea d’estate.
Aveva creduto, sperato – povera ingenua – che con il passare dei mesi e poi degli anni, un susseguirsi di giornate sempre uguali, il dolore sordo che il ricordo di Dreyst le provocava si sarebbe lentamente attenuato. E invece era sempre là, in un nodo che le stringeva la gola e trasformava le sue urla in silenzio.
Da quando era entrato a far parte della sua vita, non era più riuscita a separarsene. Non conosceva molto del suo passato prima che giungesse al Tempio, solo che era il giovane figlio di un re, in viaggio per completare il suo addestramento di cavaliere. Lui non ne aveva mai parlato volentieri, e lei non aveva mai insistito. Era diventato tutto per lei: fratello, amico, maestro di spada. E ora non sapeva nemmeno se era vivo, se aveva fatto ritorno alla corte di suo padre, se ancora si ricordava di lei.
L’ultima volta che l’aveva visto, era stata la notte in cui la sua vita era cambiata. Per sempre.
Non aveva ricordi nitidi, solo un intreccio confuso di polvere, fuoco, urla e odore di sangue. Se chiudeva gli occhi, percepiva ancora con chiarezza le mani rudi e callose che l’avevano strappata con forza all’abbraccio terrorizzato di sua madre, trascinandola lungo il corridoio impregnato dall’odore acre del fumo. Il cozzare delle armi contro gli scudi e il sibilo delle frecce avevano accompagnato ogni suo passo, fino alla grande nave dove era stata rinchiusa insieme a decine di altri prigionieri, con polsi e caviglie  incatenati.
Poi non vi era stato altro che buio.
Ben presto aveva perso la cognizione del tempo, giorno e notte non avevano più alcun senso, isolata in una sfera di oscurità e solitudine. Gli unici suoni che avvertiva, oltre lo sciabordio delle onde, erano i singhiozzi del pianto di qualche bambino e i sussurri spaventati delle donne.
Quando aveva nuovamente messo piede a terra, aveva ringraziato tutti gli dèi per averle concesso di vivere – quando aveva dovuto convivere con odore di morte, per giorni – ignara del fatto che ben presto avrebbe solo desiderato morire.
Barattata per una coppia di cavalli, era entrata a far parte della servitù nella splendida dimora di un mercante di stoffe. Ingannata dalla magnificenza di quel luogo, aveva creduto di essere stata fortunata; che in fondo, in un modo o nell’altro, se la sarebbe cavata. Non aveva immaginato che quello che le era sembrato il Paradiso, si sarebbe rivelato in realtà l’antro dell’Inferno.
Da rispettata giovane consacrata agli antichi Misteri, era divenuta una schiava, relegata ai lavori più umilianti e isolata dal resto della servitù perché additata come strega. Aveva scoperto il sapore acido della sconfitta, e solo grazie all’orgoglio aveva mantenuto la propria dignità di fronte ai continui insulti e alle risate di scherno. Lentamente si era adeguata alla sua nuova vita, faticando senza mai lamentarsi, sopportando a denti stretti il dolore della frusta quando le venivano inflitte punizioni per colpe che sapeva di non aver commesso.
Con l’andare del tempo era riuscita a crearsi una propria dimensione, dove ogni emozione era stata accuratamente rinchiusa in un angolo polveroso del cuore – rabbia, paura, sofferenza – per lasciare spazio ad una gelida esistenza, schiava dell’oblio a cui si abbandonava durante le poche ore di sonno che si concedeva ogni notte. L’unica abitudine che aveva mantenuto, era quella di rivolgere uno sguardo alla luna, ogni sera a mezzanotte. In quei momenti sentiva la voce di Dreyst vibrare tra i suoi pensieri, ed era in pace con sé stessa e con il mondo.
Tutto divenne monotono e abituale, finché non aveva dovuto fare i conti con i viscidi desideri del suo padrone. Sempre più spesso la mandava a chiamare, ordinandole di sistemargli le coperte quando si coricava, o di aiutarlo durante la vestizione e godendo del suo imbarazzo nel vederlo nudo.
Aveva visto la lussuria crescere in quello sguardo acuto e crudele, finché non aveva cercato di prendere ciò che bramava fin dall’inizio. Il suo istinto aveva  reagito per lei, facendola lottare come una leonessa ferita, graffiando e mordendo, difendendosi ogni volta che si sentiva minacciata. Le catene che le erano state chiuse attorno alle caviglie dopo l’ennesimo affronto, rendendole difficile ogni movimento, erano state il monito che le avrebbe ricordato come la sua condizione di schiava esigeva obbedienza e adorazione verso il suo padrone.
La sua salvezza era giunta dopo quattro lunghi anni – una lenta agonia che l’aveva consumata – sotto le spoglie di un uomo alto e possente, dalla pelle scura e i lineamenti sensuali. Non le aveva quasi rivolto la parola, mentre la conduceva lontano da quella che era diventata la sua prigione, se non per informarla che era stata venduta ad un nuovo proprietario.
Quando era giunta al castello di Sir Drowest, un giovane cavaliere in missione per conto del padre, era il fantasma di sé stessa. Il viso era scarno e sciupato, il corpo portava i segni delle catene e delle percosse. Mentre le toglievano i pesanti anelli di metallo che le stringevano le caviglie, rivelando lividi bluastri e carne viva, era svenuta per il dolore.
Ricordava di aver dormito per quello che le era sembrato un tempo infinito, brancolando nel buio dei suoi pensieri, credendo di essere morta. Al suo risveglio aveva trovato un’anziana donna, che aveva negli occhi la dolcezza di una madre e nelle mani la delicatezza e le capacità di una guaritrice, che si prese cura di lei. Ogni giorno le cambiava le fasciature e le portava pasti caldi dalle cucine, istruendola su come si svolgeva la vita nel castello e quali sarebbero stati i suoi doveri.
 
‹‹Il padrone ti ha scelta come sua schiava personale›› le annunciò Iselda, mentre spalmava con cura un impiastro di erbe sulla sua schiena martoriata. ‹‹E’ un grande onore, bambina mia! Non ha mai voluto nessuno nelle sue stanze, se non me… Qualcosa in te deve averlo colpito››.
Nonostante non riuscisse a vederlo, era sicura che sul viso dell’anziana donna era comparso il sorriso. ‹‹Si, sono stata fortunata››. Cercò di essere convincente, sorridendo a sua volta. Ma in realtà, quelle parole avevano per lei lo stesso suono di una condanna.
 
Quando si era rimessa completamente, l’aveva mandata a chiamare. Quel pomeriggio, il gigante dalla pelle scura che l’aveva scortata le aveva consegnato un vestito nuovo, di un giallo caldo e luminoso, che ricordava il miele. ‹‹Chiedi a Iselda di aiutarti ad indossarlo. A mezzanotte busserò alla tua porta e ti accompagnerò nella stanza del padrone››.
Aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene e il fiato mozzarsi in gola. Essere chiamata a quell’ora, poteva significare solamente una cosa. Avrebbe dovuto giacere nel letto di uno sconosciuto, assecondando i suoi piaceri, senza avere la forza di impedire che accadesse. Quel poco che rimaneva di lei, di quello che era stata, sarebbe andato perduto.
In silenzio aveva lasciato che Iselda le stringesse i lacci del nuovo abito, dal taglio semplice ma raffinato, e altrettanto silenziosamente aveva percorso i corridoi deserti del castello. Fuori, la luna era alta e luminosa nel cielo, la mezzanotte era vicina. Giunta di fronte alla grande porta di legno massiccio oltre la quale il suo nuovo padrone l’attendeva, il coraggio le era venuto meno. Nonostante non portasse più catene, rimaneva una schiava. E qualunque cosa le avesse chiesto l’uomo che per lei non aveva ancora un volto, avrebbe dovuto obbedire.
Ma le cose non erano andate come aveva pensato. La stanza era vuota, nonostante il camino fosse accesso e un vassoio con una brocca e un piatto di frutta fresca occupasse il basso tavolino accanto al letto. Aveva atteso per ore, passeggiando per la camera e osservando tutto quello che conteneva, senza tuttavia avere l’audacia di toccare qualcosa. Lentamente la paura era scivolata via dal suo corpo, come polvere sollevata da una folata di vento, sostituita da una piacevole tranquillità.
La notte era trascorsa in un alternarsi di ombre e bagliori argentei di stelle, trovandola ancora sveglia accanto alla finestra. Solo quando il sole si era fatto spazio all’orizzonte, invadendo con la sua luce dorata i residui di oscurità, qualcuno era entrato dalla porta secondaria nascosta nella parete all’estremità opposta rispetto a dove si trovava lei.
In un primo momento era rimasta lì, immobile, attendendo solamente di eseguire un ordine. Tremava. Quando il nuovo ospite le si era avvicinato, porgendole un calice di vino speziato, le si era presentato un ragazzo poco più grande di lei, nonostante i suoi occhi rivelassero una saggezza profonda e un’acuta intelligenza. Il suo portamento era elegante e possedeva un fascino a cui era difficile resistere.
Aveva interrotto il silenzio chiedendole di lei, informandosi sulla sua guarigione. La sua voce gentile e dai modi educati l’aveva sorpresa, lasciandola confusa e guardinga. Aveva risposto con riluttanza alle sue domande, muovendo appena il capo o mormorando poche parole. Una volta tornata ai suoi alloggi, si era domandata se tutto quello che aveva vissuto in quello strano incontro era stato solo il frutto di un sogno ad occhi aperti.
Durante le settimane che erano seguite, i loro incontri si erano fatti sempre più frequenti. Ogni volta le veniva consegnato un nuovo abito, ma sempre del medesimo colore. Giallo. Il giallo delle spighe mature, il giallo dell’oro più pregiato, il giallo dei narcisi selvatici. E ogni volta, aspettava con ansia la mezzanotte e il secco bussare di Ussar, il gigante dalla pelle scura.
Trascorreva quelle notti leggendo per lui uno dei libri della sua biblioteca, o suonando l’arpa e intonando antiche canzoni che riaffioravano tra le sue labbra con una facilità sorprendente. Spesso le chiedeva del suo passato, della sua vita prima di diventare una schiava. E lei lo intratteneva con racconti della sua terra, della sua gente, della sua istruzione di sacerdotessa e di ciò che sarebbe dovuta diventare. Con lui aveva fatto risorgere conoscenze che credeva di aver dimenticato, e che aveva scoperto essere semplicemente sepolte oltre quel muro di apatia che aveva eretto per proteggersi dal mondo. Avvertiva uno strano senso di familiarità in tutto quello, come se dopo un lungo viaggio, fosse finalmente giunta a casa. Una piacevole sensazione di appartenenza la coglieva quando gli era vicino, come se riconoscesse il suo calore o il suo profumo. Come se si conoscessero da sempre.
Ben presto si era accorta di non poter più fare a meno di lui. Si era ritrovata a sorridere scioccamente di quei pensieri, che una volta svelati avevano dato un senso a tutto ciò che le percorreva il corpo quando era con lui. Si trascinava tra i piccoli lavori diurni con la frenesia che la notte giungesse in fretta. L’impazienza di rivederlo aveva acceso una nuova luce nei suoi occhi, facendoli splendere come non accadeva da tempo.
Quando Iselda le aveva chiesto se si fosse innamorata di lui, aveva scosso il capo con un sorriso, rispondendole che l’unica cosa che provava nei confronti di Sir Drowest era un’immensa gratitudine. Ma in fondo era consapevole di quanto quelle parole non fossero altro che la menzogna più grande che avesse mai raccontato.
Il bussare sommesso la ricondusse alla realtà. Si guardò un’ultima volta nel grande specchio. L’abito che indossava quella sera era il più bello che avesse mai visto, di seta giallo zafferano e damasco di una tonalità più chiara dello stesso colore. Si intonava perfettamente ai suoi occhi – ora vividi come riflessi di luce sull’acqua – e le illuminava il colorito della pelle. Le lunghe maniche sfioravano quasi il terreno e la gonna cadeva morbida e semplice – un raffinato alternarsi di stoffe pregiate – mentre la sopravveste le disegnava la vita e una cintura finemente cesellata a motivi floreali seguiva la linea sinuosa dei fianchi. Tra i capelli aveva intrecciato un sottile cerchio d’oro impreziosito da cristalli di ambra.
Si sentì bella, come mai prima di allora.
Ussar la stava attendendo rispettosamente sulla porta, come ogni volta, e come sempre le camminò accanto lungo il corridoio rischiarato da torce appese alle pareti. Prima che la lasciasse sola, lei gli rivolse un piccolo inchino e lui le sorrise, piegando leggermente il capo.
La stanza era stranamente vuota. Si concesse qualche istante per osservarla, meravigliandosi di quanto le apparisse familiare. Le piaceva, era calda e accogliente, sembrava racchiudere l’essenza della luce del sole. Le due pareti laterali ospitavano arazzi raffiguranti scene di caccia all’unicorno e danze tra dame e cavalieri. Il grande camino riscaldava l’ambiente, creando con la sua luce soffusa strani arabeschi sul pavimento. Di fronte campeggiava il maestoso letto a baldacchino, le cui coltri erano un intreccio di veli e seta color miele.
Ancora una volta giallo, pensò con un sorriso. Deve essere il suo colore preferito.
Quello che in realtà l’aveva completamente conquistata di quel luogo, era il profumo, che le riempiva i sensi e il cuore. Inspirò a fondo, socchiudendo gli occhi. Ed eccolo lì.
Vento e sole e muschio.
Notò che la grande finestra che dava sul balcone era aperta, lasciando che la brezza autunnale facesse ondeggiare le tende e rinfrescare l’ambiente. Il freddo non era ancora pungente, ma si potevano percepire le prime avvisaglie dell’inverno.
Si avvicinò con passi silenziosi, trovando Sir Drowest appoggiato alla balaustra, avvolto nel suo pesante mantello scuro. Per un attimo, il pensiero di tornare nei suoi alloggi senza disturbarlo le sfiorò la mente. Sembrava concentrato su un pensiero particolarmente intenso.
Quando si accorse della sua presenza le sorrise, porgendole la mano come invito a raggiungerlo. ‹‹Perdonami, non ti ho sentita arrivare››.
‹‹Non dovete giustificarvi con una schiava, signore››.
‹‹Quante volte devo dirti di non chiamarmi così!›› la rimproverò scherzosamente, i pugni chiusi posati sui fianchi. L’ombra opaca che le vide passare negli occhi, rendendoli vacui e distanti, lo fece tornare immediatamente serio. ‹‹Ho detto forse qualcosa di male?››.
Lei scosse il capo, volgendo lo sguardo verso il dolce declivio ai piedi del castello, seguendo la strada che portava alle prime case del villaggio. ‹‹No. È solo che anche io ero solita rivolgere quelle stesse parole ad una persona››. Prese un respiro, assaporando l’odore di pioggia che permeava l’aria. ‹‹Molto tempo fa››. Il silenzio che calò era ovattato come nebbia, interrotto solo ogni tanto dal fruscio di qualche foglia secca. ‹‹Volete…volete che vi legga qualcosa?››. Cercò una scusa qualunque pur di allontanarsi anche solo di qualche passo, sentendosi inspiegabilmente a disagio. Avvertiva una strana agitazione crescerle nel petto, accompagnata da una sconosciuta sensazione che le scorreva sotto la pelle. ‹‹Oppure preferite che suoni per voi?››.
Lui non rispose, posandosi un dito davanti alle labbra. Le indicò un punto nel cielo, dove la luna splendeva fulgida. Aveva uno strano colore giallo che velocemente stava virando verso una sfumatura sempre più densa di rosso. ‹‹E’ la prima eclissi di luna da anni››.
Tremò. E non per il freddo. Si appoggiò alla solida balaustra di pietra grigia, cercando un sostegno e maledicendo le gambe che sembravano non essere più in grado di sorreggerla.
‹‹Dicono che esprimere un desiderio durante un’eclissi di luna, a mezzanotte, equivale a stringere una promessa con l’universo››. Lo aveva appena sussurrato, avvertiva ancora il suo respiro poco dietro l’orecchio. ‹‹Hai già espresso il tuo?››.
‹‹No, mio signore››. Sapeva di non poter sopportare ancora per molto. Il bruciore delle lacrime diventava ogni minuto più intenso, e solo la forza di volontà le impedì di versarne anche una soltanto. Lui non poteva sapere cosa significasse tutto quello per lei. Non poteva saperlo.
‹‹Possibile che tu non abbia ancora capito?›› sbottò all’improvviso Sir Drowest, puntandole un dito contro. ‹‹Dimmi che cosa… ›› allargò le braccia, quasi con rassegnazione. Esalò un profondo respiro, prima di riprendere a parlare, guardandola direttamente negli occhi. ‹‹Che cosa devo fare con te, giunco da pesca?››.
La terra sembrò mancarle sotto i piedi e respirare diventò difficile come nuotare contro corrente in un fiume in piena. ‹‹Come… ma…non puoi essere tu››. Come aveva potuto non riconoscerlo? Ma la risposta era talmente ovvia, che le venne quasi da sorridere. Il ricordo che aveva di Dreyst era quello di un ragazzo, seppur piacevole, che ancora aveva nei lineamenti la fanciullezza. Ma quello che ora le stava di fronte era un uomo nel pieno del suo vigore, bello e attraente.
‹‹Dalla notte in cui ti rapirono, non ho mai smesso di cercarti››. Il sorriso colmo di triste dolcezza che le rivolse le strinse il cuore. ‹‹Avevo paura che ti fosse successo qualcosa di…›› prese a camminare avanti e indietro, forse cercando le giuste parole. ‹‹Sembravi scomparsa nel nulla. Quando un ricco mercante cercò di vendermi una schiava ribelle dagli insoliti occhi gialli, non pensai due volte a pagare la somma di denaro necessaria perché ti cedesse a me››. Le si fermò di fronte, cercando il suo sguardo con il proprio, attingendovi il coraggio per continuare. ‹‹Quando ti condussero qui eri così diversa, che pensai di essermi sbagliato. Ma i tuoi occhi erano sempre gli stessi. Guardarli è stato sufficiente per mettere a tacere ogni dubbio››. Allungò una mano per accarezzarla, ma lei si ritrasse, diffidente. ‹‹Lo sai, ho sempre adorato i tuoi occhi››.
Non riuscì a fare altro che fissarlo, mentre le guance diventavano umide e la vista si faceva via via più sfocata. Ora che gli argini che aveva faticosamente costruito erano stati infranti come castelli di carta, non vi era più alcun motivo per trattenere le lacrime. Lasciò che scivolassero lungo la pelle, dando libero sfogo a tutto quello che per anni aveva trattenuto e soffocato e  cercato di dimenticare. ‹‹Perché hai aspettato così tanto?››.
‹‹Non sono mai riuscito a perdonarmi di non averti protetto››. Si passò una mano tra i capelli, trovando particolare interesse nel fissare la punta dei propri stivali. ‹‹Avevo paura che mi odiassi, che tutto fosse cambiato per te. Quando invece per me è sempre lo stesso Aelardaileen››.
‹‹E’ vero, tutto è cambiato››. Gli si avvicinò, sfiorandogli la guancia con le dita ‹‹Non sono più la bambina che conoscevi un tempo. Ma non per questo vuol dire che abbia smesso di appartenerti››. Sorrise della sua espressione stupita, lasciando che la mano accarezzasse i morbidi capelli biondi, ora lunghi fin quasi alle spalle. ‹‹Sono sempre stata tua, lo sai. Ero io a non averlo capito››.
L’abbraccio con cui la strinse a sé – forte e delicato, come lui, come il suo modo di fare con lei – diede senso ad ogni cosa. Tutto quello che aveva vissuto non era stato altro che il lungo viaggio che infine l’aveva condotta a lui, al suo calore inebriante, alla pace che finalmente le invadeva il corpo e la mente.
‹‹Hai una promessa da mantenere›› gli sussurrò all’orecchio, stringendosi di più contro di lui. Era incredibile quanto le piacesse il contatto dei loro corpi.
Il sorriso che increspò le labbra di Dreyst fu la conferma che non aveva dimenticato. Si sporse appena, sfiorandole il naso con il proprio, i respiri che si rincorrevano e lambivano le loro bocche in maniera così sensuale da renderli impazienti. La baciò, perché quel bacio gli spettava di diritto, perché era sua, ma soprattutto perché lui le apparteneva. Assaporò ogni istante di quel lento accarezzarsi di labbra, assuefatto dal suo profumo – che non aveva mai dimenticato – e dalla dolce arrendevolezza di lei tra le sue braccia. Non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via. Con audacia cercò la lingua con la propria, meravigliandosi di quanto il suo sapore ricordasse il vino speziato e le mele selvatiche della loro terra. Era lei, in ogni sfumatura. Il desiderio che lo incendiò quando la ragazza rispose al suo bacio, con la timidezza dell’inesperienza, lo fece barcollare, mentre le braccia si stringevano attorno alla vita di lei, sollevandola appena.
Doveva allontanarsi, o non sarebbe riuscito a fermarsi.
La sua mano risalì lenta lungo la schiena di lei, intrecciandosi ai lunghi capelli scuri. Vi immerse anche il viso, lasciandosi circondare dall’aroma di fiori d’arancio di cui erano intrisi.
‹‹Non ti ho chiesto di smettere di baciarmi››.
‹‹Ma come siamo diventate esigenti, giunco da pesca››. La sentì sorridere contro la sua guancia, mentre cercava nuovamente le sue labbra. ‹‹Ma ho paura che ti dovrai accontentare per questa sera. Averti così vicina ha uno strano effetto su di me››. Spinse il suo bacino verso di sé, facendole sentire quanto in realtà la desiderasse. ‹‹Ogni cosa a suo tempo››. Cercò di scostarla, perché il suo calore era davvero troppo invitante per poterlo ignorare. Ma lei sembrava intenzionata a non muoversi di un solo centimetro. ‹‹Gwennid, per favore››.
‹‹Mi hai chiesto di esprimere un desiderio, poco fa. Ebbene, anche se la mezzanotte è già trascorsa, non credo che cambierà poi molto››. Posò le mani sul suo petto, in una dolce carezza. ‹‹Voglio appartenerti nell’unico modo in cui non mi è ancora stato possibile››. Spense ogni sua protesta baciandolo a fior di labbra. Quando parlò, le loro bocche si toccavano ancora. ‹‹Ti ho aspettato così tanto››.
Non vi furono più parole, se non quelle sussurrate dai loro occhi che si cercavano in continuazione, come le mani di uno sul corpo dell’altra. Gwennid scoprì quanto fosse piacevole sopportare il peso di Dreyst sopra di sé, e di come non avrebbe voluto essere in nessun altro posto al mondo. Urlò quella notte – di dolore, di gioia, di piacere – e lo fece solo per lui. Di dolore, nonostante fosse stato delicato e premuroso, quando lo accolse nella sua innocenza. Di gioia, perché era suo e sarebbe stato così per sempre. Di piacere, perché lo scorrere della pelle di Dreyst sulla propria, in quel cadenzato dondolio che erano i loro corpi intrecciati, le trasmetteva sensazioni che non avrebbe mai immaginato potessero esistere.
Quando giacquero avvinti, scambiandosi tenere carezze tra le lenzuola che sapevano di loro, lo guardò sorridendo ‹‹Ora dovrai smetterla di chiamarmi con quell’assurdo nomignolo››.
Lui rise, portandola sopra di sé con un unico semplice movimento ‹‹No, credo proprio che rimarrai per sempre il mio adorato giunco da pesca››.

 

  
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