Granelli di un qualcosa senza nome
*
All’interno del
Palazzo, nei dedali infiniti che i numerosi corridoi servivano a creare
incrociandosi tra loro in trasversali armoniose, non era insolito venissero a
formarsi piccoli spiazzi erbosi simili a cortili o giardini segreti anche se
abbandonati all’incuria. Lì dove le tegole spioventi e i tasselli intarsiati ai
lati dei ponticelli parevano sospesi nell’aria e non basare le proprie
fondamenta su qualcosa di solido come la terra morbida, spruzzata del verde
degli arbusti selvatici e dell’acqua paludosa di piccoli stagni ricoperti da
una patina giallo-marrone. Gotel amava quell’architettura un tempo straniera
con tutta l’iniziale ritrosia che le aveva insegnato ad apprezzare quelle forme
estranee ed incomprensibili. La maestosità austera dei tetti ricoperti d’oro,
delle scalinate grondanti rugiada al mattino come prati di marmo e dei pilastri
vermigli, delle statuette brune poste a guardiani protettori negli angoli bui.
Attraversando una piccola veranda a forma di croce, il passo marziale e la
mente rivolta altrove, la sua attenzione venne catturata da un fruscio
innaturale, rumore di passi sul terreno di ghiaia di quel tratto e nuvolette di
fiato che le parvero tanto incandescenti da scaldarle le braccia coperte dal
tessuto delicato del kimono viola.
Si fermò,
rallentando i movimenti a mano a mano che procedeva invece di bloccarli e
mantenne alto il volto, ancorato a quello a pochi metri di distanza. C’era solo
aria a separarli ora, un vuoto cavo, nullo, da riempire a bracciate per raggiungersi.
Poi lui abbassò il cappuccio e ci fu solo la messa a fuoco dei reciproci
sguardi, l’intensità granulosa di cocci di vetro ingoiati a scenderle giù per
l’esofago.
Grattava come
sabbia contro la pelle, pizzicava, pungeva e s’infilava dappertutto. Era il suo
respiro, i suoi occhi quelli che la scrutavano e sembravano perforarla,
arrivare ad osservarla fin dentro l’anima.
Scavato da meno
rughe di quanto gli anni avrebbero dovuto inclementemente marchiarlo, la stessa
resina di querce nello sguardo e onde di mogano intorno alla mandibola.
“Sei
cresciuta” osservò, in un tono pacato che non gli apparteneva più del sorriso
quasi dolce con cui la stava guardando. A quella vista, la figura alta a pochi
passi dal portico, macchia scura nel familiare pastrano nero e nel cortile
macchiato dall’inchiostro argentato che erano i raggi lunari, prematura neve
giunta anzitempo, Gotel strinse forte le dita, il palmo piantato quasi volesse
divenirne parte intorno alla colonnina di legno rosso della balaustra, alla
sommità dei due lati dove s’aprivano i brevi scalini che avrebbe dovuto
percorrere per raggiungerlo.
Se fosse stato questo il suo
desiderio.
Alzò
il mento e gli rivolse un’occhiata sarcastica: “Tu solo invecchiato invece”.
Una
smorfia a pizzicare l’estremità del labbro inferiore in quel viso di cinico
sarcasmo, come se quell’uscita infelice l’avesse infastidito ma al contempo
prendesse atto di un punto a suo sfavore con eleganza arbitraria e signorile.
“Perché
sei tornato?”. Freddezza caustica nella sua richiesta, quasi non le importasse
nulla della risposta che avrebbe ottenuto, ma fosse costretta con cortesia poco
amabile e gentile a porgergliela ugualmente dalle imposizioni formali cui
obbediva con fede cieca da anni.
“Per
te”. Parole sussurrate al vento e trasportate sino a lei dal profumo dolciastro
emanato dalle candele notturne accese nei santuari. Il tuffo al cuore malefico
susseguito a quella confessione indesiderata, l’attimo in cui veniva immerso in
quel lago di veleno mordace che ne imputridiva le pareti muscolose, acido a
martoriare carne tenera, fragile come corolle di fiori sul punto di sbocciare,
strato dopo strato.
“Te
lo chiederò un’altra volta soltanto”. Gli ringhiava contro come un animale
braccato dal cacciatore che lo sta inseguendo da tempo, la stanchezza esausta
ed esasperata con la quale si prende atto dell’idea detestabile lui sia ancora
lì, ad attendere in agguato quello faccia un solo passo falso per catturarlo
tra le sue reti. In trappola. La pazienza del cacciatore, la brama di un uomo,
l’animo della solitudine più cupa. Non lo sentì avvicinarsi a lei, veloce e
impulsivo, prendere una ciocca di capelli tra le dita rugose, anziane di sogni
lasciati incustoditi e intere esistenze infrante in piccole galassie implose
sotto l’epidermide, vecchie come non lo era lo sguardo infido che le scoccò
dall’alto della sua spalla su cui aveva poggiato il mento, appuntito di barba
non fatta. Traditore l’incendio che le divampò sotto pelle, fiamme e calore
bruciante a divorare tutto ciò che incrociassero nel loro percorso di vittoria.
Trattenne il fiato bruscamente e lui affondò la punta del naso fredda nella
massa della capigliatura slegata dei nastri che l’avevano trattenuta,
sfregandola contro il collo, la vena guizzante e nervosa nell’incavo della zona
più morbida dietro l’orecchio.
“Desideravo
sentirti cantare. La tua voce mi è mancata quasi quanto il tuo profumo” confessò
in un’ammissione di colpevolezza accettata nell’antico sapore di cui si
fregiava.
Tipico
di lui renderla vulnerabile nella debolezza incerta creata dalla confusione con
cui la disorientava, la portata di emozioni proibite, reazioni che lei
scagliava con violenza assassina lontano da sé, ma le risalivano contro
strusciandosi e proiettandosi sotto forma di carezze blande e civettuole.
Non
la toccò in altro modo, le mani artigliate nelle braccia che lei aveva
precedentemente incrociato al petto in una morsa crudele. La fronte che le
sfiorava ora la tempia, le labbra ad un soffio di bacio dalle ciglia schiuse
senza osare poggiarvisi sopra. La smorfia di Gotel era così marcata nella linea
della bocca da impedirle di pronunciare qualsiasi parola, sigillata nella
compostezza austera che la demarcava per quel che voleva apparire ad occhio
estraneo. Peccato lui non lo fosse più per lei da un’età che preferiva non
rivangare coi suoi ricordi zeppi di memorie scomode. Non poteva definirsi a
quel modo da un passato ricoperto di polvere nebulosa, dacché un guerriero
della magia aveva trovato nei meandri più celati di quella rocca incantata le
lacrime di una principessa seguendo le tracce del suo canto e ascoltandolo risuonare
in note pure rimbalzate su pareti
dorate, pietre preziose lanciate come sassolini contro le mura che fungevano da
sbarre nella gabbia che l’imprigionavano, delicato uccello dalle doti
sconosciute e qualità rare, di una bellezza smarrita nella sua paura.
L’intensità di uno sguardo di cristallo, dello squarcio intravisto in ogni
ciglia trasformata in cicatrice, delle nocche avvolte con rudezza contro il
petto riverso in avanti in un dolore inarticolato.
Poi
aveva intercettato i suoi occhi umidi e traboccanti, la scia di lacrime sulle
guance graffiate, la bocca dischiusa. Irrazionalmente aveva sperato di non
doverla rivedere mai più; ancora più irrazionalmente aveva pensato sarebbe
stato disposto a farsene carico piuttosto che vederla ripresentarsi su di lei e
avvolgerla con le sue spire, diventando parte degli altri su cui sarebbe
ricaduta, come solo la sofferenza era capace di fare.
Di
quel giorno remoto non era mai riuscito a ricordare altro che acqua, tanta da
coprire e lavar via ogni macchia, ogni peccato o superficie, ma nondimeno senza
riuscire a purificarli in profondità. Il rumore di tante gocce di pioggia ad
infrangersi su pavimenti di roccia come battiti indomati e respiri stroncati e
una cappa d’angoscia straziante che appestava in un miasma indistinto l’aria e
bruciava occhi e polmoni.
Seppe
con certezza assoluta che anche lei stesse ricordando nel momento in cui la
sentì irrigidirsi contro il suo torace, la schiena arcuarsi verso l’alto a
svettare con boria, il turbamento negli occhi farsi più vago ed elusivo. Per
contro lui affondò con maggiore forza i polpastrelli come a scrollarle di dosso
il velo torbido con cui s’appannava volontariamente, affannosa caparbietà
distruttrice. Il capriccio di una donna che intende celare la ragazzina che era
e continua a gridarle dentro le sue speranze schiacciate.
“Perché
sei tornato?” la sentì ripetere. La pacatezza incolore che rendeva reale il
dubbio avesse soltanto immaginato l’impetuosità precedente con la tenacia
dell’illusione che si sgretolava tra falangi impiastricciate di striature color
fango. Assistere all’insabbiamento sfuggente di quell’animo pulsante di vita e
alla conseguente fitta in pieno petto, lì dove le costole non battevano più da
giorni innominabili del rimbombo deprecabile di un organo mutilato. “Te ne ho
già spiegato la ragione” le mormorò contro la guancia. Lei scosse il capo, la
nuca lasciata scoperta nella foga di quel movimento. Il sospiro di lui sgorgò
insieme a un nuovo alito di vento accompagnando le parole successive: “Riservami
almeno il beneficio del dubbio”.
Gotel
strinse con decisione maggiore le braccia sotto il seno, i palmi premuti sui
gomiti. Il respiro di Bähl s’intrecciava fitto a quello della brezza, brace e fuoco
di ghiaccio, contro il viso, i ricci gonfiati sparpagliati sul petto in una
massa inestricabile dai fiori che li avevano ornati e tenuti fermi come
gancetti e forcine.
“La
verità è che questo mio tempo potrebbe star scadendo”. Non ci furono tremori in
lei, ma fu certo di aver intravisto la concessione di un lampo in quelle grigie
nuvole impenetrabili che gli fece sorridere gli occhi.
Quanto?, avrebbe voluto
domandargli, il timore inconfessato le uscisse un singulto spezzato a frenarla.
“Dovrei crederti?” chiese invece in un sussurrio appena percepibile, un sospiro
nella notte tiepida tra i frusci delicati delle tende ariose e il ticchettio di
passi remoti sulla ghiaia dei sentieri, coi sassolini resi lucciole dai
riverberi delle lanterne. Fine sabbia di una clessidra infranta, il contenuto
sparso a ventaglio come gocce lucide di pioggia o brina, luce cinerea infranta,
granelli di polvere.
Ciò che restava immutato del suo
raziocinio, briciole di pazzia.
“Sai
bene non ti mentirei mai”. Le strinse la vita intrecciando le mani a poca
distanza dalle sue, le nocche imbiancate tanto forte era la presa feroce con
cui entrambi le avevano racchiuse sulle proprie. Intuendo la prossima domanda
lui l’anticipò: “Mesi, forse settimane” disse con susseguo. Il sussulto fu
reale stavolta e lei non si diede pena di nasconderlo, forse neppure se n’era
accorta, pensò Bähl. La noncuranza sciolta un poco ai lati delle palpebre a
scomporre il candore immacolato dei tratti col pesante nero pece del trucco,
sfumati quanto bastava perché lui si convincesse di esserne l’artefice. “Per
quale ragione mi dici tutto questo?” diede mostra di una leggerezza spensierata
che nessuno tra i due era vicino al provare in modo autentico.
“Perché
tu sappia che al mio ritorno pretenderò tu canti per me” replicò con serietà
serena e priva di malizia. Le sfiorò con le labbra roventi il lobo, appesantito
da un pendente dai riflessi glauchi, la fragranza speziata a riempirle le
narici. “Non potrai negare l’ultimo desiderio a un morituro”.
Quando
lei ebbe ritrovato la compostezza stava già incamminandosi sotto le travi
traforate della galleria; i capelli ramati strofinavano contro la tunica
all’altezza delle scapole, lasciando petali di fiori al suo passaggio. Bähl sorrise a quello che gli era rimasto incastrato tra le
dita, attorcigliato come per magia intorno all’indice della mano sinistra.
Dietro di lui, sulla colonnina, tra le scaglie del drago con le fauci spalancate
e gli artigli protesi ad arraffare l’invisibile, simili a squame di pesce e
impercettibili per occhio disattento quattro mezzelune ad intaccarne la
superficie scolpita. Graffi che ferivano come su pelle, pulsanti di una
sofferenza che era insieme castigo e delizia. Il sapore di una vittoria carpita
per nembi sollevati, per nulla compatta. Sospiro del cuore e singulto d’amore,
conservati entrambi in spoglie menzognere e sotto ben altro nome.
N/A:
La
mia prima originale, Dio! *__* Non so davvero dove sia riuscita a racimolare
abbastanza coraggio da pubblicarla, ma l’ho fatto e tanto basti. Non si capisce
un tubo naturalmente e questo è degno della sottoscritta, solito modus operandi
irrazionale. Ahimè sì, sono una sconclusionata in qualunque cosa io faccia,
tanto più in ciò che scrivo dunque. Amo i personaggi sopra descritti alla
follia e appartengono ad una storia tanto più complessa ed intricata che è come
se qui avessi mostrato solo un granello infinitesimale di sabbia rispetto al
deserto che serve a comporre. Sabbia… Appena ho letto il vecchio prompt (sabbia e granello) mi è
venuto in mente lui, Bähl.
La voce graffiante e roca, il respiro rovente, le mani da vecchio. E
naturalmente accanto immancabile è lei, Gotel. Un nome assolutamente
provvisorio, ma che penso rispecchi la sua personalità altezzosa e obbediente,
ma non servile. Gotel che nonostante l’omonimia nulla ha in comune con la
strega di Rapunzel se non forse la determinazione morbosa. Gotel che reprime
ciò che sente, che nasconde il cuore che invece ha risvegliato in Bähl. Spero
di avere presto abbastanza coraggio da pubblicare la vera e propria creatura,
tutti i personaggi e la vicenda di cui tra l’altro loro non sono veri e propri
protagonisti, ma comunque rappresentano fino ad ora i miei preferiti in
assoluto. Non sono ancora riuscita a comprendere nella mia mente quale sia il
loro legame, come io possa elaborare a parole l’intreccio di emozioni
ingarbugliate che li accomunano. Senza contare poi la differenza d’età, più o
meno dieci anni, che io avevo immaginato li separasse tra le tante altre cose.
Ambientata in un palazzo cinese in un mondo che è questo e forse non lo è. Che
spiegazione facile da capire, nevvero? Un saluto affettuoso e caloroso a tutti,
ché da me si congela o forse è la sottoscritta a percepirlo più degli altri in
quanto freddolosa. A presto spero con “quello vero e proprio” ;)!