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Autore: Ruta    29/01/2011    2 recensioni
“Sei cresciuta” osservò, in un tono pacato che non gli apparteneva più del sorriso quasi dolce con cui la stava guardando. A quella vista, la figura alta a pochi passi dal portico, macchia scura nel familiare pastrano nero e nel cortile macchiato dall’inchiostro argentato che erano i raggi lunari, prematura neve giunta anzitempo, Gotel strinse forte le dita, il palmo piantato quasi volesse divenirne parte intorno alla colonnina di legno rosso della balaustra, alla sommità dei due lati dove s’aprivano i brevi scalini che avrebbe dovuto percorrere per raggiungerlo.
Se fosse stato questo il suo desiderio.
Alzò il mento e gli rivolse un’occhiata sarcastica: “Tu solo invecchiato invece”.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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granelli

 

Granelli di un qualcosa senza nome

 

 

*

 

 

 

All’interno del Palazzo, nei dedali infiniti che i numerosi corridoi servivano a creare incrociandosi tra loro in trasversali armoniose, non era insolito venissero a formarsi piccoli spiazzi erbosi simili a cortili o giardini segreti anche se abbandonati all’incuria. Lì dove le tegole spioventi e i tasselli intarsiati ai lati dei ponticelli parevano sospesi nell’aria e non basare le proprie fondamenta su qualcosa di solido come la terra morbida, spruzzata del verde degli arbusti selvatici e dell’acqua paludosa di piccoli stagni ricoperti da una patina giallo-marrone. Gotel amava quell’architettura un tempo straniera con tutta l’iniziale ritrosia che le aveva insegnato ad apprezzare quelle forme estranee ed incomprensibili. La maestosità austera dei tetti ricoperti d’oro, delle scalinate grondanti rugiada al mattino come prati di marmo e dei pilastri vermigli, delle statuette brune poste a guardiani protettori negli angoli bui. Attraversando una piccola veranda a forma di croce, il passo marziale e la mente rivolta altrove, la sua attenzione venne catturata da un fruscio innaturale, rumore di passi sul terreno di ghiaia di quel tratto e nuvolette di fiato che le parvero tanto incandescenti da scaldarle le braccia coperte dal tessuto delicato del kimono viola.

Si fermò, rallentando i movimenti a mano a mano che procedeva invece di bloccarli e mantenne alto il volto, ancorato a quello a pochi metri di distanza. C’era solo aria a separarli ora, un vuoto cavo, nullo, da riempire a bracciate per raggiungersi. Poi lui abbassò il cappuccio e ci fu solo la messa a fuoco dei reciproci sguardi, l’intensità granulosa di cocci di vetro ingoiati a scenderle giù per l’esofago.               

Grattava come sabbia contro la pelle, pizzicava, pungeva e s’infilava dappertutto. Era il suo respiro, i suoi occhi quelli che la scrutavano e sembravano perforarla, arrivare ad osservarla fin dentro l’anima.

Scavato da meno rughe di quanto gli anni avrebbero dovuto inclementemente marchiarlo, la stessa resina di querce nello sguardo e onde di mogano intorno alla mandibola. 

“Sei cresciuta” osservò, in un tono pacato che non gli apparteneva più del sorriso quasi dolce con cui la stava guardando. A quella vista, la figura alta a pochi passi dal portico, macchia scura nel familiare pastrano nero e nel cortile macchiato dall’inchiostro argentato che erano i raggi lunari, prematura neve giunta anzitempo, Gotel strinse forte le dita, il palmo piantato quasi volesse divenirne parte intorno alla colonnina di legno rosso della balaustra, alla sommità dei due lati dove s’aprivano i brevi scalini che avrebbe dovuto percorrere per raggiungerlo.

Se fosse stato questo il suo desiderio.   

Alzò il mento e gli rivolse un’occhiata sarcastica: “Tu solo invecchiato invece”.

Una smorfia a pizzicare l’estremità del labbro inferiore in quel viso di cinico sarcasmo, come se quell’uscita infelice l’avesse infastidito ma al contempo prendesse atto di un punto a suo sfavore con eleganza arbitraria e signorile.

“Perché sei tornato?”. Freddezza caustica nella sua richiesta, quasi non le importasse nulla della risposta che avrebbe ottenuto, ma fosse costretta con cortesia poco amabile e gentile a porgergliela ugualmente dalle imposizioni formali cui obbediva con fede cieca da anni.

“Per te”. Parole sussurrate al vento e trasportate sino a lei dal profumo dolciastro emanato dalle candele notturne accese nei santuari. Il tuffo al cuore malefico susseguito a quella confessione indesiderata, l’attimo in cui veniva immerso in quel lago di veleno mordace che ne imputridiva le pareti muscolose, acido a martoriare carne tenera, fragile come corolle di fiori sul punto di sbocciare, strato dopo strato.

“Te lo chiederò un’altra volta soltanto”. Gli ringhiava contro come un animale braccato dal cacciatore che lo sta inseguendo da tempo, la stanchezza esausta ed esasperata con la quale si prende atto dell’idea detestabile lui sia ancora lì, ad attendere in agguato quello faccia un solo passo falso per catturarlo tra le sue reti. In trappola. La pazienza del cacciatore, la brama di un uomo, l’animo della solitudine più cupa. Non lo sentì avvicinarsi a lei, veloce e impulsivo, prendere una ciocca di capelli tra le dita rugose, anziane di sogni lasciati incustoditi e intere esistenze infrante in piccole galassie implose sotto l’epidermide, vecchie come non lo era lo sguardo infido che le scoccò dall’alto della sua spalla su cui aveva poggiato il mento, appuntito di barba non fatta. Traditore l’incendio che le divampò sotto pelle, fiamme e calore bruciante a divorare tutto ciò che incrociassero nel loro percorso di vittoria. Trattenne il fiato bruscamente e lui affondò la punta del naso fredda nella massa della capigliatura slegata dei nastri che l’avevano trattenuta, sfregandola contro il collo, la vena guizzante e nervosa nell’incavo della zona più morbida dietro l’orecchio.

“Desideravo sentirti cantare. La tua voce mi è mancata quasi quanto il tuo profumo” confessò in un’ammissione di colpevolezza accettata nell’antico sapore di cui si fregiava.

Tipico di lui renderla vulnerabile nella debolezza incerta creata dalla confusione con cui la disorientava, la portata di emozioni proibite, reazioni che lei scagliava con violenza assassina lontano da sé, ma le risalivano contro strusciandosi e proiettandosi sotto forma di carezze blande e civettuole. 

Non la toccò in altro modo, le mani artigliate nelle braccia che lei aveva precedentemente incrociato al petto in una morsa crudele. La fronte che le sfiorava ora la tempia, le labbra ad un soffio di bacio dalle ciglia schiuse senza osare poggiarvisi sopra. La smorfia di Gotel era così marcata nella linea della bocca da impedirle di pronunciare qualsiasi parola, sigillata nella compostezza austera che la demarcava per quel che voleva apparire ad occhio estraneo. Peccato lui non lo fosse più per lei da un’età che preferiva non rivangare coi suoi ricordi zeppi di memorie scomode. Non poteva definirsi a quel modo da un passato ricoperto di polvere nebulosa, dacché un guerriero della magia aveva trovato nei meandri più celati di quella rocca incantata le lacrime di una principessa seguendo le tracce del suo canto e ascoltandolo risuonare in note pure rimbalzate  su pareti dorate, pietre preziose lanciate come sassolini contro le mura che fungevano da sbarre nella gabbia che l’imprigionavano, delicato uccello dalle doti sconosciute e qualità rare, di una bellezza smarrita nella sua paura. L’intensità di uno sguardo di cristallo, dello squarcio intravisto in ogni ciglia trasformata in cicatrice, delle nocche avvolte con rudezza contro il petto riverso in avanti in un dolore inarticolato.

Poi aveva intercettato i suoi occhi umidi e traboccanti, la scia di lacrime sulle guance graffiate, la bocca dischiusa. Irrazionalmente aveva sperato di non doverla rivedere mai più; ancora più irrazionalmente aveva pensato sarebbe stato disposto a farsene carico piuttosto che vederla ripresentarsi su di lei e avvolgerla con le sue spire, diventando parte degli altri su cui sarebbe ricaduta, come solo la sofferenza era capace di fare.

Di quel giorno remoto non era mai riuscito a ricordare altro che acqua, tanta da coprire e lavar via ogni macchia, ogni peccato o superficie, ma nondimeno senza riuscire a purificarli in profondità. Il rumore di tante gocce di pioggia ad infrangersi su pavimenti di roccia come battiti indomati e respiri stroncati e una cappa d’angoscia straziante che appestava in un miasma indistinto l’aria e bruciava occhi e polmoni.

Seppe con certezza assoluta che anche lei stesse ricordando nel momento in cui la sentì irrigidirsi contro il suo torace, la schiena arcuarsi verso l’alto a svettare con boria, il turbamento negli occhi farsi più vago ed elusivo. Per contro lui affondò con maggiore forza i polpastrelli come a scrollarle di dosso il velo torbido con cui s’appannava volontariamente, affannosa caparbietà distruttrice. Il capriccio di una donna che intende celare la ragazzina che era e continua a gridarle dentro le sue speranze schiacciate.

“Perché sei tornato?” la sentì ripetere. La pacatezza incolore che rendeva reale il dubbio avesse soltanto immaginato l’impetuosità precedente con la tenacia dell’illusione che si sgretolava tra falangi impiastricciate di striature color fango. Assistere all’insabbiamento sfuggente di quell’animo pulsante di vita e alla conseguente fitta in pieno petto, lì dove le costole non battevano più da giorni innominabili del rimbombo deprecabile di un organo mutilato. “Te ne ho già spiegato la ragione” le mormorò contro la guancia. Lei scosse il capo, la nuca lasciata scoperta nella foga di quel movimento. Il sospiro di lui sgorgò insieme a un nuovo alito di vento accompagnando le parole successive: “Riservami almeno il beneficio del dubbio”.

Gotel strinse con decisione maggiore le braccia sotto il seno, i palmi premuti sui gomiti. Il respiro di Bähl s’intrecciava fitto a quello della brezza, brace e fuoco di ghiaccio, contro il viso, i ricci gonfiati sparpagliati sul petto in una massa inestricabile dai fiori che li avevano ornati e tenuti fermi come gancetti e forcine.

“La verità è che questo mio tempo potrebbe star scadendo”. Non ci furono tremori in lei, ma fu certo di aver intravisto la concessione di un lampo in quelle grigie nuvole impenetrabili che gli fece sorridere gli occhi.

Quanto?, avrebbe voluto domandargli, il timore inconfessato le uscisse un singulto spezzato a frenarla. “Dovrei crederti?” chiese invece in un sussurrio appena percepibile, un sospiro nella notte tiepida tra i frusci delicati delle tende ariose e il ticchettio di passi remoti sulla ghiaia dei sentieri, coi sassolini resi lucciole dai riverberi delle lanterne. Fine sabbia di una clessidra infranta, il contenuto sparso a ventaglio come gocce lucide di pioggia o brina, luce cinerea infranta, granelli di polvere.

Ciò che restava immutato del suo raziocinio, briciole di pazzia.  

“Sai bene non ti mentirei mai”. Le strinse la vita intrecciando le mani a poca distanza dalle sue, le nocche imbiancate tanto forte era la presa feroce con cui entrambi le avevano racchiuse sulle proprie. Intuendo la prossima domanda lui l’anticipò: “Mesi, forse settimane” disse con susseguo. Il sussulto fu reale stavolta e lei non si diede pena di nasconderlo, forse neppure se n’era accorta, pensò Bähl. La noncuranza sciolta un poco ai lati delle palpebre a scomporre il candore immacolato dei tratti col pesante nero pece del trucco, sfumati quanto bastava perché lui si convincesse di esserne l’artefice. “Per quale ragione mi dici tutto questo?” diede mostra di una leggerezza spensierata che nessuno tra i due era vicino al provare in modo autentico.

“Perché tu sappia che al mio ritorno pretenderò tu canti per me” replicò con serietà serena e priva di malizia. Le sfiorò con le labbra roventi il lobo, appesantito da un pendente dai riflessi glauchi, la fragranza speziata a riempirle le narici. “Non potrai negare l’ultimo desiderio a un morituro”.

Quando lei ebbe ritrovato la compostezza stava già incamminandosi sotto le travi traforate della galleria; i capelli ramati strofinavano contro la tunica all’altezza delle scapole, lasciando petali di fiori al suo passaggio. Bähl sorrise a quello che gli era rimasto incastrato tra le dita, attorcigliato come per magia intorno all’indice della mano sinistra. Dietro di lui, sulla colonnina, tra le scaglie del drago con le fauci spalancate e gli artigli protesi ad arraffare l’invisibile, simili a squame di pesce e impercettibili per occhio disattento quattro mezzelune ad intaccarne la superficie scolpita. Graffi che ferivano come su pelle, pulsanti di una sofferenza che era insieme castigo e delizia. Il sapore di una vittoria carpita per nembi sollevati, per nulla compatta. Sospiro del cuore e singulto d’amore, conservati entrambi in spoglie menzognere e sotto ben altro nome.    

 

 


 

N/A:

La mia prima originale, Dio! *__* Non so davvero dove sia riuscita a racimolare abbastanza coraggio da pubblicarla, ma l’ho fatto e tanto basti. Non si capisce un tubo naturalmente e questo è degno della sottoscritta, solito modus operandi irrazionale. Ahimè sì, sono una sconclusionata in qualunque cosa io faccia, tanto più in ciò che scrivo dunque. Amo i personaggi sopra descritti alla follia e appartengono ad una storia tanto più complessa ed intricata che è come se qui avessi mostrato solo un granello infinitesimale di sabbia rispetto al deserto che serve a comporre. Sabbia… Appena ho letto il vecchio prompt (sabbia e granello) mi è venuto in mente lui, Bähl. La voce graffiante e roca, il respiro rovente, le mani da vecchio. E naturalmente accanto immancabile è lei, Gotel. Un nome assolutamente provvisorio, ma che penso rispecchi la sua personalità altezzosa e obbediente, ma non servile. Gotel che nonostante l’omonimia nulla ha in comune con la strega di Rapunzel se non forse la determinazione morbosa. Gotel che reprime ciò che sente, che nasconde il cuore che invece ha risvegliato in Bähl. Spero di avere presto abbastanza coraggio da pubblicare la vera e propria creatura, tutti i personaggi e la vicenda di cui tra l’altro loro non sono veri e propri protagonisti, ma comunque rappresentano fino ad ora i miei preferiti in assoluto. Non sono ancora riuscita a comprendere nella mia mente quale sia il loro legame, come io possa elaborare a parole l’intreccio di emozioni ingarbugliate che li accomunano. Senza contare poi la differenza d’età, più o meno dieci anni, che io avevo immaginato li separasse tra le tante altre cose. Ambientata in un palazzo cinese in un mondo che è questo e forse non lo è. Che spiegazione facile da capire, nevvero? Un saluto affettuoso e caloroso a tutti, ché da me si congela o forse è la sottoscritta a percepirlo più degli altri in quanto freddolosa. A presto spero con “quello vero e proprio” ;)!       

  
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