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Autore: Japanlover86    31/01/2011    6 recensioni
Cosa può unire Ami Mizuno a Mamoru Chiba? La risposta può essere nei sogni... ma se i sogni non fossero soltanto semplici sogni?
UNDICESIMA CLASSIFICATA AL CONTEST "ERA UN SOGNO" INDETTO DA FABI_FABI e SECONDA CLASSIFICATA A PARI MERITO AL CONTEST "I MESSAGGI DEI SOGNI" INDETTO DA HANA ANGEL E PORTATO A TERMINE DA RINALAMISTERIOSA
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ami/Amy, Mamoru/Marzio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Quando i sogni ti cambiano la vita...


 

 

 

Quando i sogni ti cambiano la vita…

 

       

 

Ore 7:15

 

 

Mi accascio a terra, svuotata.

Solo il contatto delle ginocchia con il pavimento liscio e freddo mi riporta lentamente alla realtà.

Non è possibile.

Non ci credo.

È illogico, irrazionale.

Come è potuto accadere?

Devo capire.

Meccanicamente, alzo il volume della televisione.

Le parole del giornalista mi giungono a tratti, come in una radio mal sintonizzata.

Le immagini scorrono davanti a miei occhi. Ipnotiche.

Un Tir rovesciato.

Una Spider in macerie.

E il primo piano del giornalista che continua a vomitare le dinamiche dell’accaduto:

“Morto sul colpo un ragazzo di 29 anni, Mamoru Chiba, in un tragico incidente…”

 

__________________________________________________________________

 

 

Il giorno prima

Ore 17:45

 

 

È da circa quaranta minuti che continuo imperterrita a scrivere con la mia penna stilografica.

Mentre finisco di annotare la riflessione su un quaderno dalla copertina azzurra - il mio preferito -, mi giro verso il paziente che ha finito or ora di raccontare ciò che gli è capitato durante l’ultima settimana.

Mi piace molto ascoltare le persone parlare dei fatti della loro vita. È l’aspetto che mi entusiasma di più della professione di psicologa. Un’altra cosa che amo è cercare di sbrogliare la matassa di problemi che una persona si porta con sé nel corso della sua esistenza. Ci vuole una gran dose di pazienza e di autocontrollo e mi piace pensare di avere questi requisiti.

Sono sempre stata brava a trovare soluzioni per ogni tipo di ostacoli che incontravo sul mio cammino. Perfino il mio professore all’università lodava la mia metodologia e la praticità che mi caratterizzava. Immensa è stata la gioia di averlo avuto come mio mentore anche quando, alla fine del mio percorso di studi, ho trovato subito lavoro vicino a dove vivevo. Mi ricordo che diceva sempre: “Mia cara, tu farai presto una brillante carriera…”. E, puntualmente, venivo sopraffatta in volto da un diffuso rossore di imbarazzo e contentezza. È stato sempre grazie a lui che mi sono laureata con un anno di anticipo rispetto agli altri studenti della mia facoltà, risultando la più giovane dottoressa in psicologia degli ultimi trent’anni.

Come ho detto, mi sembra di avere una predisposizione naturale per questo lavoro.

Ma non è tutto rose e fiori. Talvolta, ho a che fare con veri e propri fantasmi del passato e, in queste circostanze, le mie capacità da sole non bastano. Serve un intenso e accurato lavoro di analisi con la collaborazione del paziente per riuscire a produrre risultati soddisfacenti.

È il caso di questo giovane uomo, M.C., in cura da me da poco meno di un anno. Per ovvie ragioni di riservatezza, sono tenuta a non divulgare con estranei la sua delicata situazione familiare e affettiva e, riferendomi alla sua persona, sono obbligata a utilizzare uno pseudonimo oppure le iniziali, sempre per una questione di rispetto e di privacy.

La prima volta che M.C. entrò nel mio studio, mi disse che aveva già fatto il giro dei psicologi del quartiere giusto per catalogarli in modo molto gentile come un “branco di incompetenti tutti uguali”. Aggiunse che voleva trovare un bravo psicologo e che, a dispetto della mia età - tre anni in meno di lui -, gli ispiravo fiducia e professionalità. Mi sentii onorata di ciò, ma gli volli confessare ugualmente la mia perplessità di non essere esperta abbastanza da trattare il suo caso.

Da quel giorno, sono passati undici mesi e tre giorni e il paziente si ritiene soddisfatto di come conduco le sue sedute, tanto che non ne ha mai saltata una.

 

Finisco di scrivere le mie considerazioni personali su un piccolo taccuino per poi parlare con la paziente sulla sua decisione di trasferirsi in un’altra città.

Ma non posso fare a meno di pensare che, tra meno di quindici minuti, sarà il suo turno.

Accompagno la donna alla porta e mi metto a riordinare i miei appunti, in attesa che arrivi.

Puntuale come al solito, M. bussa alla mia porta a vetri alle 18:00 precise.

Lo faccio accomodare sul lettino e attendo tranquillamente che cominci a parlare.

Mi ricordo che, durante le prime sedute, era sempre un po’ reticente, quasi come se volesse proteggere le emozioni dentro di sé per non rischiare di farsi sopraffare, esternandole. Ci sono voluti quasi tre mesi perché io capissi il problema di base. Anche adesso è un po’ riservato, ma parla con più facilità da quando abbiamo instaurato un rapporto di fiducia e solidarietà professionale. Se io sono una psicologa, lui è un giovane ma stimato neurochirurgo che lavora presso l’ospedale più grande della città. Ironia della sorte, diceva lui le prime volte. Rimanevo regolarmente perplessa dal commento finché un giorno ne capii il motivo: a causa di un incidente d’auto, i suoi genitori morirono e lui perse la memoria. Aveva sei anni.

Questo trauma infantile ha segnato tutta la vita di M., influenzando il comportamento e i rapporti sociali. Ovviamente la carenza affettiva dei genitori e la perenne ricerca di un’identità e dei ricordi perduti dell’infanzia lo hanno portato a contare sulle sue sole forze, rifiutando l’aiuto degli altri pur desiderandolo.

L’opinione di chi lo conosce superficialmente è rivelatrice: cortese, educato ma riservato, al limite della freddezza, per paura di lasciarsi andare alle emozioni che considera proprie delle persone deboli. Appare tanto riflessivo da sembrare erroneamente calcolatore ed è una persona estremamente orgogliosa, cosa naturale per chi ha contato solo sulle proprie forze fin da bambino.

A tratti può risultare superbo e arrogante ma questo lato è solo una maschera di cui ha difficoltà a privarsi. È un uomo principalmente solo, che non ricorda l’affetto. Pensa di non averne bisogno ma soffre di questa mancanza. E gli sembra che l’unico modo per guadagnarsene una minuscola goccia sia quello di dedicarsi, anima e corpo, alla professione medica, in modo da poter evitare alle altre persone le stesse sofferenze che ha patito lui. Questa decisione tradisce la sua grande sensibilità e generosità; pronto a dare il massimo fino al limite delle sue capacità, mette il bene altrui antecedente al proprio.

Negli ultimi tempi, però, è venuto alla luce un grande ostacolo che ha acuito la sua convinzione dell’inutilità dell’amore e il suo astio nei confronti del gentil sesso: l’abbandono da parte della sua fidanzata.

Pur essendo passato molto tempo, il dolore lascia ancora una traccia fresca nel suo orgoglio ferito. E anche se M. è consapevole di dover superare la fase depressiva conseguente all’abbandono, finora non c’è stato nessun progresso: evita di proposito l’argomento e, quando se ne accenna, ne parla in termini vaghi, come se fosse un episodio banale e poco importante. Solo una volta me ne ha parlato in termini dettagliati e, tra le cose che ho ricavato, la più interessante è stata il soprannome della ragazza: “Odango”.

Mentre M. è intento a raccontare degli ultimi tre giorni passati nella più completa apatia, prendo la sua cartella dallo scaffale, pronta ad appuntarmi i suoi discorsi e alcune possibili soluzioni da sottoporgli: per esempio, esplicitare il nome della sua ex potrebbe essere un passo avanti nell’accettazione del suo dramma personale. È difficile, però, prevedere quando riuscirà ad accantonare l’orgoglio e a sfogarsi. È indubbiamente molto testardo, almeno quanto me.

Nel frattempo, l’occhio mi cade sulla sua figura distesa sul lettino. Capelli neri, occhi del colore delle profondità oceaniche, figura slanciata ma possente: qualità che lo rendono molto affascinante per la popolazione femminile.

Un ragazzo carino, a mio modesto parere. Un “gran figo” dal punto di vista di Minako, che l’ha visto nella fotografia allegata alla sua scheda quando ho avuto la pessima idea di portarla a casa per mettermi avanti col lavoro. Non avevo fatto i conti con la sua proverbiale curiosità. 

Mi sembra incredibile che proprio lui abbia avuto l’esperienza di “essere stato lasciato”. Avrei creduto, piuttosto, che fosse lui il primo a troncare il rapporto. Perché, anche se è particolarmente riservato, non perde un’occasione davanti a una donna, desiderando inconsciamente che sia tenace abbastanza da tenergli testa e, al contempo, materna per fargli riscoprire l’amore.

Caso volle che avesse incontrato “Odango” che possedeva queste caratteristiche. Ma, all’inizio, il loro rapporto era come tra nemici giurati, costellato da litigi e punzecchiamenti. Servirono mesi per accorgersi che, in fondo, si apprezzavano l’un l’altro e, come nella migliore delle favole, finirono inevitabilmente per innamorarsi a vicenda.

Mi raccontò che, da quando era nato, non era mai stato così felice e ardente di crearsi una famiglia con la donna che amava. Così, le fece la proposta un sera di primavera durante una cena romantica a lume di candela. Lei le adorava, mi disse.

Fu quello a rovinare tutto. Lei non era interessata al matrimonio. Preferiva non impegnarsi ancora. Come scusa, la sua giovane età.

Benché amareggiato, era intenzionato ad aspettarla finché non fosse pronta per compiere il famoso grande passo.

Mai decisione fu più fatale. Poche settimane dopo, lei gli comunicò di aver conosciuto un altro. Un cantante. Ed essersi invaghita di lui tanto da seguirlo fino alla fine dei suoi giorni. 

Tradito, umiliato, scottato da un amore che credeva potente e infinito, decise che non avrebbe mai più aperto il suo cuore a nessun altra donna, considerando tutto l’universo femminile come un mondo da cui fuggire a gambe levate.

 

 

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Ore 18:15

 

 

È da più di dieci minuti che sono steso sul lettino a raccontarle che cosa ho fatto negli ultimi tre giorni. In realtà, non c’è molto da dire: non ho fatto proprio nulla a parte il lavoro. Chiaro e conciso.

L’unico argomento sono le mie giornate piene di interventi: i suoi occhi si illuminano a sentire termini medici, chiaro segno del suo interesse verso il mio mestiere. Mi domando come sia finita a fare la psicologa; il suo talento con le persone è innegabile, ma la cultura medica che possiede la mette alla pari con i più famosi e stimati medici di tutto il Paese.

La posso definire in una sola parola: valida. Sì, Ami Mizuno è una valida psicologa.

La prima volta che entrai nel suo studio, venivo da una serie di sconfitte con altri psicologi che mi definivano un paziente intrattabile e poco collaborativo. Non sopportavo che mi facessero domande specifiche sulla mia vita privata e, difatti, non rispondevo. In più, volevano cercare di risolvere problemi inesistenti legati al mio passato quando, in realtà, cercavo solo qualcuno con cui parlare, non qualcuno che mi dicesse cosa fare. 

Fu un caso che io mi trovassi nel suo studio. La mia gatta Luna era scappata e, seguendone le tracce, mi aveva condotto al primo piano di un enorme condominio. La ritrovai addormentata davanti alla porta di uno studio. Psicologa Ami Mizuno, recitava l’insegna azzurra della porta a vetri. Entrai e, guardando la persona che mi era davanti, mi colpii l’esperienza e la metodicità che emanava a pelle. Non ebbi nessun dubbio: nonostante la giovane età che mi ricordava la mia ex-fidanzata, decisi che avrei affidato a lei l’arduo compito di capirmi. Perché io non avevo problemi da risolvere. 

La mia scelta si rivelò giusta.

Con Ami è diverso. Posso parlare di quello che più mi aggrada o persino restare in silenzio. Riesce comunque a scoprire elementi di me, estrapolandoli anche da contesti banali. Incredibile come, dopo soli quindici minuti della mia prima seduta, sia stata in grado di fare un’analisi precisa del mio carattere e delle relative conseguenze sui miei rapporti sociali.

Risultato? È la persona che ha compreso meglio la mia essenza, dopo Motoki. Il mio solo ed unico amico, gestore di una sala-giochi e felicemente sposato con Makoto Kino, proprietaria della pasticciera più rinomata dell’intera città. A volte lo invidio, a volte lo compatisco, specie quando si perde nelle sue romanticherie melense da far venire il diabete.

Anch’io, tempo fa, ero pronto a tutto pur di renderla felice. Ma non è servito a niente. Anzi, il mio amore è stato ripagato con il tradimento.

Per cui, basta con l’amore. Serve solo a far soffrire. Preferisco appuntamenti passionali senza paranoie e senza ripensamenti. Solo puro e semplice sesso senza impegni.

Mi astengo, però, dal dirlo apertamente alla mia psicologa. Vista la sua aria innocente e ingenua, ho l’impressione che arrossirebbe da far concorrenza ad un pomodoro maturo se solo accennassi alla cosa. L’imbarazzo porterebbe al disagio. Il disagio mi porterebbe a rischiare di perderla come probabile futura collega. No, meglio tacere.

Sebbene Ami non perda occasione di chiedermi di approfondire gli eventi che hanno segnato la mia infanzia, questa volta, la mia preoccupazione maggiore è un dannatissimo incubo che recentemente infesta le mie notti. Riconosco che è un argomento piuttosto banale se si pensa al periodo che sto attraversando, ma è la prima volta che sogno di morire. Mi chiedo perché proprio adesso io faccia sogni di questo genere.

E, fulminea, arriva la sua risposta.

- “Probabilmente, stai dando la colpa a te stesso e ti stai auto-punendo per gli eventi che ti sono capitati nella vita.”

Impossibile. Non ho mai avuto niente di cui rimproverarmi. Mi sono sempre comportato in maniera impeccabile. Alla mia ex ho dato tutto l’amore di cui ero capace ed è andata a finire come sappiamo; i miei genitori non me li ricordo neanche, so solo che sono morti sul colpo durante una gita in montagna che stavamo facendo in macchina.

Comunque, tutte le spiegazioni sono plausibili.

Alla sua richiesta di maggiori dettagli, le narro l’intero incubo ma mi soffermo su determinati particolari, come l’improvvisa accelerazione della mia auto nella strada poco illuminata, il momento in cui ho scoperto un muro di mattoni in lontananza dopo aver superato un camion, l’impossibilità di frenare e le mie mani che tremavano stringendo il volante, la sensazione agghiacciante della tachicardia a pochi metri dall’ostacolo, lo schianto e il conseguente risveglio tra i resti fumanti della mia auto. L’ultima sensazione è stata la più intensa: i vetri frantumati che mi sentivo conficcati nella pelle, gli airbag bianchi che penzolavano dal cruscotto, la vista appannata che ritornava lucida a poco a poco per scoprire solo macerie, il mio corpo paralizzato e la mia faccia pallida e intontita. Poi il mio risveglio, tanto brusco da essermi seduto di scatto e vedere l’orrore di quella visione confondersi tra gli spazi della mia camera da letto.

Per la prima volta in vita mia, ho ringraziato il cielo di non aver avuto incidenti simili.

A racconto finito, attendo il suo immancabile commento che ha il potere ogni volta di rassicurarmi e uscire da questa stanza più fiducioso.

- “Beh, anche un brutto sogno può persuaderci di non essere, dopotutto, troppo sfortunati. Direi che hai trovato da solo la tua risposta.”

Sì, ma questa volta c’è qualcosa che non mi convince.

Non mi faccio spaventare da un incubo perché sono convinto che non si tramutino in realtà. Eppure, questa visione era troppo realistica. Quasi come se fosse un avvertimento specifico: ‘non pensare di sfuggire al tuo destino’.

- “Ma quale destino?”- chiede.

Già, quale?

La domanda è legittima.

Magari la stessa fine dei miei genitori.

A quella risposta, le scappa una risatina irriverente.

- “Punto primo: gli elementi del tuo incidente nella dimensione onirica non corrispondono all’incidente dove morirono i tuoi genitori. Loro morirono sul colpo, tu invece sei sopravvissuto e hai sentito le sensazioni del post-incidente. Fatto che hai sognato perché fa parte del tuo passato. Punto secondo: non si può parlare di destino. Si parla soltanto di casi o coincidenze. Le divinità sono troppo impegnate per interessarsi di ciò che facciamo noi comuni mortali. E quindi è l’uomo, con le sue scelte e le sue azioni, il fautore del proprio percorso.”

Condivido la risposta ma, per quanto mi riguarda, resto convinto della mia opinione. Qualcosa accadrà. Fato o non fato.

- “Vedrai, non succederà niente. Sono solo i tuoi sensi di colpa e le tue paure che stanno riaffiorando.”

Il verdetto pone fine al nostro tempo a disposizione. Devo lasciare spazio agli altri pazienti bisognosi di lei.

Mi alzo dal lettino, pronto ad andarmene quando una sua domanda improvvisa mi blocca.

- “Oggi hai il turno di notte in ospedale?”

Il mio consenso mi fa guadagnare un suo sorriso.

- “Bene.”

Perché me l’ha chiesto?

- “Così non avrai tempo per i tuoi passionali incontri notturni con Rei.”

Come diavolo fa a saperlo?

La guardo dritto in faccia, pronto a chiederglielo, ma lei si volta verso lo scaffale e mi congeda con un “Ci rivediamo tra tre giorni”.

Sfortunatamente, il bussare alla porta del prossimo paziente lascia cadere il discorso.

Poco importa.

La prossima volta sarà la prima cosa che le chiederò. 

 

 

__________________________________________________________________

 

 

Ore 5:32

 

Sto sudando, in preda al terrore.

Le mie mani stringono convulsamente il volante.

Il mio corpo è teso, schiacciato contro il sedile.

Maledizione.

Non farò in tempo.

Premo con più forza il freno.

Merda.

L’auto non risponde ai comandi.

Di chi è questo urlo? È la mia bocca?

Non ho tempo per accertarlo.

Serro gli occhi, aspettando l’impatto.

 

Lo sentivo che sarebbe finita così.

Uno scontro sulla strada.

Peccato che questa volta sia un Tir.

Che cosa mi disse, lei?

Un brutto sogno può bastare a persuaderci di non essere, dopotutto, troppo sfortunati…

 

Vaffanculo, psicologa dei miei stivali.

 

 

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Sono così presa dal nuovo libro sullo studio dei sogni che mi accorgo a stento che l’antico orologio a muro del mio ufficio sta suonando le sette. Questo significa solo una cosa: la fine di una lunga giornata di lavoro.

Le cartelle ben allineate sulla mia scrivania reclamano la mia firma, prima che possano riposare nello scaffale di legno azzurro accanto alla porta.

Che strano.

Eppure ero sicura di aver già apposto il mio timbro su di esse.

Sebbene sia ardente di continuare la lettura, devo accantonare per un attimo il volume che mi ha affascinata. Il dovere mi richiama alla realtà, lasciando spazio ad un’unica scelta. Così apro il primo dei fascicoli per assicurarmi di non aver tralasciato niente.

Per fortuna, impiego solo cinque minuti a terminare il mio compito.

Do un’occhiata all’orologio: segna le sette e dieci.

Ma dai, altri cinque minuti.

Il tempo necessario a finire almeno il quinto capitolo di questo libro interessantissimo e molto illuminante.

Poi correrò a casa, dove mi aspetta Minako.

Un rumore inaspettato mi costringe ad alzare gli occhi dalle pagine.

Un’ombra scura si staglia attraverso la porta a vetri.

Momentaneamente troppo sorpresa per invitare l’individuo ad entrare e a rivelarsi, sposto lo sguardo verso le lancette.

Le sette e quarantatre.

Un sussulto mi scuote: sarei dovuta essere già a casa!! 

Mi alzo fulminea dalla sedia e comincio a riporre le mie cose nella borsa.

Il bussare dello sconosciuto alla porta si fa più insistente.

Prendo il mio soprabito beige e corro ad aprire, sperando che non sia un mio paziente dell’ultimo minuto bisognoso di essere ascoltato.

Purtroppo, i miei timori sono fondati.

Davanti a me, compare Mamoru.

Prima che possa spiccicare parola, si protende verso di me e mi afferra con forza le spalle, scaraventandomi contro il muro.

Sono impaurita, terrorizzata: che ha intenzione di fare?!?

Aiuto! 

Provo ad urlare, nella speranza che qualche mio collega ancora in ufficio possa sentirmi, ma lui me lo impedisce, tappandomi la bocca con la sua mano fredda.

La sensazione di gelo e di abbandono s’impossessa del mio corpo, paralizzandolo.

Il mio cuore, al contrario, pompa adrenalina a più non posso.

Un ghigno deforma il bel viso di Mamoru, compiaciuto del mio sguardo atterrito.

Perché?

Perché a me?

Che cosa ho fatto io per meritare questo?

Perché si è ridotto così?

Devo liberarmi.

Devo scoprire il suo punto debole e colpirlo.

La mia determinazione lo spiazza per un attimo.

Trovato!

Il mio piede si stacca da terra, cercando di sferrare un potente calcio tra le sue gambe.

Sarà obbligato a mollare la presa su di me, penso.

Un grido di sorpresa mi scappa quando vedo che il mio piede non colpisce la sua virilità ma, anzi, gli passa attraverso.

Il sorriso malefico gli si allarga sempre di più.

Stavolta, mi ha in pugno.

Sono impotente contro un vero fantasma.

E lui lo sa.

Si avvicina.

Lento ma inesorabile.

Riesco a sentire il suo fiato gelido a pochi centimetri dalla mia bocca.

Serro gli occhi, non voglio vedere.

Aspetto solo la fine.

Che non arriva.

A spezzare il silenzio, solo il suo bisbiglio roco e duro contro il mio orecchio.

Dal quale esce una precisa minaccia:

“Non ti libererai così facilmente di me.”

L’ultima cosa che vedo è l’improvviso baluginio di una lama, diretta verso il mio collo.

 

 

Ore 5:37

 

Mi passo una mano tra i capelli, madidi di sudore.

Istintivamente, l’altra accarezza il collo. Liscio e ancora intatto.

Il sollievo mi inonda il cuore.

Era solo un brutto sogno.

I miei occhi, ancora assonnati e semi-aperti, mettono a fuoco con difficoltà la camera e anche la sveglia luminosa nel comodino sembra quasi abbagliante nel buio silenzioso della notte.

Le cinque e trentasette della mattina.

Troppo presto.

Distendo le coperte disfatte, chiaro segno del mio angosciante e movimentato tormento notturno, e mi infilo sotto le lenzuola ancora tiepide, nella speranza di riprendere sonno.

So già, però, che non ci riuscirò; sono ancora troppo scossa dall’incubo e i pensieri ronzano come mosche fastidiose.

In questi casi, vorrei almeno che la mia mente cessasse di funzionare, così da restare inattiva e in stato di quiete. Invece, il mio cervello è così abituato ad analizzare, a dedurre gli elementi e i significati che non si fermerà fino alla conclusione del processo.

Mi conosco troppo bene da sapere che sarà così.

Sospiro rassegnata: il mio riposo dovrà aspettare per amore della conoscenza.

 

Un rumore di passi affrettati e la porta spalancata violentemente annunciano l’entrata della mia coinquilina, Minako.

Irruente come al suo solito.

Mezza addormentata e con i capelli arruffati, mi squadra come se avessi interrotto il suo riposo. Forse devo aver urlato.

Un moto di irritazione mi attraversa: non mi va di darle spiegazioni. Ma il suo sguardo preoccupato fa desistere in me ogni reticenza.

- “Che è successo?”

- “Niente, Minako. È stato solo un brutto sogno”- dico con tono tranquillo.

L’occhiata sospettosa che ricevo mi fa capire che non si è bevuta la mia risposta  insoddisfacente.

- “Ti ho sentita urlare. E tu non urli mai. Almeno, non da quando abitiamo insieme.”- replica, chiaramente intenzionata a pretendere una spiegazione.

È difficile ingannare Minako. È una brava osservatrice. Anche troppo, in realtà.

Abbasso lo sguardo, incerta se rivelarle il contenuto del mio incubo. L’ultima cosa che voglio è farla preoccupare.

Sto per dirle di lasciar perdere, che non vale la pena di ascoltare le mie stupide paure, quando lei mi cinge le spalle in un abbraccio.

Il tepore del suo gesto mi scalda il cuore.                      

- “Le paure fanno meno spavento se si affrontano in due.” – afferma in un sussurro.

È vero: una mente esterna può giudicare con più obiettività e razionalità i desideri e le ansie esplicitati in un sogno e gli ostacoli che appaiono insormontabili sono visti nella giusta prospettiva.

Ovviamente, tacere con Minako è una battaglia persa in partenza. Trova sempre il modo di farti capitolare. Tutti quelli che la conoscono vengono travolti dalla sua personalità frizzante e sbarazzina. Ma solo chi approfondisce la sua natura può entrare in contatto con il suo raro quanto improvviso lato serio. Che spiazza ancora di più.

Comincio a raccontarle la mia visione. Le narro tutto dettagliatamente, magari può interpretare quegli elementi angoscianti da un punto di vista differente.

C’è una cosa, però, che non ho il coraggio di rivelarle. Sono al 100% sicura che mi prenderà per una pazza se le dico che un vago e oscuro presentimento mi stringe il cuore come in una morsa. Quasi come se un tragico evento dovesse accadere da un momento all’altro.

Che Mamoru mi abbia contagiata?

- “Ma ti senti, Ami?” – mi chiede con un sorriso sul volto – “Stai facendo il verso a quelle indovine ambulanti da quattro soldi che tu disprezzi tanto.”

Già, non sopporto le persone come loro, pronte ad affermare che è il destino a manovrare la vita delle persone. Così come la cartomanzia che mostrano agli ignari passanti è solo il frutto di una circostanza fortuita. Il destino non centra niente, è l’uomo il fautore del suo percorso.

- “Hai ragione, Minako. Ma il cuore mi avverte, non so perché.”

- “Sei ancora sconvolta dal sogno, vedo. La persona più razionale e logica che conosco diventa timorosa a causa di un improbabile presentimento? Questo non è da te, Ami.”

Percepisco il suo tono scherzoso e il suo intento di coinvolgermi in una risata che mi faccia dimenticare, o per lo meno rivalutare, le mie parole intrise di mistero, ma il mio volto resta serio e impassibile.

Non riesco a non pensarci.

La sua allegria si spegne alla vista della mia persistente inquietudine.

Sono quasi certa che mi rimprovererà per l’insensatezza delle mie affermazioni, come si fa con un bambino spaurito e incoerente.

Riesco a immaginare anche il cipiglio nel suo viso.

Alzo gli occhi, certa che delle mie supposizioni.

Ma quello che trovo è solo dolcezza.

Mi prende le mani.

Sono così calde.

- “Ami, guardati intorno e poi dimmi cosa vedi.”

Sono stupita dalle sue parole ma non posso fare a meno di assecondarle.

Il mio sguardo perplesso si sposta in tutte le direzioni, alla ricerca di qualcosa di insolito nella mia stanza per poter giustificare la richiesta bizzarra della mia coinquilina.

- “Vedo la mia camera ordinata, le mie lenzuola azzurre, gli oggetti a me cari e quelli che adornano la stanza… e poi ci sei tu, qui accanto a me.”

La descrizione mi fa guadagnare un sorriso ancora più largo da parte sua.

- “E’ proprio come dici tu. Hai la fortuna di avere più di una semplice stanza, addirittura una casa, un lavoro e un’amica speciale come me. Beh, non hai ancora un fidanzato ma per quello ci penso io, “CupidMina”, la paladina dell’amore!!”

A questa frase, mi scappa un brivido. Se ripenso a tutti gli appuntamenti che lei mi ha organizzato…

- “Molte persone non sono così fortunate.” – riprende con tono dolce – “Pensa ai tuoi pazienti. C’è chi non ha amici e si sente solo, c’è chi ha perso il lavoro e si sente un fallito e c’è chi non ha una casa e si sente indifeso. Tu hai tutto.”

Resto interdetta mentre la ascolto.

Non avevo considerato i fatti da questo punto di vista.

- “Sai, una volta ho letto una frase che mi ha colpito. Non mi ricordo quando l’ho letta ma so per certo che era in un tuo libro. Cercavo qualcosa di leggero, tipo una rivista, ma tu, Ami, figurati se possiedi un giornale di gossip!!  Ma diceva così: “un brutto sogno può bastare a persuad-

-“a persuaderci di non essere, dopotutto, troppo sfortunati…”- completo io.

Che coincidenza. È la stessa cosa che ho detto al mio paziente non più tardi di undici ore fa.

-“La conoscevi già?”

-“Sì. È una citazione di Michel Simon. Il libro in questione riguarda le possibili interpretazioni delle visioni oniriche.”

Che non centra niente in questo contesto.

Non capisco dove voglia andare a parare.

- “Ergo?”

- “Ergo, dopo la luce vengono sempre le tenebre…” – afferma con tono saccente.

- “Semmai è il contrario, Minako. Dopo le tenebre viene sempre la luce.” – le rispondo affranta. Non ho mai conosciuto una persona che sappia sbagliare tutti i modi di dire come lei.

- “Vabbè, è la stessa cosa.”

Scoppio a ridere alla vista del suo sbuffo seccato.

Mi sento decisamente meglio.

- “Grazie, Minako. Sei un’amica speciale. Non c’è nessuno come te.”

- “Lo sapevo già.” – il suo tono fintamente presuntuoso mi suscita un sorriso sereno –  “Buonanotte, Ami. Vedrai che oggi sarà una giornata come tutte le altre. Frenetica e impegnativa. Cerca di dormire un altro po’.”

- “Ok... Buonanotte, Minako. O meglio, buongiorno, dato che la luce dell’alba comincia a far capolino attraverso le finestre e tra un’ora e diciassette minuti ci ritroveremo di nuovo in piedi.”

- “Sei troppo precisa, Ami. Rilassati.”

E dopo un lungo e sonoro sbadiglio, la vedo allontanarsi per raggiungere il tepore ristoratore del suo letto.

Il ticchettio dell’orologio mi fa capire che il tempo non aspetta, passa inesorabile per tutti. Presto farà giorno e non avrò tempo per riposarmi, vista la mia scaletta degli impegni e dei pazienti.

Mi rimetto distesa sotto le coperte. Le parole della mia amica mi hanno donato un conforto tale che spero di non tardare molto a riaddormentarmi. Forse, il mio pessimismo derivava dallo stress accumulato in questo periodo di inizio carriera. O ero solo semplicemente stanca.

Chissà, magari questa giornata di lavoro sarà davvero una semplice giornata frenetica, senza incidenti o cupe intuizioni.

Non vale certo la pena di preoccuparsi adesso.

Solo chi vivrà, vedrà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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