Una
piccola introduzione prima di lasciarvi alla storia. Questa piccola
shot costituisce un missing moment di una delle mie storie, Broken
Hearts, e alla fine si ricollega
anche a dei personaggi presenti nel seguito della stessa storia, che
è Broken
Hearts - Longing For.
Ciononostante, potete tranquillamente leggerla come una shot a
sé stante, è piuttosto slegata dal resto.
Dedicata a chi istiga la mia fantasia al lavoro, e a chi mi fa leggere cose oscene costringendomi a metterci una pezza.
Cinque anni e qualche mese
Cinque
anni e qualche mese.
Era questo il pensiero che riempiva la testa di Leah Clearwater mentre
saliva
sull’auto di suo fratello. Tornava a casa dopo cinque anni e
qualche mese.
Aveva i capelli corti, all’epoca, e fuggiva da se stessa.
La mano trovò la lunga treccia che le scendeva sulla spalla,
mentre pensava che
probabilmente i capelli li avrebbe dovuti tagliare di nuovo, ma decise
che non
le importava più di tanto. Non le importava,
perché sapeva che la Leah che aveva
lasciato La Push cinque anni e qualche mese prima non era la stessa che
vi
stava facendo ritorno.
Quella era una Leah spezzata, tradita, confusa. Innamorata di un uomo
che aveva
smesso di amarla da tempo in risposta ad una magia alla quale non era
possibile
resistere.
La Leah che tornava a casa riusciva a sorridere alla vita, a sperare in
un
futuro che non la vedesse più soffrire. Riusciva a sperare
in un amore che le
desse tutto quello che aveva sempre desiderato: due braccia che la
stringessero
e la facessero sentire al sicuro, due occhi che la accarezzassero
facendola
sentire bella, una bocca che le sfiorasse le labbra e pronunciasse
parole che
la rendessero felice e commossa. Ma non voleva solo questo, voleva un
compagno
con cui scherzare, litigare e confrontarsi. Si rendeva conto che a
venticinque
anni aveva ancora i desideri di una quindicenne che sperava nel
principe
azzurro, ma non poteva farci niente. Era ciò che voleva.
«Leah, mi hai sentito?»
Seth l’aveva riscossa dai suoi pensieri, riportandola sulla
terraferma. Anzi,
in un’auto che la stava riportando a casa.
«No, non ti ascoltavo. Scusami». Seth rise, una
risata sincera, pura, la sua
solita risata, sebbene lei si fosse accorta che suo fratello era
cambiato. Era
cresciuto, ed era ovvio che l’avesse fatto. L’aveva
lasciato che aveva sedici
anni da poco, lo ritrovava che ne aveva quasi ventidue. I suoi occhi
avevano
perso la luce fanciullesca che li riempiva quando se ne era andata. Era
diventato un uomo, il suo fratellino, e aveva anche avuto
l’imprinting, con la
bambina che Jacob aveva avuto da Bella.
Una bambina che lei ancora non aveva mai visto.
Sintonizzandosi sulla stessa frequenza di suo fratello, e ascoltandolo
parlare,
le sembrò di averla di fronte a lei. Una piccola peste di
quasi sette anni, con
gli occhi neri e lunghi boccoli dello stesso colore che le
incorniciavano il
viso di una carnagione di porcellana.
«Quando la conoscerò?» gli chiese,
sorridendo dell’imprinting. La nuova Leah
sorrideva, pensando all’imprinting. La nuova Leah riteneva
che l’imprinting non
fosse malvagio, ma solo una cosa che ti faceva trovare la persona
giusta senza bisogno
di cercarla troppo. E suo fratello era felice, gli occhi gli ridevano
quando
parlava di lei, e quando l’aveva lasciato c’era
ancora l’ombra della morte del
padre.
«Spero presto. Sono convinto che l’adorerai, e che
lei adorerà te».
Era
andata esattamente così, amore a prima vista, con quella
bambina che a sette anni teneva testa a Jacob e a Seth, neanche
l’imprinting
l’avesse avuto anche lei.
Sarah, per conto suo, si era davvero affezionata a lei, nonostante le
tante zie
che aveva. Sentiva di avere un posto speciale nel suo cuore, come se la
considerasse un gradino superiore alle altre. E sapeva che non era solo
per il
fatto che fosse la sorella di Seth. Sarah le voleva bene
perché lei era Leah.
Dopo
un paio di settimane dal ritorno, Leah si trovò a fare
i conti con il fatto che era sì tornata a casa, ma che non
aveva nessuna voglia
di stare a casa di sua madre per tutto il tempo. Non era mai stata con
le mani
in mano, per tutti i cinque anni e qualche mese in cui era stata
lontana da La
Push. Dopo il primo periodo nel nord della California, quel periodo che
aveva
passato con Denise e con suo nipote, quando compariva per qualche
sporadica
visita, alla ricerca di se stessa, aveva sempre avuto un lavoro per
sostentarsi. Aveva fatto di tutto: la bracciante nei campi di grano
dell’Iowa,
la cassiera in un supermercato del Wyoming e la donna delle pulizie in
South
Dakota. Aveva girato gli Stati Uniti in lungo e in largo alla ricerca
di notizie
che potessero chiarirle la sua situazione di donna del branco. Era
entrata a
far parte delle tribù che aveva visitato, aveva imparato le
loro lingue e aveva
fatto in modo che si fidassero di lei, tanto da svelarle le loro
leggende più
segrete. Molte di esse erano simili a quelle che aveva ascoltato fin da
quando
era una bambina, e molte altre coinvolgevano animali diversi dai lupi,
ed erano
molto più approfondite. Aveva riempito quaderni interi, con
quelle storie,
scrivendole dopo averle imparate a memoria fin nei minimi particolari.
Alcuni
anziani le avevano regalato libri che appartenevano alle loro
tribù da secoli.
Si era sentita quasi una ladra, appropriandosene, e l’aveva
fatto presente a
chi le aveva proposto il regalo. La risposta era stata:
“servono più a te, che
sei alla ricerca, che a noi. Ti auguro di trovare quello che
cerchi”. Non c’era
stato modo di far cambiare idea all’anziano,
perciò aveva accettato il dono,
commovendosi per la gentilezza.
A questo pensava, mentre cerchiava con un pennarello rosso tutte le
proposte di
lavoro che le sembravano accettabili.
La
proposta di Jacob era giunta come un fulmine a ciel
sereno. Stava giocando con i suoi figli, quei due adorabili
chiacchieroni ai
quali ogni tanto si offriva di fare da babysitter, quando non ne poteva
più di
stare a casa con sua madre e Charlie, e Jake le si era avvicinato.
«Leah?»
«Dimmi, Jake»
«Ti andrebbe di darmi una mano in officina?»
«Jake, non capisco niente di motori e affini. Lo
sai!»
«No, beh… per quello… per quello
c’è Embry a darmi una mano, ogni tanto.
No… mi
chiedevo… vorresti farmi da contabile?»
«Contabile?»
«Sì, sai… tenere i conti. Le entrate e
le uscite, fare gli ordini, tenere i
contatti con i fornitori»
«Non le fai da solo queste cose?»
«Sì, ma ricordi che mi davi ripetizioni di
matematica e che non sono mai stato…
come dire… un campione dell’ordine?»
Leah rise, e accettò il lavoro, nonostante tutte le
precisazioni di Jake sul
fatto che la paga sarebbe stata un po’ povera, almeno per i
primi tempi.
Accettò, perché Jake era un caro amico, e
perché si sentiva in debito con lui.
Perché se aveva ritrovato se stessa era anche merito suo,
perché era stato lui
a permetterle di fuggire, per farla tornare solo quando si fosse
sentita
pronta.
Si era pentita solo una volta, nel momento in cui era entrata nello
stanzino
delle scope che Jake si ostinava a chiamare
“ufficio”. Ma si era ripresa
subito.
Aveva preteso una scrivania e una sedia, e si era messa a fare ordine
nelle
fatture di Jake. Più tardi erano arrivati anche un computer,
di seconda mano,
che Charlie aveva messo loro a disposizione, e una stampante, che Seth
le aveva
regalato per il compleanno.
Aveva imparato che quello che Jake chiamava “ogni
tanto” era la presenza
costante, e quasi gratuita, di Embry nell’officina. Non
avrebbe mai creduto che
Embry fosse così generoso, anche se doveva immaginare che
per quello che
riteneva quasi un “fratello” avrebbe fatto
qualsiasi cosa. Jake, oltretutto,
aveva salvato anche il rapporto di Embry con la madre. Beh, lui e Quil.
Lo
coprivano a turno, quando Embry aveva i suoi turni di ronda.
L’aveva sempre visto come quello strafottente, quello che se
ne fregava degli
altri e di quello che potevano pensare, quello che faceva di testa sua,
quello
scanzonato e leggero. Quello spensierato.
Aveva lasciato un ragazzo e ritrovava un uomo. Un uomo generoso,
appassionato e
dedito agli altri. O forse era lei a guardarlo con occhi diversi. Anche
se…
ogni volta che le si avvicinava diceva sempre qualcosa che per un
motivo o per un
altro la portava ad arrabbiarsi. E a non rivolgergli la parola per
giorni.
Erano
andati avanti così, per tre anni. Fino al giorno in
cui lui le aveva chiesto di uscire, con la faccia più seria
che gli avesse mai
visto. Lei era rimasta un po’ basita, lì per
lì, poi gli era scoppiata a ridere
in faccia, riuscendo a rispondergli, tra un accesso di risate e
l’altro,
qualcosa come “Io e te? Uscire? Insieme?”.
Embry aveva cambiato espressione, l’aveva guardata un
po’ incazzato e le aveva
voltato le spalle. Quella volta, era stato lui a non parlarle per
giorni.
In quei giorni, aveva capito che Embry era diventato una parte
importante della
sua vita. Il vuoto che sentiva ripensando alle loro litigate non era
solo
dovuto al fatto che senza di lui a gironzolarle intorno
nell’officina si
annoiava. Sì, magari era anche per quello, ma
c’era qualcosa di più. Lei amava
litigare con Embry, perché lui era spiritoso, energico, e
metteva passione nel
difendere le sue opinioni. Per la proprietà transitiva
doveva ammettere che quel buco che sentiva
nel petto significava che probabilmente stava iniziando a provare
qualcosa di più per quel ragazzone scanzonato di
ventitré anni.
Quando
Embry le aveva chiesto di nuovo di uscire, beh… lei
non se l’era certo fatto ripetere due volte. Aveva capito che
con lui valeva la
pena provare, se non altro per mettere in pace il suo cervello con il
suo
stupido cuore, che una volta che aveva preso consapevolezza dei suoi
stupidi
sentimenti non voleva fare a meno di battere più
velocemente, ogni volta che
lui le si avvicinava. Si sentiva una ragazzina alla prima cotta. Una
quindicenne alla prima cotta.
E lei la sua prima cotta se l’era quasi sposata.
Quindi… forse era il caso di
dare retta al suo stupido cuore e a quegli stupidi sentimenti. La
frenava il
fatto che lui fosse un altro membro del branco, e la paura che potesse
avere
l’imprinting con qualcuna che non era lei… beh,
era rimasta scottata una volta,
la seconda sarebbe stata decisamente troppo.
Embry si era comportato da perfetto cavaliere per tutto il loro primo
appuntamento. L’aveva corteggiata, vezzeggiata.
L’aveva anche fatta arrossire
per i complimenti. E l’aveva accompagnata fin sotto il
portico di casa sua. La
casa che aveva comprato qualche mese prima, quando finalmente aveva
avuto abbastanza
denaro da parte per potersi permettere di lasciare casa di sua madre. E
di
Charlie.
Si era aspettata un bacio della buonanotte da sogno, e forse
l’avrebbe anche
invitato ad entrare. O forse no, non avrebbe voluto fare la figura di
quella
che…
Ma lui l’aveva sorpresa, con un bacio sulla fronte e un
sorriso che l’aveva
stordita. Entrando in casa ammise con se stessa di essere rimasta un
po’ delusa
dalla decisione del ragazzo, ma ripensandoci nei giorni successivi
aveva dovuto
ammettere che probabilmente Embry l’aveva capita
più di quanto lei stessa non
volesse ammettere. Era rimasta scottata una volta, e fare le cose di
corsa,
bruciare le tappe, non le avrebbe fatto bene.
Il
primo bacio era arrivato, inatteso, un pomeriggio in cui
all’officina erano rimasti solo loro due. Jake era andato a
un colloquio
genitori – insegnanti alla scuola dei gemelli, e Embry doveva
finire un lavoro.
Lei si era offerta di fargli compagnia, perché voleva stare
con lui, nonostante
non gli sarebbe stata di nessun aiuto. Era nell’ufficio a
riordinare delle
fatture, quando lui era entrato e l’aveva guardata
così intensamente da darle
la sensazione di essere la donna più bella del mondo.
Si era avvicinato con una goffaggine che contrastava con quello sguardo
intenso
e sicuro. Aveva fatto il giro della scrivania, si era abbassato per
arrivare a
guardarla negli occhi e l’aveva baciata. Dapprima leggero,
quasi timido, poi
sempre più sicuro, sentendo la sua risposta entusiasta. Gli
aveva circondato il
collo con le braccia e l’aveva attratto a sé. Lui
l’aveva sollevata dalla sedia
e l’aveva tirata contro il suo petto.
Reclamò le sue labbra, quando lui allontanò il
viso dal suo, e vide un sorriso
illuminargli il volto.
«Allora non ero solo io a non poterne
più!»
Scese di nuovo con le labbra sulle sue, una, due, dieci, cento, mille
volte.
Persero la cognizione del tempo, in quello stanzino, fino a quando non
si
accorsero che fuori si era fatto buio.
Embry la liberò dal suo abbraccio, e la fissò a
lungo, prima di parlare.
«Quindi… adesso…»
«Siamo una coppia?» gli chiese lei, completando la
sua frase. Il sorriso che
ricevette in cambio le fece capire che la risposta era quella giusta.
Che erano
una coppia, o almeno che ci avrebbero provato.
«E
tu e papà state insieme da così tanto
tempo?»
«Sì, Anna»
«E anche lo zio Seth e la zia Sarah stanno insieme da tanto
tempo così?»
«No, amore mio. Lo zio Seth e la zia Sarah si sono fidanzati
quando tuo
fratello aveva tre anni. Quasi due anni prima che nascessi tu»
«Mi racconti anche la loro storia?»
«Un’altra sera, tesoro mio»
«Ma uffi!»
«Anna, che ti ho detto, riguardo ai capricci?»
«E va bene»
Leah Clearwater in Call si alza dal letto di sua figlia, le sistema le
coperte
e le dà un bacio sulla fronte. Si avvicina alla porta e
spegne la luce.
«Mamma?» la richiama la sua bimba di cinque anni e qualche mese.
«Che c’è, tesoro?»
«Anche io e Joey saremo una coppia?»
Leah sorride nel buio, felice che sua figlia non possa vederla.
«Quando sarai più grande, se non avrai ancora
cambiato idea, potrete essere una
coppia»
«Grazie, mamma»
«Di niente, cucciola. Ora dormi!»
Sul
pianerottolo, Leah ed Embry si incontrano e sorridono.
«Ti ha chiesto di Joey?»
«E a te Harry ha chiesto di July?»
Annuiscono e sorridono più intensamente.
«Saranno felici. Come noi» dice Embry, e Leah non
può far altro che annuire. I
suoi figli saranno felici.