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Autore: zara_    01/02/2011    3 recensioni
Ricordava quei momenti con una tale accuratezza da far quasi male.
E nonostante non fossero ricordi poi così lontani, le sembravano appartenere ad un'altra vita.
Momenti come bolle di sapone, di cui ricordava ogni singola sfumatura di colore, oppure, il modo particolare in cui cadeva un raggio di luce sul pavimento.
E se chiudeva gli occhi, poteva rievocarne persino i profumi, il profumo delle rose appena colte nel giardino.

Austria/Ungheria
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordava quei momenti con una tale accuratezza da far quasi male.
E nonostante non fossero ricordi poi così lontani, le sembravano appartenere ad un'altra vita.
Momenti come bolle di sapone, di cui ricordava ogni singola sfumatura di colore, oppure, il modo particolare in cui cadeva un raggio di luce sul pavimento.
E se chiudeva gli occhi, poteva rievocarne persino i profumi, il profumo delle rose appena colte nel giardino. Tinte di quel rosa pallido che sembrava tanto riflettere il colore del suo animo.
E quella musica.Quella splendida musica che danzava nell'aria, librandosi come il canto di una sirena in quei pigri pomeriggi di primavera.


Allora avrebbe sorriso.
E come spesso capitava,si sarebbe diretta verso la grande porta francese stringendo le rose in grembo, e  dentro, dentro vi avrebbe trovato lui.
Lui, bello, quasi perfetto, immutabile, come una  statua che è sempre lì, che talvolta ci fermiamo ad ammirare, scordandoci per un istante di tutto il resto.
Faceva scorrere le dita sui tasti del pianoforte con la sua solita, maestosa, leggiadria, con quell'espressione così solenne che assumeva sempre quando suonava, mentre i raggi del sole disegnavano giochi di luce ed ombra sul suo volto, fra i suoi capelli.
E allora, allora lei avrebbe percorso la stanza a piccoli passi, leggeri, quasi avesse paura di disturbarlo, e avrebbe posato il suo mazzo di rose sul tavolo di legno dove giacevano alla rinfusa degli spartiti musicali.
Perchè in fondo quelle rose erano un po' un modo per esprimere i suoi sentimenti.
Poi, sempre in punta di piedi, si sarebbe inginocchiata dietro al divano, incrociandovi sopra le braccia, e vi avrebbe adagiato  dolcemente il capo. E socchiudendo  con lentezza gli occhi come se fosse preda di un dolce sonno, con i capelli che le ricadevano attorno al viso, si sarebbe lasciata cullare da quella dolce musica.
Era come una magia.
Le alleggeriva le pene del cuore, le svuotava la mente, sembrava fermare il tempo stesso.
Si sentiva come un piccolo usignolo che volteggiava placido nell'aria, sopra i tetti del mondo, spensierato, allegro; ed infatti, era in quei momenti che la sua mente poteva spiccare il volo, e poteva spingersi là fino a dove per poco il cor non si spaura, come aveva letto una volta in uno dei libri di poesie del piccolo Feliciano.
Ma quella magia era un'illusione destinata a durare ben poco.
La realtà veniva a ricordarle che aveva dei compiti da assolvere in quella mansione. Perchè in fondo, pensava, lei non era nient'altro che una serva per lui, una sottomessa, solo un'altra Nazione con cui aveva stretto alleanza perchè conveniva. Perchè caso volesse, che si trovassero vicini.
Non c'era amore in quel rapporto,solo affetto, solo tenerezza, forse pietà, pietà per le crudeltà che lei aveva dovuto subire nel corso della sua vita.
E allora, volgendo il suo sorriso triste verso di lui, assorto, lontano, ignaro della sua presenza, si sarebbe sollevata in piedi e sempre senza far rumore, sarebbe uscita dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Eppure...
Eppure lui, quelle rose, non scordava mai di metterle dentro ad un vaso.
E lei, non senza darsi della sciocca, lei si diceva che magari quello era il suo modo di dirle che rispettava i suoi sentimenti, anche se non poteva ricambiarli.

....

Il suo modo di dirle "grazie".


Le note si libravano nella camera in quella danza perfetta di sempre, dando vita ad una melodia spaventosa e solenne, che sembrava quasi far paura se messa in confronto alla relativa tranquillità di quel momento.
Eppure c'era qualcosa che non andava, qualcosa che solo un orecchio fine, allenato, o probabilmente solo lo stesso pianista, avrebbero potuto percepire, una piega dissonante, quasi rabbiosa, che rischiava di spazzare via tutto quanto.
Proprio come avvenne.
Le pallide dita si ritrassero bruscamente dai tasti, producendo una nota che echeggiò nell'aria.
Era inutile.
Non se la sentiva proprio di suonare quel giorno.
C'era qualcosa che sentiva affligergli il cuore, qualcosa di indefinito, che riusciva a cogliere fra le note della sua musica, e che gliele faceva apparire come vuote, eppure animate da un sentimento incomprensibile.
Era iniziato tutto quella mattina, quando aveva visto le rose nel giardino appena sbocciate.
Erano bellissime ed eppure solo guardarle lo infastidiva.
Sembravano schermirlo attraverso i vetri delle finestre, con quel loro ondeggiare sbarazzine una dietro l'altra, sospinte dal lieve venticello di Maggio.
Si voltò, abbracciando con lo sguardo tutta la stanza in cui si trovava.
In quel momento gli apparve desolatamente grande. Troppo grande. Proprio come lo era tutta quella casa.
Grande e vuota, e tutto quanto, dai mobili ai quadri, alle poltrone, gli diede l'impressione che il tempo si fosse fermato. Come se quelle cose fossero là da secoli e lui se ne fosse semplicemente scordato, anche se ci passava vicino ogni giorno.
Un po' come lui in fondo. La gente gli camminava accanto, gli parlava, eppure sembravano semplicemente dare per scontata la sua presenza, troppo assorti nei problemi quotidiani che quell'epoca poneva.
E lui, lui come al solito si ritrovava là.
A suonare la splendida musica che gli avevano lasciato i suoi avi, sinfonie malinconiche, briose o angosciose, a seconda di cosa si trattasse. I suoi "lamenti", come li chiamava Gilbert.
E in fondo a chi poteva importare qualcosa di ciò che affligeva il cuore di un povero "vecchio"? Altro simpatico appellativo con cui Gilbert amava apostrofarlo ultimamente.
A lui stesso, talvolta, le sue note erano parse, proprio come in quel momento, vuote.
Suonava, ma per chi suonava?
Per amore della musica?O per stesso?O per cantare qualcosa che a semplici parole non sarebbe mai riuscito ad esprimere?
Rabbia, frustrazione, ardore...
Tutti sentimenti che in quel momento gli parvero vani.
Guardò i mobili. Guardò i quadri. Guardò le poltrone.
Forse era proprio come diceva Gilbert.
Anche lui era come quelle cose. Da buttare. Vecchio, noioso per la sua sola perenne  e abusata presenza.
Con quelle sue solite quattro tristi melodie che oramai suonava da secoli e che tutti si erano stufati di sentire.
E mentre guardava quelle cose e sentiva il suo cuore sgonfiarsi pian piano, il suo sguardo fu catturato da un piccolo vaso che giaceva anch'esso come tutto il resto, abbandonato, in un angolo, sopra ad un tavolino.
Era vecchio, era impolverato.
Probabilmente risaliva a secoli fa.
Ma soprattutto...era vuoto.

Che fine avevano fatto quei tempi?
Gli anni sembravano essere trascorsi in un lampo, risucchiati da tutti gli eventi che si erano susseguiti allo scoccare di quel nuovo secolo, e rilegati in un angolo remoto dello spazio e del tempo.
Come foto rilegate in cornici dorate e polverose, messe là a ricordare a tutti loro di epoche che in quelli anni apparivano grandiose, di  glorie passate, di momenti che non sarebbero più tornati.
C'era stata la guerra...quella terribile guerra che aveva scosso il mondo e che aveva costretto tutti quanti a riconsiderare se stessi e gli altri,come se migliaia e migliaia di secoli di lotte,  piaghe e  spargimenti di sangue passati potessero essere spazzati via da quella b...
Rabbrividì, stringendosi  su se stessa.

E loro...
Loro in tutto quel maledetto caos si erano persi.
La notizia era arrivata un giorno.
L'era  degli imperi è finita, avevano detto. L'Impero è finito.  
Lacerato dai conflitti interni e dalle pressioni esterne.
E lei, lei che così tante volte si era ritrovata ad odiare da una parte quella maledetta unione, a riampiangere  i giorni in cui la sua vita stessa poggiava solo sulla sua spada e sul suo cavallo  e tutto sembrava più facile, più bello, più eccitante, lei per un'istante si era sentita crollare il mondo addosso.

Il suo sguardo assente si concentrò sulla stradina sotto di lei. Osservò quel viavai di persone attraverso le palpebre socchiuse, il capo reclinato sulle braccia, che teneva incrociate sul davanzale della finestra.
Tutti ridevano e il cielo luminoso di quel giorno di primavera sembrava rendere ancora più vividi i muri variopinti delle case.
Eppure a lei sembrava tutto così vuoto, inconsistente. Come se tutto potesse scomparire da un mondo all'altro senza che a lei importasse nulla.
Ed era così.
Era così senza di lui a dare un senso a quella vita.
Quella vita che tante volte si era ritrovata ad odiare, più di quante, in un impeto di gioia, di ardore, aveva pensato di amare.
Quella vita che in fondo, non se la era neanche scelta lei.


Fece scorrere un dito sulla superficie polverosa del vaso.
Quanto tempo...quanto era passato...
Come in un romanzo di Proust, quel vaso aveva scatenato in lui una catena di ricordi tale da suscitargli un emozione così violenta come non succedeva da tempo.
Aveva dato forma alla "cosa" che gli affligeva il cuore.
Aveva rievocato nella sua mente il suo volto.
Quel volto che tante volte aveva segretamente evocato mentre faceva danzare con foga le dita sui tasti del pianoforte.
Il volto di lei...
Sentì il suo animo sprofondare nell'angoscia più buia.
Come aveva potuto dimenticare così?


Osservò la mezzaluna nel cielo torbido di fine pomeriggio.
Anche quel giorno giungeva alla sera.
Un giorno come tanti. Come troppi. Diviso fra le questioni del suo paese e i consueti litigi con chi pretendeva di governarlo.
Per lo meno tutto ciò la distraeva da altri pensieri, più intimi, più personali, che probabilmente molti non avrebbero esitato a rimproverarle, dicendole che era una Nazione, e non aveva tempo di pensare a cose simili.
Ma cosa ne potevano sapere gli umani di certi legami? Loro erano così impegnati a sprecare la propria vita che finivano per non accorgersi per quali cose di così poco conto si tormentavano la mente e l'animo. E i loro cuori, poi, erano così capricciosi. I loro animi, così volubili.
Eppure li invidiava. Li individiava perchè quelli stessi uomini erano capaci di amare o fare follie, a seconda, con un'intensità che talvolta la sconcertava.
E tante le cose che avevano creato, tante le idee geniali che avevano partorito, che bastava guardare l'evoluzione di quel mondo per riconoscere, nel bene o nel male, la straordinarietà di quella piccola creatura, che con tutte le sue debolezze, tutte i suoi difetti, incarnava ancora oggi il mistero più grande della terra.

Si guardò intorno. Le strade della città erano popolate da poche persone che passeggiavano tranquillamente, o che chiacchieravano attorno ai tavolini dei cafè.

Ma invidiava quelle persone soprattutto perchè la maggior parte di loro aveva qualcuno che li aspettava a casa.
Qualcuno che, nonostante tutto, era sempre presente e popolava la loro quotidianità. Che li faceva sentire sicuri.
Meno soli.
E invece lei, lei che era tanto grande di per sè, aveva solo una piccola casa  dalle mura gialle ad aspettarla.
Una piccola casa perfettamente ordinata e pulita e arredata di cose di poco conto , cose che erano là solo per fare da decorazione.
Per farla sembrare meno vuota.


Come aveva potuto dimenticarla?
Per tutto quel tempo si erano sfiorati, si erano limitati a passarsi vicino ignorandosi, in quei loro contatti fugaci, obbligati, le questioni di Stato e...no, no, no, lui la aveva ignorata, lui!
Lui si era limitato a trattarla come se fosse soltanto un altro fardello, qualcuno con cui dover trattare con tutti i costi, come se fosse una persona qualsiasi, lei, lei per cui le sue note avevano assunto un colore nuovo, per cui fiorivano dalle sue dita così belle e appassionate come se le ricordava lei, lei che era stata l'unica a comprendere veramente i sentimenti che si celavano dietro la musica che suonava, che fossero rabbia o dolore o chissàcosa, e a rispettarli,  lui , lui aveva seppellito nella sua memoria quei ricordi, quei momenti così ordinari, eppure così preziosi, lui aveva dimenticato cosa era stata lei per lui, la persona capace di toccare il suo lato umano, di stringergli il cuore fra le dita senza saperlo...


Lui la aveva scordata.
Lui.
Si sorresse sul pesante tavolo di legno con una mano, mentre l'altra si stringeva convusalmente attorno al petto.
Non poteva, non...
Doveva ritornare da lei.
Sapeva che non c'era altra cura, che avrebbe continuato a tormentarsi all'infinito il cuore se non la avesse rivista.
Ma in quel momento la distanza che li separava, quei miseri duecentoquarantaquattro chilometri che dividevano Vienna da Budapest, gli parvero una distanza infinita.
E poi c'erano delle questioni, cose da fare, da risolvere...
Ed era tardi, troppo tardi, non poteva partire così all'improvviso...
Ma doveva, doveva fare qualcosa.
O altrimenti, sarebbe impazzito.
Se non lo era già, pensò.

I raggi del sole le stuzzicarono le palpebre, inondandole i capelli sparsi sul letto di una marea di fili dorati.
Aprì gli occhi lentamente, sentendo il torpore del suo sonno senza sogni svanire lentamente, per far spazio, un'altra volta, alla realtà.
Si sciolse dalla posizione rannicchiata in cui in quei giorni usava dormire, sollevandosi  e stiracchiandosi pian piano , con una sorta d'indulgenza da cui traspariva un sentimento di indifferenza.
Guardò fuori dalla finestra.
Anche quel giorno c'era il sole. Avevano avuto una settimana di sole pieno, esattamente tutto il contrario di come si sentiva dentro.
Pensò ad Inghilterra, il cui umore costante sembrava combaciare alla perfezione  con il clima piovoso della sua città, e un sorrisetto amaro le piegò gli angoli della bocca.
Decise di non indulgiare altrimenti.
Si alzò, si sciacquò il viso, si pettinò i capelli, guardando il suo riflesso con espressione annoiata, scese le scale e iniziò a prepare la colazione.
Erano gesti meccanici, che oramai ripeteva ogni mattina da un po' di tempo, senza neanche accorgersi che la loro sequenza non cambiava mai.
Persino il tè che preparava sembra avere un sapore sciapo, nonostante ci mescolasse dentro miele,latte e zucchero, come quelli industriali che si comprano nei supermercati.
E mentre sorseggiava dalla tazzina,e questo pensiero le attraversava la mente, sentì il campanello suonare.
Sbattè le palpebre, chiedendosi mai chi potesse essere, e posando la tazzina sul tavolo, si diresse verso la porta.
Aprì timidamente la porta, facendo scivolare la testa oltre l'uscio.
"Sì?"
"C'è una consegna per lei, signorina."
E le vide.
E il suo cuore iniziò a vorticare come impazzito, mentre i suoi occhi semplicemente non ci credevano.
Perchè non poteva, come poteva...lui....lui...
Pagò in fretta e furia il fattorino e quando se ne fu andato, si chiuse la porta alle spalle e vi si lasciò scivolare dentro.
Erano rose.
Rose rosa.
Se le strinse convusalmente al petto, che si sentiva avvolgere da una gioia infinita, con le lacrime che le pizzicavano gli occhi.
Una sola parola le uscì dalle labbra.
"Grazie".
Grazie infinite.
Quel che non sapeva era che quelle rose non significavano "Non ti ho scordata"; ma bensì:
"Aspettami, sto tornando da te".

  
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