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Autore: Jaded_Mars    02/02/2011    4 recensioni
Una perdita inspiegabile,un grande dolore,un tentativo di cambiare.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seduta su quella panchina in mezzo al parco era finalmente sola. Libera di stare immersa nei suoi pensieri. Era un bellissima giornata soleggiata,senza nubi e i ciliegi erano nel pieno della fioritura. Erano maestosi coi loro rami colmi di grappoli di fiori.  L’aria era satura di quel tenue profumo dolciastro tipico del ciliegio e la terra era ricoperta da un tappeto soffice di petali rosa. Era uno spettacolo da togliere il fiato, unico.     Di solito andava sempre lì in quel giardino in centro alla città a pensare, era un posto che la faceva sentire bene, riscopriva un equilibrio in quella natura spettacolare che non riusciva a raggiungere altrove, tantomeno in se stessa. Trovava insostenibile il peso di dovere fingere che tutto andasse bene. Dovere mostrare un volto sorridente e allegro per fare stare tranquille le persone che la circondavano, per non destare ulteriori preoccupazioni nelle loro vite impegnate. In fondo non voleva che la vedessero soffrire, non perché dovesse mostrarsi forte ad ogni costo, in ogni situazione, come aveva sempre fatto, quanto perché ci teneva e non voleva vederli preoccuparsi per lei.  Inoltre aveva delle responsabilità al lavoro,nei confronti dei suoi collaboratori e superiori, non poteva farsi condizionare troppo dai suoi sentimenti. Tuttavia non era facile essere sempre la persona positiva e solida su cui fare affidamento, il pilastro su cui contare, presente nel momento del bisogno e che ti avrebbe capito. Ora non ne era in grado, desiderava solo cercare di superare il passato. Ed era per quello, in fondo, che era partita.

“Stiamo prendendo in considerazione di aprire una nuova divisione dell’azienda in Giappone. Abbiamo bisogno di qualcuno che vada a Tokyo a sondare il terreno e che sia in grado, eventualmente, di seguire in prima persona il processo di start-up. Questo richiederà ben più di un paio di mesi, forse un anno. Te la senti di prenderti questo incarico? Se dovessi rifiutare, ti capirei, anche se sei la persona che a nostro parere è la più qualificata per questo lavoro, hai uno dei curriculum migliori e trasmetti molta fiducia, piaceresti sicuramente ai nostri partner giapponesi. ”.  Ecco di nuovo l’immagine della persona affidabile. Di solito era irritata dal sentirselo ripetere, affidabile qui, organizzata là, quasi mancava dire prevedibile ed il quadro di pregiudizi era completo. “Ah se mi conosceste realmente…”. Ma quel giorno non ci aveva badato. “Accetto” fu la sua lapidaria risposta. Non cambiò idea , nemmeno di fronte ai tentativi del suo capo di convincerla a prendere tempo per rifletterci bene, era una decisione importante. Aveva scelto,la sua occasione era arrivata e non voleva aspettare un giorno di più per solo andare il più lontano possibile da Los Angeles, evocava troppi ricordi, troppi luoghi erano legati a momenti speciali che non voleva cancellare ma che ricordavano un periodo felice che era finito. Alla prima occasione, quasi il destino l’avesse voluto, aveva lasciato tutto alle spalle ed era partita per Tokyo.

Non se ne era mai pentita.  Soltanto al momento della partenza all’aeroporto aveva provato una morsa allo stomaco, un’esitazione momentanea che le aveva fatto pensare “E se…”, ma il richiamo del volo aveva soffiato via i suoi pensieri. Aveva preso il suo bagaglio e si era diretta sicura al check in senza voltarsi indietro.    
                      
Era sicura che stando lontana da casa, in un posto così diverso, con una cultura nuova e un impegno così importante sarebbe sicuramente riuscita a voltare pagina in fretta. Tutto procedeva, la vita andava avanti,  stava riuscendo nel suo lavoro, era stimata dai suoi compagni di viaggio e come il suo capo aveva previsto, aveva instaurato un’ottima collaborazione coi partner giapponesi. Eppure le sembrava ancora di essere al punto di partenza. Cosa era cambiato in quei nove mesi? Tutto e niente.  A quelle parole sorrise. Certo, ovvio, con lui è sempre stato così o tutto o niente, nel bene e nel male.  Aveva avuto tutto da lui, ed ora era rimasta con un vuoto tremendo. Niente. Era consapevole del fatto che tutti i ricordi e i momenti condivisi non potevano definirsi niente. Eppure le sembrava di avere perso una delle parti più preziose della sua vita. Un giorno, all’improvviso,senza troppo rumore, un anno  e mezzo di vita è svanito. Lui se ne era andato in silenzio, niente parole, niente cerimonie,lasciando solo una grande assenza. E ciò che aveva fatto ancora più male era il modo il cui si era comportato dopo. Il problema era che frequentavano gli stessi locali, le stesse persone, quindi evitarlo era difficile. Quante volte aveva cercato di fermarlo, parlarci chiedergli una spiegazione per tutto quello che le stava facendo passare? Gli aveva anche scritto una lettera in cui apriva per l’ennesima volta il cuore a quel ragazzo, sperava di avere una risposta alle sue domande. In fin dei conti almeno quello glielo doveva, o no? Era stata la sua ragazza, la sua migliore amica per tutto quel tempo ed ora…ora la trattava come se non l’avesse mai  conosciuta.  Ogni volta che usciva, lei sperava con tutto il suo cuore di poterlo incontrare e riuscire a parlarci, fermarlo, avere di nuovo un contatto con lui, non si dava pace per quel cambiamento radicale nei suoi confronti. Fino al giorno prima aveva per lei sguardi pieni di sentimento. Qualsiasi sentimento. Ora invece quegli occhi verdi, così belli da fare male, non le riservavano altro che indifferenza. L’indifferenza era ciò che aveva sempre temuto, avrebbe preferito mille volte rabbia o odio nei suoi confronti. Finire tutto tirandosi oggetti addosso, in modo violento anche, ma non così. Essere ignorata rendeva tutto ancora più difficile,oltre che irragionevole, per lei. “Perché mi fai questo?” continuava a chiederselo, ossessionandosi,  perché  davvero non riusciva a capire in cosa avesse commesso un errore. Una parola sbagliata? Un atteggiamento che non gli era andato a genio?  Forse era stata troppo insistente nel volere passare un po’ più tempo assieme? Non lo sapeva. E il peggio è che non lo avrebbe mai saputo, lui non glielo avrebbe mai detto.  

Piangi. Prendi a pugni qualcosa. Spacca i piatti. Urla. Sfogati. Fai qualsiasi cosa che ti faccia stare meglio. Vedrai che passerà.  Mettila così, è meglio che sia andata in questo modo, ora hai un peso in meno da portarti dietro. Hai già perso troppo tempo per quel secchione lì, in fondo è solo un grande stronzo. Hai bisogno di una persona diversa al tuo fianco. Blablablablabla. Era sommersa di consigli dei suoi amici, di sua madre, di suo fratello, di tutti quelli che volevano farla stare meglio. Ma non servivano a molto. Tutte quelle parole erano solo suoni vuoti senza significato, non era ancora tempo per voltare pagina, prima voleva, doveva, risolvere quella situazione. Chiudere definitivamente. Però non ci riusciva. Continuava giorno dopo giorno a lacerarsi interiormente.

“Perché mi tratti così, non sono una persona a caso, son stata con te e c’ero sempre per te, se dici di essere stato almeno un minimo  mio amico, se mi vuoi almeno una briciola di bene spiegami perché ti stai comportando in questo modo!Dammi una ragione valida, una e poi non ti darò più fastidio. Non mi sembra di chiederti la luna!” Una sera era riuscita a trovare il coraggio per riversargli addosso tutte queste parole, che più che rabbiose come le sentiva lei, sembravano un’implorazione e suonavano piuttosto patetiche. Ma era giunta a un punto tale di esasperazione che non gliene importava più niente di quello che poteva sembrare agli occhi di chiunque. Lui,altissimo quasi da sovrastare lei che bassa non era,era lì di fronte. L’aveva ascoltata, come sempre faceva, aveva aspettato che finisse di parlare, ma a differenza delle altre volte, senza mai guardarla negli occhi, aveva aspettato che finisse il suo tempo, per poi liquidarla freddamente “scusa devo andare, siamo in ritardo per l’inizio del concerto.”. L’aveva lasciata lì, di nuovo sola, senza una risposta, solo con una grande assenza. Era rimasta immobile per un po’, con le persone che si muovevano intorno a lei indaffarate  dietro le quinte mentre lei era ferma,bloccata, disorienta, con qualcosa dentro che si era spezzato. Lui una sera, quando erano abbracciati sul letto, le stava accarezzando i capelli e le aveva sussurrato “sei come ghiaccio bollente, è questa la tua particolarità e sei così bella anche per questo”. Ora la fiamma dentro di lei si era spenta. E si sentiva soffocare. I tecnici le avevano detto di spostarsi, non poteva stare lì, dovevano lavorare. E lei aveva eseguito gli ordini se ne era andata, come un automa che si spostava passo dopo passo fino ad arrivare a casa. Aprì la porta, meccanicamente, sempre bloccata in un limbo ovattato in cui la mente era separata dal corpo. Lo sguardo, consapevole, corse verso un piccolo orsetto bianco che lui le aveva regalato un pomeriggio i primi giorni che si frequentavano. Lei si era fermata davanti alla vetrina del negozio di giocattoli a guardarlo,gli orsi di peluches erano i suoi preferiti. L’aveva preso per un braccio e aveva semplicemente detto “Guarda che carino!” proprio come una bambina. Lui le aveva sorriso, forse più per accondiscendenza. Non era tipo da giochi, peluches o smancerie varie, non aveva avuto un’infanzia particolarmente felice o ricca. Un paio di giorni dopo, poggiato sul tavolo della cucina comparve quell’esatto orsetto, senza biglietti o fiocchi, così spoglio e semplice, proprio come era lui. Lei sapeva che l’aveva rubato, a malapena riusciva a campare, non aveva certo soldi da spendere in quelle frivolezze, però l’aveva fatto per lei e questo l’aveva riempita di gioia. Andò rapida verso il tavolo su cui era poggiato, lo afferrò con foga e lo strinse. Poi si fermò , lo fissò e iniziò a piangere. Un pianto disperato che mai avrebbe pensato di potere o dovere fare.  Quella sera fu l’ultima volta che lo vide.

Tommy l’aveva chiamata spesso, per sapere come stava, quando aveva tempo era anche andato a trovarla, prima che partisse. Era un ragazzo gentile e aveva un grande cuore nonostante  l’apparenza da stronzo, e sapeva anche essere un vero amico, quando non era sfatto dall’alcool e dalla droga. “Baby nemmeno io riesco a capire cosa cazzo stia passando per la testa di quello stronzo. Non vuole discuterne, si rifiuta e si chiude in se stesso, blocca chiunque provi a parlargli. Sai cosa ha avuto il coraggio di dirmi? “Fottiti Tommy non sono fatti che ti riguardano, non devo spiegazioni a nessuno”.  No dico se questi non sono affari miei di chi sono? Visto che i suoi giramenti di umore coinvolgono non solo se stesso ma anche quelli che gli stanno intorno, te in primis, gli altri ragazzi della band e me. Purtroppo è un caso perso.” A volte, quando si ricordava, tra un concerto e l’altro la chiamava ancora, le chiedeva se aveva fatto progressi, se stesse meglio, come se la cavava in mezzo a quella gente strana con quella lingua incomprensibile. E cercava sempre di stapparle una risata, sapeva come fare, la conosceva, era un gran burlone. E la capiva. Era sempre stato l’unico che non le aveva mai detto cosa fare o come comportarsi. “Prenditi i tuoi tempi, baby, solo tu puoi capire quando sarà tempo di tracciare una linea definitiva su questa storia e oltrepassarla. Però mi raccomando non perderti a piangere su te stessa, vai anche un po’ a divertirti eh, è lecito, in fondo hai pure la scusa che devi distrarti, se le cose si fanno, si fanno alla grande!”.  Lei gli voleva bene,ed era contenta che fossero riusciti a mantenere i contatti nonostante la lontananza e le vite oramai totalmente separate che conducevano. Tommy spesso le raccontava i casini che combinava con gli altri ragazzi, le avventure allucinanti in cui si invischiavano (ovviamente un po’ edulcorate visto che certe cose avrebbero fatto impallidire qualsiasi persona al di fuori di loro stessi) e in parte, in questo modo tentava anche di farle cambiare idea sul conto di Nikki, cercava di usare la psicologia inversa, però non era facile farla funzionare nella pratica. Lei diceva di stare bene, in realtà il ragazzo sapeva che stava mentendo, lo riusciva  a capire anche a centinaia di chilometri di distanza attraverso un telefono, però non poteva farci niente, sapeva cosa volesse dire essere innamorati perdutamente di una persona e quanto fosse difficile separarsene.

Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto improvvisamente da una bambina che le si era fermata davanti a fissarla. Lei la guardò. Era buffa con quei capelli neri raccolti in due codini con fermagli colorati, le sue guance paffute,quegli occhi scuri dolci e vispi e quel cappotto che la infagottava tutta. Nonostante il sole splendente, faceva ancora freddo a Tokyo, era un inverno che non finiva mai quello. Un po’ come quello che c’era dentro di lei. La ragazza sorrise alla bambina,  e chinandosi in avanti, le disse “Kon'nichiwa” salutandola con la mano. La bimba con le sue dita piegò gli angoli della bocca in una smorfia triste. “Anata ga kanashii?” Sei triste? Le disse in quel giapponese stentato che era riuscita a imparare in quei mesi di permanenza. La bimba fece cenno di no con la testa ma indicò la ragazza. “Watashi wa kanashii?” io sono triste?. La bimba sorrise soddisfatta per essersi fatta capire, ma restò lì, in attesa di una risposta. “Hai”-Sì. La bambina allora le mise in mano un piccolo rametto di fiori, “Shiawase” Felice.Le sorrise e corse via dai suoi genitori che la stavano aspettando dall’altro lato del vialetto. La ragazza si rigirò il suo dono tra le dita affusolate mentre guardava quella giapponesina correre via veloce come un folletto. “ Anche una bambina giapponese, guardandomi, si accorge che c’è qualcosa che non va in me”.  Sospirò. Tirò fuori dal portafoglio una foto in bianco e nero dagli angoli piegati, ritraeva un ragazzo dai lunghi capelli neri intento a scrivere su un pezzo di carta con una chitarra in grembo. Era una foto di Nikki, scattata mentre stava scrivendo le parole per una delle sue canzoni. Le piaceva moltissimo quell’espressione concentrata che assumeva quando doveva fare qualcosa di importante. Sul retro una scritta “Sei il mio tesoro Kim.” La osservò per bene come aveva fatto altre centinaia di volte. Solo che questa volta la guardò con occhi diversi. Il semplice gesto di quella bambina l’aveva quasi risvegliata dal suo torpore interiore. Felice.  Da quanto tempo non si sentiva più veramente felice? Per quanto tempo voleva continuare così, persa in quello stato di transizione, in cui ogni giorno scivola via uguale al precedente, non vissuto veramente? Aveva sofferto tanto. Spesso si ripeteva che era ora di finirla “basta, ora tocca a me, riprendere le redini della mia vita e ricominciare da dove era stata interrotta.” Ma non l’aveva mai detto credendoci fino in fondo. Ora, guardando quel ramo di ciliegio pieno di fiori, capì che era davvero giunto il momento di chiudere, non di dimenticare,semplicemente di chiudere. Poggiò il suo rametto in grembo e prese la foto. Le diede un ultimo sguardo e iniziò a strapparla. Ne fece tanti minuscoli pezzettini, e mentre lo faceva si sentiva alleggerire sempre di più. Ogni quadratino  che stracciava era una parte di dolore che se ne andava. Un’ancora che la legava al passato che veniva ritirata. Rimase con un mucchietto di carta in mano. Lo strinse in un pugno non sapendo esattamente che farne. In quel momento iniziò ad alzarsi un lieve venticello che fece oscillare le cime dei ciliegi. Un debole fruscio di fronde si diffuse per tutto il parco e il profumo si fece ancora più intenso. Kim respirò una boccata di quell’aria dolce, aprì il palmo della mano e lasciò che il vento portasse con sé i pezzi di quella foto, mischiandoli ai petali dei ciliegi. Era stato difficile da ammettere ma forse era così che doveva andare, in fondo nulla dura per sempre.Sorrise guardandoli volare via. Si sentiva finalmente pronta. Pronta per ricominciare a pensare a se stessa. Per tornare a vivere.
   
 
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