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Autore: TittaH    02/02/2011    3 recensioni
E' un racconto personale, scritto per la morte della mamma del mio migliore amico. Leggerlo ogni volta mi fa male, ma dopo mi sento svuotata e inerme da ogni dolore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Memories

Pezzi di vita buttati in un angolo per sopprimere il dolore.

Varcare quella porta non era mai stato così difficile.

I piedi procedevano a passi piccoli e lenti e i secondi duravano anni.

Non faceva piacere entrare in una casa – la propria casa - e sentirsi un estraneo.

Guardarla dall’esterno era come fissare la propria vita finire, perdere l’anima.

Morire.

Come te.

Sei andata via, in un semplice giorno qualunque che ora ha acquistato un altro significato, come nulla, come le foglie d’autunno che lentamente si staccano dal ramo rinsecchito e volano guidate dal vento freddo che ti fa rabbrividire.

E rabbrividisci, osservando la cucina, il primo luogo dove la trovavi ogni mattina sveglia intenta a preparare il caffè per tutta la famiglia, dove la abbracciavi da dietro facendola sussultare e dove le donavi il classico bacio del buongiorno rendendola fiera e felice di te, trovandola vuota, spenta, inutile.

Sposti lo sguardo, posandolo sulla poltrona verde bottiglia dove ogni pomeriggio guardava la televisione; ricordi tutte le frasi che diceva ai protagonisti delle telenovelas convinta che la ascoltassero e tutte le risate che facevi quando, facendola innervosire, la rimbeccavi “Mamma, non ti ascoltano mica!”.

 Trovi un solco sul cuscino della poltrona, la sua forma, e una lacrima si fa spazio tra i tuoi occhi. Ti siedi e senti il suo abbraccio che ti coccola, ti riscalda, ti fa sentire un po’ a casa. Ma una volta tornato in piedi la magia finisce.

Ti senti solo, incompreso, ti manca e non vuoi ammetterlo.

Urli e tutto rimbomba in quella casa buia e spenta e anche nella tua testa che ormai è piena di pensieri, ma vuota senza di lei.

Lei che ti capiva sempre, anche quando sbagliavi, e ti giustificava in ogni piccolo gesto; lei che ti perdonava in qualsiasi caso, che sapeva chiederti scusa e farti diventare piccolo piccolo di fronte ai suoi occhioni scuri e lucidi; lei che ti donava tanto amore, ma che ha rimasto solo rancore da quando non c’è più.

Già, non c’è più e non ritornerà.

Dirlo ad alta voce è come appurarlo solo in quell’istante e allora corri, buttando tutto quello che trovi davanti a te sul pavimento, non curando se si frantumava in pezzi o se sporcava. Non t’importava se stavi distruggendo una casa che le apparteneva e che ancora la appartiene, ma che senza la sua presenza è insignificante.

Non ti serve più se non ha senso.

Lo pensi continuamente, senza smettere di rompere tutto.

E d’improvviso ti ritrovi nella camera dei tuoi genitori. C’è il loro letto matrimoniale ben fatto, morbido, caldo e sempre in ordine; c’è il comodino con la lampada, che accendeva prima di andare a dormire per leggere qualche pagina del suo romanzo preferito; c’è il grosso credenzone di legno massiccio, con sopra posato un grosso lume, uno specchio pulito e limpido e l’album delle foto del suo più felice giorno: il giorno del suo matrimonio.

Lo prendi con cura, ti siedi sul letto raggrinzando un po’ le lenzuola candide e inizi a sfogliare, rivivendo i suoi ricordi.

La vedi sorridere con indosso l’abito panna dei suoi sogni, sembrava una principessa con il diadema nei capelli scuri raccolti sulla nuca. Il trucco leggero, il sobrio vestito e il suo sincero sorriso, accompagnato dagli immancabili occhi luccicanti ed emozionati, la esprimevano appieno per ciò che era: una semplice donna che amava sua marito e che ha amato e rispettato fino alla fine dei suoi giorni.

Chiudi l’album sentendo le forze mancare.

Non puoi più continuare a guardarla sorridere, mentre tu piangi tutto il tuo dolore.

Scagli le sue foto a terra e apri il suo armadio prendendo i suoi vestiti; li poggi sul letto, ormai sfatto.

Cerchi qualcosa, ma con la vista appannata non riesci a vedere dov’è.

Poi, però, lo trovi, lo prendi e lo annusi.

Sa ancora di lei, il suo abito da sposa, ancora ben conservato. T’inebri del suo odore, impregnato tra pizzi e merletti e lo bagni di calde lacrime che sanno di dolore, tristezza, solitudine, rimpianti, rancore, malinconia.

È un miscuglio di emozioni e sensazioni che ti bloccano il respiro e t’impediscono di fare qualunque cosa.

Poggi sulla sedia l’abito e apri i cassetti del suo comodino trovandovi i suoi gioielli e il suo libro; lo afferri e per caso cade un foglio bianco.

Lo prendi, con lo strano presentimento di saper già di cosa si tratti, e con le mani tremanti apri quel pezzo di carta piegato in due.

Noti la calligrafia leggermente imperfetta e capisci che il tuo presentimento era vero.

Torni in sala e ti siedi sulla poltrona, dove senti nuovamente quel calore così umano che ti spaventa leggermente e incominci a leggere quelle parole, col nodo in gola.
 

“Figlio mio,
Se leggerai questa lettera, vuol dire che non sarò più lì con te, fisicamente.
Sappi che non sarò poi così lontana, sarò sempre accanto a te a proteggerti e volerti bene, amore mio.
Non pensare mai che ti abbia abbandonato, non è stata una mia scelta. Dio sa cosa ci aspetta, lui ha un disegno per tutti noi. So che ti arrabbierai leggendo questa frase che non ti è mai piaciuta, ma è la verità e devi accettarla.
Devi promettermi una cosa sola, tesoro, che non butterai la tua vita, che non ti piangerai addosso perché la vita continua.
E ammetto che mi spaventa un po’ pensarti senza di me accanto.
Mi preoccupa solo immaginare che tu abbandoni la scuola, gli amici e la tua amata musica. Non smettere di fare ciò che ami, non smettere di rendermi fiera di te ogni sacrosanto giorno.
Non farlo mai amore.
Sono consapevole del fatto che i gesti più semplici e quotidiani diventeranno incubi senza di me, sono consapevole che a volte farai stupidaggini perché ti mancherò e non vorrai ammetterlo.
Sono consapevole di tutto.
Giura soltanto che vivrai come io ho sempre voluto che tu vivessi.
Anche se sono andata via a pochi mesi dal tuo diciottesimo compleanno, festeggialo figlio mio, in mio onore e nella mia memoria.
Sarò lì a fare le foto con te, a sorriderti sempre e a ballare con te.
Non ti lascerò mai solo.
E se qualche volta vorrai un mio abbraccio, siediti sulla poltrona ed io lo farò, ti abbraccerò come ho sempre fatto, con tutto l’amore che posso.
Ora ti lascio, perché sento che è arrivata la mia ora.
Ci sarò, quando avrai bisogno di me, ci sarò sempre.
Mamma.,,

 


Una goccia bagna l’ultima parola che, lentamente, sbiadisce.

Mamma.

Non potrai mai più vederla, abbracciarla, non potrai mai più farla arrabbiare e poi sorridere, non potrai mai più chiamarla quando sarai triste o quando sarai felice per condividere con lei quel sentimento allegro.

Non potrai mai più carezzarla prima di portarla a letto, come eri ormai solito fare negli ultimi anni di malattia; non potrai più baciarla sulla fronte o sulla guancia facendola arrossire.

Non potrai mai più dire Mamma.

Ed è con questa consapevolezza che ti addormenti sulla poltrona tanto amata, che prima era stupida e non ti piaceva e ora è l’unica cosa di lei che ti resta, con la sua lettera stretta sul cuore e la sua voce nella testa che ti sussurra una semplice frase.


 

“Abbi cura di te.” 

  
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