Look at
me
*
Sparsi
tutt’attorno sul pavimento della piccola camera del Paiolo Magico, simili a funghi
spuntati dal sottobosco, vestiti dalle più disparate forme, con tonalità
sgargianti tanto assurde da risultare inguardabili ad occhio babbano quanto
stregonesco.
Ted
distolse lo sguardo scuro da quel disordine, riflettendo tra sé che avrebbe davvero
dovuto decidersi a rifare i bagagli al più presto, un lampo indecifrabile e
fumoso ad attraversarlo e poi scomparire pensando anche a quella che sarebbe
stata la reazione della nonna vedendo lo stato caotico in cui imperversava la
stanza.
Appoggiò
le mani ai bordi del lavandino e strinse i palmi nel piano duro come a volervi
imprimere i segni indelebili del proprio passaggio. Piccole fitte di fastidio
per quella pressione dolorosa gli trapassarono le falangi, ma non ridusse la
forza adoperata né ebbe il coraggio di alzare il capo ed incrociare quello del
suo gemello.
O
peggio quelli della coppia che la carta un poco stropicciata della
fotografia,
quasi fosse stata appallottolata in preda a furia cieca e poi
riassestata alla
bell’e meglio col rammarico sofferto del rimpianto di
un’azione sciocca e impulsiva, non mancava certo di rimandare.
Sotto una cascata di petali di
fiori, nell’atto di danzare un valzer sgraziato causa forse la
maldestra
goffaggine di uno o di entrambi i ballerini, espressioni serene e occhi
sorridenti, volti gioiosi e vivi: i
suoi genitori. Quelli che non aveva mai avuto modo di conoscere, non davvero, e
dei quali non conservava il minimo ricordo se non gli strascichi labili di un
profumo dolciastro e l’eco di una risata roca alla sua conclusione attardata.
Era
semplice, si disse, così tanto da risultare ridicola tutta quell’esitazione e
patetica la constatazione misera non avesse mai preso in considerazione l’idea
di farlo prima.
Si
trattava di concentrarsi su quei tratti, chiudere gli occhi e puf!- riaprirli e
ritrovarsi diverso e sconosciuto in modo inconsolabilmente vuoto. Trasformarsi
in fondo faceva parte della propria natura di metamorfomagus, non c’era nulla
di nuovo in quello che si apprestava a fare, nulla di diverso dal solito. Ok,
forse assumere l’aspetto di una persona –morta-
morta sì, non faceva parte dei cliché di cui la sua vita era costituita.
Baciare Vicky ad esempio, quello sì che era un’abitudine, un’azione divenuta
quotidiana e indispensabile nel corso degli anni.
Respirare
direttamente dalla sua bocca, labbra su labbra, naso contro naso, così vicino
da contarle le ciglia e scoprire quante diverse tonalità di azzurro i suoi
occhi riuscissero a contenere, osservare come la luce si riflettesse sui lisci
capelli rossi rendendoli fuoco pulsante quanto il cuore che sentiva battere
impazzito sotto le dita a ritmo forsennato e uguale al suo.
Il
pensiero di Vicky non servì a tranquillizzarlo semmai ad acuire l’inesprimibile
bisogno desideroso che aveva di affondare in un abbraccio.
Le
braccia di lei che gli si intrecciavano dietro il collo, il suo respiro
incrociato sulla spalla e il petto morbido su cui avrebbe posato esausto il
volto mentre lei diramava la sua espressione corrucciata tra le sopracciglia
scure con l’abilità delicata dell’artista che rimodella una propria opera. Avrebbe disteso quelle rughe d’impazienza con
amorevolezza esperta, l’uso adoperato di gesti ripetuti con frequenza e
divenuti a entrambi cari e familiari.
Era
anche per quello in fondo se si era innamorato di lei. Lo comprendeva, sempre e
senza gli occorresse dare voce ai suoi pensieri, trasformandoli in parole
fastidiose e cave delle emozioni traditrici che suscitavano nella sua mente.
Ted
scrollò la testa e le spalle in un movimento di indolenza mansueta e per nulla
pigra.
Puntò
l’iride sulla foto con una determinazione nuova e ostinata e non si stupì nel
sentire qualcosa di caldo e umido premere contro le palpebre serrate sul punto
di chiudersi.
Immaginò
il sorriso storto arcuarsi verso il basso e tramutarsi in una smorfia
involontaria, ma non riaprì lo sguardo, mantenendo fissa la sua attenzione
sull’immagine su cui si era focalizzato. Il viso si modellò secondo la visione
creata e quando i lineamenti smisero di muoversi impazziti e la metamorfosi fu
completa, Ted schiudendo i propri incrociò gli occhi del suo riflesso
modificato. Gli occhi di suo padre.
Remus
Lupin aveva il volto più segnato e stanco di quanto la risata felice nella foto
non facesse presupporre o forse era lui ad aver dato al padre una vecchiaia più
incipiente di quanto nella realtà antecedente alla sua morte non fosse stata.
Portò
una mano alla guancia scavata e sfiorò la pelle malaticcia che fremette sotto
il tocco di quei polpastrelli ruvidi e screpolati, estranei; prestò allora maggiore attenzione ai lunghi lividi scuri
che gli ombreggiavano l’estremità delle pupille leggermente oblique, cerchiate
da pesanti occhiaie, di un marrone caldo affogato nel miele e nell’ambra, una
sfumatura identica alla pelliccia di quello che era stato un suo vecchio
lupetto di peluche, regalatogli da Harry tanti e tanti anni prima.
Avrebbe
dovuto capirlo allora che niente fosse dovuto al caso.
Il
Remus del riflesso non sorrideva, ma l’espressione sorpresa e mesta gli
arricciava gli angoli del mento come frammenti spezzati di ricordi scomposti.
Linee dure, profonde, addolcite appena dalla gentilezza che Teddy riusciva
comunque a scorgere nel suo –il suo,
dannazione!- volto.
Aveva
tempie prematuramente ingrigite e quasi immusonite, alte e un’aria colta che
non ammansiva l’aspetto selvaggio che in generale possedeva.
Sembrava
avesse vissuto chissà quanto all’aperto tra soprusi e angherie e della premura e
una certa galanteria generale avesse perciò deciso di rendere il proprio credo.
Suo
padre era stato un rinnegato, ricordò tra sé, prima di diventare un eroe. Era
stato solo un uomo. Un vecchio mago lasciato troppo a lungo solo negli incubi
grifagni delle proprie paure inconfessate e mai completamente accettato dal suo
stesso animo.
Un
licantropo che ad ogni luna piena si era morso la coda ancora e ancora ululando
un odio feroce e brutale contro la natura che lo aveva mutato in qualcosa di
mostruoso, diverso. Aveva mai provato
ribrezzo per ciò che era, suo padre? E se così era stato come era riuscito ad
accettare l’amore di sua madre? Il pensiero che lei si abbassasse allo stato
meschino di moglie di un mostro, accontentandosi quando avrebbe potuto avere
tanto di più, sapendo meritasse altro e tanto altro ancora che lui pur disposto
a concederle non sarebbe mai stato in grado di offrirle, come aveva fatto ad
accettarlo?
Studiò
con interesse atavico i suoi genitori, analizzò l’abbraccio spensierato in cui
erano racchiusi l’una dalla presa del secondo e viceversa. Si erano amati o era
stata solo la paura della solitudine ad avvicinarli in quel periodo di guerra e
terrore dove tutto era sembrato nero, l’apocalisse doveva essere apparsa tanto
vicina da essere sfiorata?
Eppure… Sì, il modo in
cui si scrutavano di soppiatto tra una risata incontrollata e l’altra, troppo
lievi per essere vere e troppo fragili perché non gli sembrassero meravigliose,
come ad accertarsi fossero proprio lì, fosse tutto reale, vero. Quello non
poteva essere solo un sentimento leggero dettato da un impulso provvisorio.
Come si stringevano disperatamente alle spalle e alla vita, quasi dalla
presenza e dalla felicità dell’altro dipendesse la propria, il volto radioso di
sua madre e quello un po’ colpevole e più pacato, misurato nel calibrare
quell’attimo sfuggente di gioia incompleta, del padre. Quella non poteva essere
finzione, né mera illusione.
Era
amore semplicemente, puro e semplice. Come quello che vedeva dipanarsi in lacci
sottili e inestricabili in ogni dialogo tra Harry e Ginny, in quello che
sentiva legarlo a Vicky. Era il tipo d’amore che illuminava lo sguardo, anche
il più sgualcito e trasandato, e disarmava per l’intensità intima e radicata
che comprimeva tutto l’animo denudandolo degli artifizi di menzogne improprie,
smantellando in pezzi il terrore innato di venirne sommersi.
Doveva
essere stato difficile per i suoi genitori all’epoca trovarsi a fare i conti
con quel genere d’amore, la fortuna d’averlo sì scoperto, ma anche d’essere
costretti a pregare perché quella forza non diventasse anche debolezza, il
perno su cui il nemico potesse colpirli per farli cadere nell’ombra delle sue
oscure minacce. Era un amore che avrebbe potuto frenarli, ma che non aveva
impedito loro di diventare gli eroi che erano destinati ad essere.
Si
passò una mano tra la zazzera arruffata, in un’abitudine che aveva imparato a
fare anche propria vedendola affacciarsi così spesso nei gesti familiari di altri,
ora di una tonalità accesa e intensa, il blu del cielo al crepuscolo primaverile
e quello che secondo i racconti di nonna Meda doveva essere stato appena dopo
la fine della guerra prima che sgargianti fuochi di fuoco fiorissero e
divampassero nel velluto della volta celeste cadendo in scie argentate di stelle
cadenti.
Incrociò
il proprio sguardo ritornato suo, ma non del tutto, castagna tiepido e
indorato, e il sorriso timido nell’incertezza che lo animava, un sospiro lieve
a dischiuderglielo e mostrare una risata sghemba e malandrina.
Riusciva
a scorgere adesso quelle somiglianze, a riconoscere in sé le peculiarità uniche
e finalmente note che lo rendessero figlio dei suoi genitori. Colori,
lineamenti, la lealtà di Tosca e l’orgoglio di un Grifondoro, ma sopra ogni
altra cosa la forma del sorriso sfacciato, contraddistinta nei sogni e dal
sapore dei sentimenti che lo rendevano tanto prezioso.
Lanciò
uno sguardo in sordina al comodino di fianco al letto, groviglio di lenzuola
ammucchiate su cui troneggiava il baule mezzo pieno e gli scappò una risata
liberatoria, franca. Un sentimento tranquillo ad invadergli il petto come una
bolla esplosa. La scatolina non aveva più il tetro aspetto di poco prima e la
proposta che avrebbe dovuto accompagnare gli sembrava di una facilità così
disarmante ora da risultare ridicola, quanto poco credibile l’ansia che l’aveva
divorato fino a un attimo fa. Se i suoi genitori erano stati capaci di
combattere e contemporaneamente mantenere in piedi una famiglia, lui non poteva
certo essere da meno, valutò con un ampio sorriso. Esimersi dall’essere
altrettanto innamorato. Sarebbe stato felice con Vicky, completo, avrebbe ricostruito la sua famiglia e sarebbe stato un
bravo genitore. E un giorno chissà, forse Remus e Dora sarebbero stati
orgogliosi dei loro nipoti come lui lo era di loro.
E, sperò tra sé
ardentemente, un soffio di polvere e granello di dubbio ad incrinargli appena l’orlo
della bocca arricciato in un sorriso discreto, anche di lui.
Missing
moment su Teddy scritto in un momento ispiratore sulle note della canzone
Perfect dei Simple Plan di cui consiglio l’ascolto, non ai fini della lettura,
ma solo perché bella a mio parere :).
Ci sarebbero tante cose da dire, da spiegare, ma preferisco scegliere
un silenzio pieno delle parole non dette, del dolore e il senso di
perdita che credo ognuno abbia un po' provato leggendo di loro e della
loro fine. Così come tutti credo possono comprendere i
sentimenti contrastanti di Teddy... Un saluto a tutti!