Mal di
testa.
Socchiuse
gli occhi, massaggiandosi lentamente le tempie.
Odiava i
viaggi lunghi. Odiava prendere l’aereo, piazzarsi su una poltroncina giallo
vomito senza spazio per le gambe, con delle hostess sempre troppo brutte per i suoi
standard (ma in fondo lui avrebbe eliminato dal mondo tutte le donne inferiori
al metro e settanta e superiori alla taglia quarantadue –tutte tranne Mercedes,
è ovvio-) e del cibo pieno di colesterolo che si andava a ficcare direttamente
nei suoi fianchi e nelle sue vene.
E quando si ritrovò abbracciato alla valigia,
lontano ormai trecento metri dal suo taxi imbottigliato nel traffico, fradicio
da capo a piedi e nero di rabbia, riuscì a capire perché oltre ai viaggi lunghi
lui detestasse anche le file lunghe.
Si
sedette su degli scalini sporchi, decidendo che per una volta tanto il suo
impermeabile Dolce & Gabbana poteva anche sperimentare il contatto col
pavimento. Tanto a casa c’era la colf a stirare e lavare.
Aveva
mal di testa. Un mal di testa tremendo, doloroso, penetrante. Quasi uno
schifoso ago che gli penetrava il cervello da parte a parte, uccidendo ogni
forma coerente di pensiero e riempiendogli la mente solo delle atroci urla di
dolore dei suoi neuroni moribondi.
Sospirò,
infilandosi le cuffie dell’iPod nelle
orecchie, sperando che un po’ di musica alleviasse il dolore.
Ricordava
quando Richard, in una seduta di parrucco in cui l’aveva beccato in “modalità allegra” , gli
aveva detto che il modo migliore per sentirsi bene è scopare e che probabilmente
il suo mal di testa era dovuto all’assenza di volatili allegri nella sua vita.
Però
mica si era offerto volontario per alleviare il suo dolore, lo stronzo.
Guardò
il suo riflesso ondeggiante e frammentato in una pozzanghera. Era forse
diventato brutto? Dov’era il Kurt Hummel adolescente
che cantava con tutti i riflettori puntati su di lui e faceva cadere tra le sue
braccia qualunque maschio con un semplice schiocco di dita?
Sospirò
affranto.
- Hai da
accendere?
Alzò lo
sguardo di scatto, lasciando scivolare una cuffietta sulla spalla. Un ragazzo
tremendamente alto se ne stava in piedi davanti a lui, una sigaretta senta
stretta tra le dita bagnate.
Prima
ancora che potesse rispondere “no, non fumo, mi dispiace” e iniziare la sua
lunghissima filippica “anti-fumo” con cui di solito apostrofava i giovani che
gli chiedevano accendini o sigarette le sue mani si erano infilate
automaticamente nella valigetta, cercando un qualunque cosa che producesse una
fiamma.
Frugando
fra i vari spray per la gola, le pillole per il mal di testa (terribilmente
inutili), un mazzetto di penne senza tappo e altre cose inutili alla fine
riuscì a trovare un pacchetto di fiammiferi amabilmente sottratti al Kempiski di Sofia.
-
Tieni.- disse porgendogli i fiammiferi. Il ragazzo guardò fissa la scatoletta,
rivolgendole uno sguardo strano, come se si aspettasse che all’innocuo
oggettino spuntassero le zampe e le zanne. Lo aprì con circospezione,
osservando per qualche secondo i fiammiferi con aria perplessa.
Kurt lo
guardò mentre rompeva cinque fiammiferi, sfregandoli con la grazia di un
bisonte sulla striscetta abrasiva della scatoletta, la quale chiedeva a gran
voce di venir tolta da quelle manacce inette.
Con un
sorriso lo fece avvicinare a sé, togliendogli la scatola dalle mani. Il ragazzo
lo guardò leggermente stranito mentre accendeva un fiammifero con un unico
gesto elegante e lo allungava verso la sua bocca per consentirgli di accendere
la sigaretta.
Rimase
incanto a fissargli le labbra, belle labbra rosee e colme di fanciullo fatte appsota per essere baciate e morse fino a farle diventare
rosse e lucide e – Ah!- lasciò cadere il fiammifero, soffiandosi sulle dita
arrossate dalla fiamma. Lanciò al fiammifero uno sguardo riconoscente: gli
aveva impedito di considerare l’idea di commettere un crimine.
Santo
cielo, quel ragazzo non doveva avere più di diciassette anni!
Il
ragazzo lo guardò preoccupato – Si è fatto male?- domandò con un tono
apprensivo semplicemente adorabile.
- No,
no- sussurrò Kurt con la bocca spiacevolmente secca – per nulla.
Il
ragazzo si sedette accanto a lui, osservando il fumo che saliva verso il cielo
che ancora scaricava pioggia su pioggia su pioggia senza alcuna pietà.
Kurt
guardava il ragazzo, cercando di far tornare i suoi organi interni al loro stadio
di naturale funzionamento.
- Dove
siete stato?
- Eh?-
Kurt trasalì, ritrovandosi a guardare gli occhi scuri dal ragazzo, che ripeté
pazientemente la domanda – Ah, torno ora dall’Europa.
-
Lavoro?
- Sì.- si strinse al petto la valigetta – Sai, sono un produttore.
Produco musical. Mi sono sempre piaciuti, sai? Fin da giovane amavo cantare.
Il
ragazzo lo guardò incuriosito. Era adorabile con quell’espressione, sembrava un
grazioso animaletto Disney – E, beh, ho anche fatto l’attore per Broadway,
quand’ero più giovane. Ero discretamente famoso. Ma cosa dico, molto famoso!
Doveva
fermasi, doveva fermarsi prima che quel torrente di stupidaggini rompesse gli
argini trasformandosi in un lago di cazzate, doveva fermasi e fuggire, prima di
spiattellare la sua vita ad un ragazzetto mai visto in vita sua – Mi chiamo
Kurt Hummel, avrai sentito parlare di me, immagino.
- Sì,
certo- disse il ragazzo con un sorriso incerto che valeva più do un “no, mai” –
io sono Finn.- disse poi allungando la mano. Kurt la
strinse meccanicamente, avvertendo il calore del ragazzo sulla pelle umida.
Ah,
santo cielo. Quel ragazzo sembrava uscito direttamente da un certo passato,
quel passato vecchio come il cucco che se ne stava malignamente appollaiato nel
suo cervello in attesa di un suo passo falso. E quel ragazzo, quel “Finn” alto e magro, dagli occhi scuri e
il viso pulito era il passo falso per definizione.
Allungò
una mano, sfiorando quasi casualmente il gomito del ragazzo. Lui lo guardò
leggermente stupito, con uno sguardo quasi inebetito (che rima adorabile) e un
sorriso incerto – Signor Hummel?
- Te ne
vai?- domandò con un lieve tremito della voce. Il ragazzo scosse la testa,
schiacciando la sigaretta sullo scalino.
Alla
fine non l’aveva neanche fumata quella sigaretta, limitandosi a prenderne due
boccate e mettendosi poi a fissarla. Per un attimo gli venne da pensare che il
ragazzo avesse usato la sigaretta come scusa per avvicinarsi a lui. Scacciò il
pensiero dalla testa con la stessa energia di chi caccia un calabrone molto
brutto dalla tavola del pranzo.
- Quindi
rimani?
Il
ragazzo annuì.
Socchiuse
gli occhi, guardando il viso del ragazzo. Finn, aveva detto di chiamarsi Finn.
Già proprio così, Finn.
Se ne
stava sprofondato nel piumino troppo bianco e troppo vaporoso messo a
disposizione dall’albergo per coprire quel letto eccessivamente grande che
rendeva triste qualunque notte passata da soli.
Era delizioso vedere quel corpo muscoloso scomparire fra le pieghe del
piumino, avvolto in quel candore celestiale.
Lo
guarda in silenzio e il ragazzo rispose al suo silenzio con altro silenzio. Era
quel genere di silenzio saturo di emozioni e leggermente imbarazzato che
precede sempre qualcosa di dannatamente magnifico.
“Finn” uscì dal bagno completamente fradicio,
avvolto in una tenda da doccia rosso sgargiante.
- Ti
ricorda nulla?- domandò divertito. Kurt scoppiò a ridere, rotolando
indegnamente sul letto.
Kurt
osservò accigliato i vestiti di “Finn”
sparsi sul pavimento – Fossi tua madre non ti lascerei andare in giro così-
disse indicando con un piede una maglia di un indefinibile color marrone
cacchetta – sembri appena uscito da una vendita di abiti usati.
- Se tu
fossi mia madre- disse “Finn” che se
ne stava tutto bello spalmato sul suo petto – io avrei una madre gay.
Al
mattino il ragazzo era sparito.
Si
guardò attorno affranto, mugugnando fra se e se che era stato tutto troppo
bello per essere vero, che doveva essere un sogno.
Eppure
non era un sogno.
C’era la
tenda da doccia abbandonata su una sedia, il divano del salottino sporco di
cioccolata calda (non pensate male. L’avevano bevuta tutta), un asciugamano sul
pavimento.
Strisciò
verso la doccia, trascinandosi dietro una nuvola oscura di depressione.
“Kurt,
ti devo dire una cosa”
- Cosa?-
domandò spiluccando uva da una cesta di frutta – Hai distrutto l’ultimo vaso
Ming?
“Anche.
Ma questa
è più importante.”
-
Avanti, dimmi.
“Ieri,
tipo, poco dopo che mi hai chiamato per dirmi che eri arrivato a New York, stavo
uscendo dalla palestra quando inizia a piovere a diritto. Una cosa atroce,
giuro.”
- Ah-ah.
“E avevo
un mal di testa” si fermò un momento “terrificante. Come se qualcuno mi avesse
ficcato uno spillo nel cervello! Allora m’imbuco sotto un portico e un ragazzo
mi si avvicina, chiedendomi quando passa l’autobus che porta al teatro. Sai
l’autobus che prendo sempre per tornare a casa, no? Gli dico che passa tra
poco, lui mi chiede a che fermata deve scendere e io gli dico che glie la posso
indicare quando ci passiamo davanti.”
Kurt
rimase in silenzio. C’era qualcosa di familiare in quel racconto e sapeva
benissimo cosa.
“Smette
di piovere. Io e questo ragazzo scendiamo. Lo porto fino al teatro. Lui si
presenta, sorride, dice di chiamarsi Kurt. Dice che ha sentito parlare di me
per via del Glee Club, dice che ha visto il mio
gruppo alle Nazionali, che sono famoso o qualcosa del genere. Dice di chiamarsi
Kurt e che vuole diventare una stella.”
Arrossisce.
Una parte di lui sa benissimo che sono le stesse cose che avrebbe detto lui a
Finn. Se avesse avuto sedici anni, è ovvio.
“Ci
mettiamo a parlare, ridiamo, è caustico e spiritoso, ma ha uno sguardo dolce,
un sorriso splendido, sembra fatto per essere amato.” La comunicazione
s’interrompe di nuovo “Abbiamo fatto l’amore. Nei camerini del Teatro. Lo sai
che per me sono sempre aperti, no?”
Certo
che lo sa. Hanno fatto l’amore lì dentro mille volte (e lo rifaranno ancora
altre mille, ne è sicuro). Ma in quel momento, in quel preciso momento non
riesce a non ridere – Finn, mi è successa una cosa molto simile, sai?
“Ma
perché? Insomma, ho Kurt Hummel trentenne, non me ne
faccio nulla del sedicenne. Cioè, per carità, eri splendido a sedici anni, ma
adesso hai decisamente più fascino.”
- Tu no.
Ti è venuta la pancetta.
“Tu partorirai
con dolore. Al tuo uomo verrà la pancetta. Ad ognuno il suo anatema, signor Le
Chiappe Mi sono Scese Così Tanto Che Le Trascino Per Terra.”
- Tsk.
“Sei
bellissimo, lo sai.”
-
Ovviamente. Anche tu non sei male. E non bere birra, o la pancetta s’ingrossa e
la gente ti chiederà se aspetti un bambino.
“Oh,
questi preservativi poco sicuri…”
-
Comunque, sai da cosa si capisce che i nostri sono splendidi viaggi mentali?-
domandò Kurt osservando un acino d’uva – Dai particolari- continuò ignorando il
“come sarebbe a dire nostri? Kurt, chi hai incontrato tu?!” – il mio Finn è
comparso con addosso una tenda da doccia rossa.
“Mentre
il mio Kurt a un certo punto ha scovato un elmetto da non so dove.”
Rimasero
entrambi in silenzio.
“Ti
amo.”
- Ti
amo.
“Torni a
Brooklyn in fretta, vero?”
- Arrivo
questa sera.
“Ti
aspetto.”
- Non
ringiovanire troppo.
Spense
la chiamata e si lasciò affondare nel piumino.
Sorrise.
Il mal
di testa era passato.
A.Corner___
Avete
presente quelle cose che fate e di cui vi pentite subito?
Questa è
una di quelle.
La
lascio alla vostra libera interpretazione.
Ma sono
sempre pronta a rispondere a qualsiasi domanda ♥
È
possibile che ci siano errori di battitura. Se li vedete segnalatemeli ♥