Tic
toc. Tictoctictoc. Tic toc.
L'orologio appeso in cucina, antico
cimelio di famiglia, segnava le 23.30 di sera.
La finestra affacciata sulla strada,
leggermente accostata, si spalancò improvvisamente per un colpo di
vento e la notte entrò, con tutta la propria irruenza, in casa di
Selene.
Lei era seduta per terra sul parquet in
salotto,con le gambe piegate contro il petto e le mani intrecciate
sulle caviglie. La morbida bocca rosea poggiava sulle ginocchia, gli
occhi erano aperti e sembravano essere stati inglobati dalla notte
entrata dalla finestra.
Si dondolava leggermente, quasi a
volersi cullare per sentirsi più protetta in quella casa vuota.
I capelli ricci e neri erano sciolti e
ricadevano pesantemente sulle spalle e sulla schiena; la sua
capigliatura selvaggia e aggressiva contrastava molto col pallore del
suo viso e con il suo sguardo smarrito, come quello di un cerbiatto
intrappolato dalle fauci di una tigre.
Di tanto in tanto aguzzava la vista
sperando di veder apparire sullo schermo del suo cellulare un
messaggio da un'amica, da un ammiratore, da qualcuno che
semplicemente desiderava parlare con lei. E puntualmente ritornava a
fissare il vuoto senza aver ricevuto alcunché.
In serate come quella di solito si
soffermava a guardare le foto di quando era piccola e innocente;
osservava una Selene minuscola, gracile e sorridente, con le guance
arrossate e gli occhi lucenti.
Quella sera non aveva bisogno di
cercare vecchi album. I ricordi erano appostati dietro alle palpebre,
e lei cercava di sbatterle il meno possibile per non doverli
rievocare. Per non doverli rimpiangere.
Sentiva un dolore all'altezza del
petto, e per combatterlo cominciò ad accarezzarsi delicatamente la
pelle, come avrebbe fatto una madre che attende che la sua bambina si
addormenti fra le sue braccia.
Immersa in quel silenzio scuro si sentiva sola.
Non
era una solitudine semplicemente
esteriore: era abituata a rimanere a casa da sola quando i suoi
genitori uscivano a cena con amici. Si sentiva impregnata di una
sensazione di abbandono che la accompagnava ovunque, a scuola,
durante le serate con quelle che sembravano amiche, a casa con la
famiglia e da sola.
Iniziò a cercare nell'oscurità
qualunque dettaglio che la potesse distogliere dai propri pensieri,
ma la ricerca risultò ben presto vana. Il buio la avvolgeva fuori e
dentro di sé.
Quella sensazione di vuoto sconfinato durava ormai da molto tempo; quando ci pensava, non vi trovava mai un principio certo, definito. Eppure nella sua memoria appariva sempre un'immagine, un avvenimento risalente a quando aveva quattordici anni.
Perché non puoi essere diversa, Selene?
Vorrei tanto non averti mai messa al mondo!”
Sì, avrebbe voluto
anche lei essere diversa, ma sentirlo dire da sua madre, che
aveva il rimorso di averle dato la vita, l'aveva segnata in modo
irrimediabile.
Quel giorno non lo aveva più dimenticato.
Selene si alzò dal
pavimento e si diresse verso la grande vetrata da cui si poteva
ammirare una luna piena e brillante che sostava imperiosamente nel
cielo sgombro di nuvole e di stelle. Si alzò in punta di piedi per
osservare le persone per strada che, come formichine, zampettavano
rapidamente per tornare a casa.
Incrociò le
braccia sul petto e appoggiò la testa contro il vetro, lasciando
vagare il proprio sguardo stanco nella notte.
Le sue dita
sfiorarono casualmente le costole sporgenti. Selene cominciò a
tastarsi il torace, e le sembrò che vi fosse troppa carne che le
impediva di sentire le ossa.
Iniziò a tremare.
“Sono ingrassata”, pensò.
Si tastò la pancia, le braccia, i fianchi, i glutei, il collo, le gambe; toccava il proprio esile corpo sempre più velocemente, con sempre maggiore frenesia, perché esso le dava la conferma dell'avvenuto aumento di peso. O così percepiva lei.
Cercò il proprio riflesso nel vetro e, benché non riuscisse a vedere che un'ombra di se stessa, le sembrò che il suo viso fosse diventato paffuto.
Si
precipitò nel
corridoio, sentendo il grasso del corpo rimbalzare ad ogni suo rapido
passo.
Raggiunse
l'anticamera. In essa vi era appeso un grande specchio, dono dei suoi
nonni materni.
Si fermò ansimando a qualche metro di distanza da esso; temeva di specchiarvisi, ma doveva togliersi quel dubbio che le attanagliava lo stomaco. E alla fine ci si pose di fronte.
Quegli occhi verdi erano così vuoti, quei capelli neri e ricci erano così opachi, quel viso era così brutto e quel fisico così rotondo e formoso che il desiderio di rompere quello specchio e strapparsi via la carne le azzannò la mente con una furia tale che si accasciò a terra per sopportare i boati nella sua testa.
“Come sei bella, Selene!”
“Accidenti, che bel fisico!”
“Vorrei avere i tuoi occhi..”
Quei commenti le ronzavano nella testa come fastidiose api pungenti. Avrebbe voluto escluderli, dimenticarli, non averli mai sentiti. Eppure questi continuavano a riecheggiare dentro di lei. Non li voleva ascoltare, non era vero nulla di ciò che le dicevano gli altri. Erano solo menzogne dette per accontentarla, per farla sentire bella e importante. Ma erano completamente inutili, non sortivano alcun effetto su di lei, se non un ancora maggiore odio verso se stessa.
Tentava
di
controllare i pensieri, di ricacciarli in quel cassettino della sua
mente che a fatica conteneva dolori e paure. Ma ogni giorno diventava
più difficile richiuderlo, sigillarlo, perché il desiderio di
essere inondata da quei vortici e cessare di esistere diventava
sempre più forte.
Si
guardava e
vedeva un corpo che era cresciuto troppo, che si era evoluto
troppo, vedeva nuove forme che non accettava. Vedeva un corpo
ricoperto da grasso.
Non si capacitava
di come ciò potesse essere accaduto. Non mangiava da tre giorni, e i
suoi genitori non se ne erano neppure accorti. Attribuivano il suo
dimagrimento alla crescita, allo stress, alla scuola, alla vita.
“Mens sana in
corpore sano!”, commentava sua madre, senza neanche fingere di
pensare davvero ciò che diceva.
“Noi siamo fieri di aver abituato fin da piccola nostra figlia ad un'alimentazione corretta ed equilibrata. Ecco spiegato il motivo del suo bel fisico asciutto”, si vantava senza entusiasmo il padre con gli amici di famiglia.
Non la vedevano nemmeno. Non la volevano guardare. Non volevano ascoltare le sue mute richieste di aiuto. Non si stupirono neppure del fatto che la prima parola greca che Selene avesse imparato e ripetuto a casa durante il primo anno di liceo classico fosse stata anorexìa.
Desideravano a tal punto avere una figlia perfetta, una figlia diversa da quella che avevano messo al mondo, che fingevano di non accorgersi di lei, del suo cambiamento, del fatto che i suoi occhi si erano spenti. E adesso, all'età di diciassette anni, anche lei stava scomparendo come la luce che prima illuminava il suo sguardo. Il suo corpo stava diventando un pallido fantasma.
Selene
piangeva e
urlava e si tappava le orecchie, non voleva nemmeno ascoltare i
pensieri che vomitava la sua testa. Voleva fuggire da tutti, dai
genitori, dalla propria vita, da se stessa. Piangeva e si
guardava, guardava quel dolore che cresceva e si spandeva dentro di
lei e le storpiava il volto, le consumava le lacrime.
Prese un
soprammobile qualunque e lo lanciò contro lo specchio, che si
frantumò immediatamente, lasciando cadere cocci di vetro sul
pavimento come se lo specchio stesse piangendo con lei.
Selene si voltò e si mise a correre. Attraversò la casa fino a tornare in salotto, aprì la finestra e uscì sul balcone, al freddo di quella notte d'inverno con indosso soltanto un top e pantaloncini corti.
Guardava le persone sotto di sé, desiderando le loro vite, la loro gioia.
Per
un momento fu
colta da un irrefrenabile istinto, mentre cominciava a sporgersi
dalla ringhiera, quando alzò lo sguardo e vide la luna. La madre
aveva sempre amato la luna, per questo motivo le aveva dato quel
nome. E, nonostante in quel momento fosse l'unica cosa che le
impediva di gettarsi dal balcone, rappresentava la sua sconfitta.
La
Selene che abitava il cielo aveva vinto, brillava ancora. Lei aveva
perso.
Si accovacciò per terra, cercando di assorbire un po' di quella luce, e sperando in un'eclissi di luna che oscurasse temporaneamente l'una e per sempre l'altra.
Tengo
a precisare che questo tema mi sta particolarmente a cuore. Non volevo
dare alcun giudizio su chi soffre di questa malattia né tantomeno
ridicolizzarla. Desideravo accentuare l'attenzione sui disturbi
alimentari, perché è importante parlarne e rifletterci.
Ho deciso di concludere così la storia per fini esclusivamente
narrativi, senza con ciò pensare che non ci sia via d'uscita da questo
abisso nero.
Il modo per guarire c'è, è difficile, doloroso, però è possibile.