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Autore: My Pride    14/02/2011    2 recensioni
«L’amore a volte è come una partita a scacchi. Se in due può diventare complicata, in tre è anche peggio»
Quel fagiolino era davvero riuscito ad accaparrarsi un appuntamento con Riza Hawkeye... quella Riza Hawkeye?
Il mondo stava per caso andando a rotoli? Era arrivato il giorno del giudizio e nessuno mi aveva detto nulla?
O ero semplicemente finito all’Inferno senza passare dal via, e quello che stavo vivendo era appunto un incubo che avrei rivisto per tutta l’eternità?
[ Roy/Riza/Edward → Accenni Royai, Edoai ed Havocai ]
[ Seconda classificata al contest «Three is megl' che one» indetto da Dark Aeris ]
[ Quinta classificata e vincitrice del Premio Miglior Threesome e Premio Simpatia al contest «Because 3some is better» indetto da Setsuka ]
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric, Jean Havoc, Riza Hawkeye, Roy Mustang, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Triangolo
Capitoli:
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My Fuckin Valentine_1
[ Seconda classificata al contest «Three is megl' che one» indetto da Dark Aeris ]
[ Quinta classificata e vincitrice del Premio Miglior Threesome e
Premio Simpatia
al contest «Because 3some is better» indetto da Setsuka ]


Titolo:
My Fuckin’ Valentine
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Chiave d’interpretazione: Triangolo sentimentale
Tipologia: Long Fiction
[ 14.790 parole [info]fiumidiparole ]
Genere: Generale, Commedia, A tratti vagamente Satirico (O assurdo?)
Avvertimenti: Vagamente nonsense, Shounen ai / Yaoi, Vagamente Heterosexual, 3some, What if?
Characters: Roy Mustang, Edward Elric, Riza Hawkeye, Jean Havoc, Christina Mustang, Un po’ tutti
Pairing: Roy/Riza/Edward → Singolo Havocai, Edoai e Royai ad interpretazione piuttosto personale
Rating: Giallo / Arancione
Introduzione: «Ecco il suo stupido rapporto, Colonnello di merda», sbottò, già pronto a girare sui tacchi e andarsene per la sua strada. Ma presa la documentazione, salva da quell’acquazzone che si stava ancora scatenando fuori grazie a chissà quale miracolo, gli feci rapidamente cenno di accomodarsi.
«Capiti proprio a fagiolo, Acciaio»


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved. 



L’amore a volte è come una partita a scacchi.
Se in due può diventare complicata, in tre è anche peggio.

ATTO I: CHALLENGE 
FEBRUARY 14, 1922 
QUANDO UNA SFIDA PUO’ RIVELARSI IDIOTA
 
    Sarebbe stato superfluo dire che quella che era sorta si era presentata come una giornata simile a mille altre ancora, sebbene per molte coppie fosse invece più che speciale. Mentre ragazzi e ragazze erano fuori a festeggiare quel giorno già di primo mattino, decantando il loro amore con rose, fiori e cioccolatini, per me rappresentava solo la solita e vecchia storia: tragitto casa-lavoro, documenti arretrati da firmare e altre faccende di routine alle quali ero sottoposto a causa della posizione che detenevo.
    Erano appena le undici del mattino, però, e la noia stava già cominciando a farla da padrona. Seduto dietro alla mia scrivania, con le scartoffie pericolosamente in bilico su di essa come al solito e con un’espressione disinteressata dipinta in viso, facevo scorrere di tanto in tanto lo sguardo per il resto dell’ufficio come se in realtà non avessi nient’altro da fare, soffermandomi con gli occhi su ogni scrivania presente quasi la trovassi molto più interessante del lavoro che avrei dovuto svolgere. E se proprio dovevamo essere sinceri, anche vedere la cenere della sigaretta del Sottotenente Havoc cadere in terra l’avrei reputato un avvenimento entusiasmante. Se ero messo così male, voleva dire che necessitavo urgentemente di una vacanza. Sembrava che le ore di turni ininterrotti mi avessero mandato in tilt il cervello. Avevo bisogno di uscire, di svagarmi un po’, magari di farmi anche una scopata... cose di ordinaria amministrazione, insomma. Ma ero invece tappato in quel buco d’ufficio nel Quartier Generale Centrale, esattamente come il resto della mia brigata. C’era chi come me se ne stava semplicemente seduto a scaldare la sedia, chi guardava distratto fuori mentre la pioggia cadeva a catinelle; poi c’era chi tentava di rimboccarsi in qualche modo le maniche per leggere qualche fascicolo e chi, molto più ligio al proprio dovere più di tutti noi messi insieme, svolgeva i propri compiti senza batter minimamente ciglio. E mi ritrovai quasi a sbuffare nel rendermene conto, cominciando a giocherellare con una stilografica non appena ne afferrai una.
    Ogni tanto mi dilettavo a far vagare ancora un po’ lo sguardo in giro, intercettando persino gli occhi azzurri del Sottotenente Havoc che mi lanciavano occhiate che in altri momenti avrei reputato come eloquenti, vedendolo subito dopo rivolgere quelle stesse occhiate anche al Tenente Hawkeye, che sembrava ricambiarle di sfuggita con una complicità che mi sembrava quasi sospetta.
    Se ne andò quasi un’ora o più, in quel modo, ma a me parve essere passata un’eternità. Scoprii ben presto che era mezzogiorno passato, e vidi i primi cenni di vita manifestarsi sul volto del Sergente Fury non appena fu richiamato dal Tenente Montgomery che, dopo aver fatto verso di me il saluto militare e aver chiesto frettolosamente il consenso, se lo rubò letteralmente per portarlo nella sala comunicazioni, dove sembrava si fossero guastate un paio di radio. Quando poi cominciarono un po’ tutti a lasciare quella stanza io me ne restai appollaiato sulla mia poltrona per un’altra manciata di minuti, seguendoli ad uno ad uno con lo sguardo prima di stornarlo verso l’ultimo rimasto.
    Incrociai elegantemente le mani sotto il mento per sorreggermi il viso, poggiando i gomiti sul bordo della scrivania e rivolgendo solo a lei le mie attenzioni. «Le andrebbe di uscire a cena, Tenente?» le domandai vago, ma com’era prevedibile, dopo aver raccattato i propri fogli e aver finemente sollevato un sopracciglio biondo, rifilò un’occhiataccia sia a me sia alle scartoffie che non avevo ancora firmato.
    «Lavori, Colonnello», sembrò quasi freddarmi, alzando con aria vagamente esasperata lo sguardo al soffitto prima di fare il saluto militare e darmi le spalle, lasciandomi completamente solo, e forse persino un bel po’ allibito, in quell’ufficio. Quella era l’unica donna che faceva crollare tutte le mie certezze nel campo della seduzione, sebbene mi fosse sembrata piuttosto interessata alle lusinghe che le aveva rivolto Havoc. E forse era proprio per quel motivo che, da un po’ di tempo a quella parte, avevo cominciato ad allargare i miei orizzonti, se volevamo metterla così. La cosa peggiore, probabilmente, era che in fondo in fondo non lo trovavo poi tanto male. Era persino possibile che avessi sempre nuotato in quella direzione e che non me ne fossi mai reso conto, chi poteva dirlo.
    Succede, quando passi almeno metà della tua vita in un locale di sole donne. Che andassi a caccia di farfalle o a sparare agli uccelli, comunque, restava il fatto che le mie possibilità di uscita, per quella sera, non erano poi così alte: c’era sì la ragazza del negozio di fiori, Grace, che da quando eravamo andati a teatro insieme mi chiedeva di tanto in tanto qualche invito, ma proprio quella sera era costretta a lavorare fino a tardi; Riza aveva bellamente rifiutato come ogni volta, smontando il mio incredibile fascino con poche e nette parole, dunque era fuori gioco già dal principio; per quanto riguardava le ragazze del Christmas, invece, non potevo strapparle ogni sacrosanta sera dal loro lavoro, visto che non potevo privare di continuo Madame delle sue donne. Mi restava solo uscire e rimediarmi un appuntamento come mio solito con la prima che mi sarebbe capitata a tiro, o buttarmi sulla parte maschile, a quel punto. E nemmeno a dirlo, fece il suo trionfale ingresso il primo candidato della serata. Aveva quasi scardinato la porta con la sua solita eleganza ma, ehi, cosa importava? Avrebbe anche potuto accettare quella mia proposta, giacché sapevo che aveva un debole per me. Ma in fondo chi è che non lo sapeva, lì dentro? Si cercava soltanto di salvare le apparenze, tutto qui.
    Sbuffando come una teiera si avvicinò a passo di marcia verso la mia scrivania, borbottando qualcosa fra sé e sé e gocciolando su tutto il pavimento con il suo soprabito rosso completamente zuppo. «Ecco il suo stupido rapporto, Colonnello di merda», sbottò, già pronto a girare sui tacchi e andarsene per la sua strada. Ma presa la documentazione, salva da quell’acquazzone che si stava ancora scatenando fuori grazie a chissà quale miracolo, gli feci rapidamente cenno di accomodarsi.
    «Capiti proprio a fagiolo, Acciaio», risposi a quel suo caloroso saluto, senza nemmeno accorgermi di averlo preso involontariamente in giro.
    Cogliendo immediatamente l’allusione, però, lui subito s’infervorò. «Chi sarebbe così piccolo che se lasciato in un giardino potrebbe perdersi tra i fili d’erba, eh?!» esclamò di rimando, stringendo un pugno lungo il fianco e agitando invece l’altro, fissandomi con occhi furibondi mentre continuava ad inveirmi contro.
    Lo lasciai fare per un po’, ritrovandomi poi ad alzarmi per aggirare la scrivania e fermarlo io stesso, poggiandogli le mani sulle spalle e guadagnandomi così la sua attenzione e un’occhiata forse vagamente confusa. «Sei diventato piuttosto fantasioso, dall’ultima volta», gli dissi poi, sorridendo, vedendolo assottigliare nuovamente lo sguardo. Ma prima che potesse ricominciare con uno dei suoi soliti sproloqui, mi affrettai a poggiargli un dito sulle labbra per zittirlo. «Hai impegni per questa sera, Acciaio?» gli domandai di punto in bianco, e lui si ritrovò a sbattere velocemente le palpebre prima di afferrarmi il polso e allontanare la mia mano lui stesso.
    «Winry è arrivata ieri pomeriggio qui in città», m’informò, come se fosse quello ciò che io gli avevo appena chiesto. «Ho promesso a lei e ad Alphonse che sarei uscito con loro».
    A quel dire, pur non volendo, mi ritrovai a sollevare appena un sopracciglio. «Ah, quindi passerai il giorno di San Valentino con la tua fidanzatina?» ribattei scettico, quasi stentassi a crederci. Ma poi sbuffai ilare, adocchiando appena il soffitto. «Beh, certo, mi sembra più che logico».
    «Prima di tutto, Winry non è la mia fidanzata. E’ solo la mia meccanica», ci tenne a smentire, forse con un tono sospettosamente duro e freddo. «Secondo, non ho alcun interesse a festeggiare un giorno inutile come questo».
    «Sapevo che mancavi di romanticismo, Acciaio, ma non credevo di certo fino a questo punto», mi ritrovai ad ironizzare non appena lo sentii, drizzando subito dopo la schiena prima di cominciare a girargli intorno come una pantera. «Comunque sia, se proprio hai quest’impegno improrogabile, possiamo fare in un altro modo», soggiunsi, fingendomi vagamente pensoso. Ma sembrò non bersela, dato il modo in cui mi osservò.
    «Cosa diavolo sta farneticando?» fece in risposta, e fu a quel punto che vidi i primi segni di confusione sul suo volto.
    Mi limitai a scrollare appena le spalle, poiché la questione era più semplice di quel che lui avrebbe mai potuto credere. «Tu hai un appuntamento con la tua meccanica e il tuo fratellino, giusto?» tenni il punto, fermandomi proprio dietro di lui prima di fargli scivolare le mani lungo le braccia, godendomi quel piccolo sussulto che s’impossessò del suo corpo quando mi chinai per sussurrargli quelle parole ad un orecchio.
    Lo sentii distintamente deglutire, ma mantenne salda la sua posizione. «E con questo?» chiese a sua volta, voltando la testa nella mia direzione per fissarmi almeno in parte in viso. «Non vedo come possa interessarle quello che faccio nella mia vita privata».
    «E se allora ti proponessi di piantarli in asso e di uscire con me?» domandai ancora, quasi senza arrivare ancora al punto.
    Sbuffò quasi ilare, scacciando le mie mani per voltarsi del tutto verso di me. «Mi spieghi perché dovrei acconsentire ad un’idiozia del genere», ribatté, incrociando svelto le braccia al petto per alzare poi con irritazione lo sguardo.
    Per tutta risposta, mi chinai ancor più verso di lui, quasi ad una spanna dal suo viso. «Perché sono un tuo superiore e potrei ordinartelo», rimbeccai in un mezzo sussurro, forse vagamente sarcastico, e a quel mio dire fu lui a sollevare un sopracciglio con fare piuttosto scettico, stavolta.
    «Non mi pare ci fosse questa clausola, quando ho deciso di entrare a far parte dell’esercito».
    «Avresti dovuto leggere meglio la postilla, allora», lo schernii. «Pensaci, Acciaio. E’ un’occasione che potrebbe non ricapitarti una seconda volta», soggiunsi, rimediandoci un nuovo sguardo confuso da parte sua.
    Sbatté difatti nuovamente le palpebre, e l’espressione che si dipinse sul suo viso gli donò una strana aria innocente. «Cosa le fa pensare che a me interessi qualcosa?» domandò, cercando di non far tentennare la voce.
    «Il fatto che non ti sono poi così indifferente come vuoi farmi credere», ribattei senza tanti giri di parole, vedendolo dilatare di poco quei suoi occhi dorati come se lo avessi appena schiaffeggiato.
    Quello smarrimento che gli vedevo dipinto in viso per la prima volta era una vittoria impagabile, per me. Da due anni a quella parte aveva cominciato ad indossare una maschera impenetrabile per nascondere dietro di essa le sue emozioni ma, in quel momento, non stavo osservando l’Alchimista d’Acciaio. Stavo semplicemente osservando il quasi ventitreenne Edward Elric. «E va bene, mio caro Colonnello di merda, quando se n’è accorto?» riuscì infine a dire, essendosi ripreso almeno in parte dallo shock iniziale che le mie parole gli avevano provocato.
    Ancora una volta, però, mi limitai a scrollare semplicemente le spalle, come se la questione m’importasse ben poco. «Un bel po’ di tempo fa», risposi tranquillo, senza aggiungere nient’altro. In realtà i suoi non erano stati dei veri e propri segni d’infatuazione, o per lo meno lo erano stati a modo loro. Con un ragazzo come Acciaio non si sapeva mai cosa aspettarsi.
    Era bello ed intelligente, certo, ma quando si trattava di questioni sentimentali e non di alchimia era come se cadesse letteralmente dalle nuvole. Si sarebbe persino potuto dire che fosse l’unico a non essersi minimamente accorto che la sua meccanica, nonostante corresse voce che si filasse il più giovane degli Elric, stravedeva ancora per lui. Altro che semplice amicizia.
    «Quindi quest’uscita cos’è, una presa in giro?» la sua voce mi distolse dai miei pensieri, e quando riportai lo sguardo su di lui lo vidi nuovamente con la sua solita espressione composta e strafottente. Aveva persino sollevato un sopracciglio, ad indicare quanto la cosa lo rendesse scettico.
    Mi ritrovai involontariamente a sbuffare divertito, nel sentirlo, afferrandogli delicatamente il mento con due dita per fare in modo che mi guardasse con attenzione negli occhi. «Tu cosa ne dici?»
    «Io dico che non ha un buco in cui infilarsi, stasera, e sta cercando di ripiegare su di me per soddisfare quel suo flaccido soldatino», la buttò lì con fare sarcastico, colpendomi la mano con una delle sue per allontanarla dal viso con un gesto secco. «Ho indovinato?»
    «E se ti dicessi che hai centrato dritto il punto?» volli chiedere.
    «Le risponderei che è un depravato», rimbeccò immediatamente, senza pensarci su due volte. «Ma aggiungerei che è anche fottutamente fortunato, visto che non avevo nessuna voglia di reggere il moccolo a quei due. Non pensi però che le abbia accordato anche il permesso di piantare la bandiera».
    Mi trattenni dal ridere per quella sua fantasiosa metafora, limitandomi solo a sollevare appena un angolo della bocca in un mezzo sorriso. «Stasera alle nove, allora?» colsi la palla al balzo, vedendolo arricciare il naso come se non ne fosse ancora del tutto convinto ed entusiasta.
    Ma poi annuì, fissandomi dritto negli occhi. «Stasera alle nove», ripeté. «Il posto è indifferente, basta che non sia pieno di coppiette che si sbaciucchiano o si scambiano bigliettini e frasi stucchevoli».
    «
È San Valentino, Acciaio», ci tenni a ricordargli con fare ironico. «Dubito che un luogo del genere possa trovarsi».
    Lei ci provi», ribatté semplicemente, dandomi subito dopo le spalle per avviarsi alla porta. «Ci si vede», soggiunse poi, facendo per aprire la porta ma venendo preceduto da qualcun altro.
    Subito dopo, comparvero sulla soglia Breda e Havoc, che salutarono Acciaio con un breve saluto militare. «Boss», fecero poi quasi all’unisono, strappandogli un sonoro sbuffo prima di rimediarci appena un borbottio sconnesso, uscendo svelto non prima di aver gocciolato ancora un po’ dappertutto e aver schizzato acqua ovunque. Al che Breda rise, sorreggendo meglio i documenti che portava con sé.
    «Bagnato com’è, sembra un pulcino», costatò. «Si stenterebbe a credere che sia un uomo, adesso».
    «Attento che non ti senta», lo redarguì in fretta Havoc, rifilandogli una piccola gomitata prima di lasciarmi qualche altra scartoffia sulla scrivania una volta avvicinatosi. «Lavoro fresco d’ufficio, Colonnello», m’informò poi, adocchiando, esattamente come me, Breda di sfuggita solo per vederlo occupare la propria postazione. «Il Tenente Hawkeye verrà a ritirare quelli riguardanti l’ultima ispezione nel quartiere ovest della città a breve. Ha più o meno mezz’ora di tempo per leggerli e firmarli, se non l’ha ancora fatto», soggiunse, forse per fino in tono solidale e quasi confidenziale. Ma quando alzai lo sguardo verso di lui gli rivolsi un mezzo sorriso, come se la cosa mi divertisse parecchio.
    «Ho tutto sotto controllo», rimbeccai sornione, guadagnandoci un’occhiata perplessa.
    «
È successo qualcosa che l’ha rallegrata, per caso?» domandò in risposta, probabilmente perché prima che rimediassi quell’appuntamento ero sembrato un po’ fuori dal modo. «Sembra un gatto che si è appena mangiato un topo».
    Non potei fare a meno di ridere, a quel paragone. «Och, aye. Un topolino davvero carino e appetitoso», dissi fra me e me, congedandolo rapidamente con un gesto della mano quando gli vidi in volto un’espressione più dubbiosa della precedente. «Vedrò di completare il lavoro prima dell’arrivo del Tenente Hawkeye, Sottotenente Havoc. Torni pure al proprio posto».
    Improvvisò appena un rapido saluto militare, in risposta, avviandosi poi a sua volta verso la propria scrivania per prendere immediatamente posto. Lo vidi raccattare un po’ di scartoffie, subito dopo, decidendo infine di mettersi a lavoro. Avevano oziato tutti abbastanza per quel giorno, a quanto sembrava.
    Trattenendo uno sbuffo e uno sbadiglio tentai anch’io di seguire il loro esempio, quasi rinunciandoci quando cominciai a far scorrere svogliatamente lo sguardo sulla montagna di scartoffie che mi toccava leggere e firmare. Resistendo dunque alla voglia di ridurle in cenere e di eliminare così il problema, mi armai di stilografica e di buona volontà prima di mettermi all’opera. E quelli che susseguirono mi sembrarono i venti minuti più lunghi della mia vita. Era arrivato anche Falman, informandomi a sua volta che di lì a poco sarebbe passata il Tenente Hawkeye a ritirare i documenti, e avevo dunque cominciato a firmarli in fretta e furia lamentandomi come mio solito di non avere mai abbastanza tempo a mia disposizione. Stavolta, però, sapevo fin troppo bene che la colpa di quel ritardo era soltanto mia.
    Persi dunque ancora una buona manciata di minuti nel firmare e controfirmare quella montagna di scartoffie, scostando quelle concluse nel contenitore del lavoro in uscita e domandandomi al tempo stesso per quanto ancora dovessi andare avanti così. Fu in quell’istante che entrò Riza. Nel vederla sfoggiai uno dei miei miglior sorrisi, attendendo che si avvicinasse abbastanza per essere udito solo da lei.
    «Ha per caso rivisto la mia proposta, Tenente?» le chiesi ancora nello stesso tono vago di qualche ora prima, sebbene per quella sera avessi anche rimediato una specie di appuntamento con Acciaio. Ma che cosa potevo farci se ero un inguaribile dongiovanni? Però lei, ancora una volta, smontò in un batter d’occhio la mia autostima.
    «Per stasera sono impegnata, Colonnello», mi confessò di punto in bianco con voce pacata e disinteressata, o almeno così mi parve. «Mi spiace davvero», soggiunse, benché dal tono sembrasse non credere a sua volta a quelle sue stesse parole.
    Sollevai dunque un sopracciglio, guardandola scettico. «E’ impegnata, dice?» domandai in risposta, facendo roteare di poco fra le dita la stilografica che reggevo. «Spero vivamente che non si tratti di lavoro», dissi poi, forse persino un filino sarcastico. «Una bella donna come lei dovrebbe uscire e divertirsi, almeno per questa sera».
    Lasciai sfumare un po’ il tono in modo che cogliesse l’allusione e dunque l’invito, ma nemmeno quella volta sembrò cedere. «Ho da fare», ripeté semplicemente, senza dare ulteriori spiegazioni né tanto meno rispondermi. Si limitò solo ad allungare una mano per recuperare i documenti che avevo appena terminato, rivolgendomi un distratto saluto militare prima di lasciare nuovamente l’ufficio.
    Fu proprio a quel punto che mi resi conto che i restanti mi stavano fissando, e mi affrettai a fulminarli ad uno ad uno con un’occhiataccia. «Beh, che avete da guardare?» chiesi loro in tono fermo ma innervosito, unendo pollice e medio della sinistra in un gesto quasi istintivo. «Rimettetevi subito a lavoro».
    Cogliendo forse la nota adirata nella mia voce, per quanto pacata che fosse, si limitarono a scambiarsi qualche sguardo d’intesa fra loro prima di riprendere da dove avevano interrotto.
    Passai l’intera giornata lavorativa rinchiuso in quello stramaledetto ufficio, ringraziando una qualsiasi entità superiore quando mi fu finalmente concesso di lasciarlo per tornare svelto a casa a cambiarmi per la serata che mi aspettava.
    Soddisfatto e vestito di tutto punto, infine, mi diedi un’ultima e veloce occhiata allo specchio prima di ravvivarmi i capelli all’indietro, infilando il portafoglio in una delle tasche del pantalone e scendendo poi svelto le scale per raggiungere la macchina e partire.
    Giunsi dinnanzi al locale alle nove passate, parcheggiando non molto distante per evitare l’afflusso di gente che scorsi appena con la coda dell’occhio. Avevo optato per incontrarci al Christmas, al principio, ma avevo subito dopo cambiato idea e deciso di andare altrove, anche per evitare problemi con le ragazze lì presenti. Con il poco tempo che ero riuscito a sottrarre al lavoro, poi, avevo informato Acciaio del luogo del nostro incontro, ed era proprio lui che cercavo, in quel momento.
    Sceso dall’auto, difatti, facevo vagare lo sguardo alla ricerca della sua testa bionda fra quelle delle persone che passavano semplicemente di lì per una passeggiata romantica o che entravano a loro volta nell’edificio. Mi guardai ancora un po’ intorno, riuscendo infine a localizzarlo: non indossando il suo solito cappotto rosso avevo quasi faticato nel riconoscerlo, dovevo ammetterlo. Con tutta la calma possibile, come se potessi realmente permettermelo, mi avvicinai a lui mentre mi sistemavo il colletto della camicia, ricevendo una sua occhiataccia non appena lo raggiunsi.
    «Alla buon’ora», mi salutò sprezzante, arricciando persino il naso. Ma io non gli diedi peso e lo squadrai da capo a piedi, abbozzando in risposta un sorriso. Non sembrava del tutto a suo agio, e lo dimostrava anche il fatto che si stesse tirando un po’ una manica della giacca nera che indossava. Tutto il suo vestiario era scuro, in realtà, esattamente come al solito. C’era solo la variante che la foggia sembrava molto più elegante. E non mi era mai parso di vederlo vestito in quel modo, c’era da aggiungere.
    «La coda di cavallo ti fa sembrare più alto», dissi infine, soffermando la mia attenzione proprio sui suoi capelli. Anziché castigarli nella solita treccia, difatti, li aveva sistemati e tirati su con un elastico, forse per darsi un’aria un po’ più adulta.
    Quel mio complimento, però, lo fece sbuffare ancor più infastidito di quanto non sembrasse. «Stia zitto e veda d’entrare», sbottò, bofonchiando chissà cosa fra sé e sé prima di continuare. «Sono quasi venti minuti che aspetto».
    Alzai appena le mani in segno di resa, facendogli poi cenno di precedermi verso l’entrata. E lui non se lo fece ripetere due volte, dando vita ad un altro sbuffo innervosito prima di entrare con la sua solita andatura pesante nel locale. L’interno era caldo e confortevole, e il chiacchiericcio della clientela, anziché renderlo chiassoso, gli donava quasi un tocco di vivacità in più. Su ogni tavolo era stato riposto un vaso di rose rosse, e persino sul bancone, com’era prevedibile per un giorno come quello, se ne riusciva a scorgere uno.
    Trattenendo dal dire ad alta voce quella che mi parve una colorita imprecazione, fu Acciaio il primo a dirigersi verso di esso, probabilmente con la ferma intenzione di non voler affatto prendere un tavolo. E come biasimarlo, in effetti? Quei pochi tavoli liberi erano per lo più in penombra, adatti solo a qualche piccioncino che voleva starsene appartato o che ricercava un po’ d’intimità. Noi non eravamo di certo lì in quella veste. Più che altro ci seccava ammettere che, nonostante avessimo detto che ci interessava ben poco, non volevamo passare quella stramaledetta e stupida serata da soli come due cani. Tutto qui. E giacché lui era sembrato gradire di più la mia compagnia che quella del fratello e della meccanica, beh... forse avrei anche potuto gongolarmi e sorridere soddisfatto.
    Presi a mia volta posto al bancone e ordinai distrattamente qualcosa da bere per entrambi, vedendo poi Acciaio afferrare il proprio bicchiere con un pizzico di nervosismo non appena il barista ce li portò. «Sorridi, Acciaio», lo schernii subito dopo, scorgendo con la coda dell’occhio la sua solita espressione imbronciata. «Se non sei felice di essere qui, avresti potuto benissimo rifiutare».
    Mi scoccò letteralmente un’occhiataccia. «Rifiutare?» ripeté, in un misto di scetticismo e sarcasmo. «Ma se me l’ha praticamente imposto!»
    «Proprio imposto non direi», replicai, usando il suo stesso tono. «Ti ho messo di fronte ad una scelta, più che altro. Strano che tu, mio caro Alchimista d’Acciaio, abbia accettato e basta».
    Abbandonò il proprio drink e allungò una mano per afferrarmi il colletto della giacca, a quel mio dire. «Brutto Colonnello di merda, mi sta per caso prendendo per il culo?» si infervorò, per un motivo che conosceva solo lui ma che mi fece ridere di gusto.
    Gli scostai dunque la mano per farmi lasciare, abbozzando un sorrisino che, molto probabilmente, la diceva piuttosto lunga. «Non sai quanto mi piacerebbe farlo, Acciaio», ribattei nel chinarmi un po’ verso il suo viso, godendomi il cambiamento che scorsi su di esso.
    Passò dalla rabbia allo scetticismo e infine alla consapevolezza in un batter d’occhio, dilatando di poco quelle sue iridi ambrate prima di imporporarsi come l’avevo visto fare solo una o due volte in tutti quegl’anni.
    «Fottutissimo pervertito del cazzo», sibilò, e fui più che sicuro che se fosse stato un gatto mi avrebbe soffiato contro.
    «Il tuo bel sedere è al sicuro, tranquillizzati», o almeno per stasera, evitai di aggiungere. Gli rivolsi un altro sorriso, afferrando il mio bicchiere per levarlo in alto. «Alla nostra salute, mio caro Acciaio», soggiunsi poi per cambiar discorso, guadagnandoci un’ennesima occhiata prima che, borbottando qualcos’altro fra sé e sé come suo solito, facesse lo stesso e cominciasse a bere il proprio liquore quasi tutto d’un fiato.
    Ce ne restammo pressoché in silenzio a sorseggiare i nostri drink per la maggior parte della serata, godendoci a modo nostro quella stramba compagnia pur senza attaccar bottone. Per nessuno dei due il cominciare un discorso senza capo né coda sembrava un’idea allettante, specialmente se eravamo praticamente circondati da coppiette. E fu proprio una di quelle a richiamare l’attenzione di Acciaio, subito dopo.
    «Ma quello non è il Sottotenente Havoc?» mi domandò, guardando verso la destra del locale.
    Senza mollare il mio bicchiere, mi voltai anch’io in quella direzione, costatando che, in effetti, l’uomo che sorrideva seduto ad un tavolo era proprio Jean Havoc. Dinnanzi a lui c’era una donna bionda che rivolgeva a noi la schiena, ma dalla forma sinuosa che aveva il suo corpo, almeno per quel poco che riuscivo a scorgere, avrei scommesso che fosse un gran bel bocconcino. «A me interesserebbe molto di più sapere chi è la donna insieme a lui, ad essere onesti», ribattei infine, dando vita ad un mezzo fischio compiaciuto non appena si alzò in piedi per sistemarsi il vestito rosso che le fasciava elegantemente il corpo, donando una generosa visione a chiunque la stesse osservando in quel preciso istante.
    Avrei persino aggiunto qualche apprezzamento vocale se solo non mi fossi sentito raggelare da un’occhiataccia. «Scommetto che sta già pensando di fregarla al Sottotenente e di infilarsi nelle sue mutandine, non è forse vero, mio caro Colonnello?», mi richiamò la voce di Acciaio, forse persino un tantino acida, ma io mi limitai semplicemente a ricambiare quel suo sguardo e a sorridergli di rimando, forse fin troppo gioviale.
    «Dovrò pur trovarmi qualche altro svago, non ti pare?» feci in risposta, scrollando di poco le spalle come se avessi detto la cosa più ovvia del mondo. «Se tu mi concedessi il tuo bel culetto, non sarei costretto a ricorrere a certi espedienti».
    «Per quel che mi riguarda può scoparsi anche tutta la clientela qui presente, ma al mio buco del culo quel coso che ha fra le cosce non si avvicinerà mai», rimbeccò senza mezzi termini, ingollando un altro bel sorso di liquore subito dopo. «Quindi se proprio ci tiene a rimorchiarsela le consiglio di provarci adesso, visto che il Sottotenente non sembra più così felice», soggiunse, e mi affrettai ancora una volta a girarmi per osservare attentamente la situazione che lui aveva scorto con la coda dell’occhio. Vidi così Havoc e quella misteriosa donna intenti in quella che mi parve un’accesa discussione, dato che il Sottotenente aveva persino cominciato a gesticolare come se stesse cercando invano di spiegarle qualcosa. Acciaio aveva ragione: quella situazione giocava proprio a mio favore. Un po’ mi dispiaceva doverlo piantare in asso in quel modo per andare dietro a quella donna, ma non era forse stato lui a darmi il consenso, se così volevamo vederla?
    Mi apprestai dunque a ravvivarmi ancora una volta i capelli all’indietro per darmi un’aria composta ed elegante, alzandomi solo quando vidi quella donna fare lo stesso prima di afferrare la propria borsetta. Già pronto ad andarle incontro con uno dei miei più spudorati e sensuali sorrisi, raggelai non appena mi resi conto di chi si trattasse. Aveva sciolto i lunghi capelli biondi per lasciare che le ricadessero a nasconderle almeno in parte le spalle nude, indossando un vestito con uno spacco laterale che nemmeno nei miei più reconditi sogni sarei riuscito ad immaginarmi indosso a lei, la figlia del mio Maestro che da ragazzina era anche un po’ maschiaccio. Ma quella che stavo osservando, e che al tempo stesso dava sfoggio a quella sua solita espressione seria e diligente, era senza alcun dubbio...
    «Il Tenente Hawkeye!» esclamò sottovoce, in un misto d’incredulità e scetticismo, Acciaio, dando così voce ai miei pensieri. Quel che mi stavo chiedendo in quel momento, però, era ben altro: che cosa diavolo ci faceva Riza Hawkeye in compagnia di Jean Havoc? Era forse quello l’impegno che aveva quella sera? Sebbene lo stessi vedendo con i miei occhi stentavo ancora a crederci.
    Ci passò davanti senza degnarci di uno sguardo, non avendoci molto probabilmente visti, sistemandosi la borsetta a tracolla prima di lasciare il locale, portandosi dietro l’aria quasi indispettita che lasciava trasparire tutto il suo essere. Andatura compresa.
    Io e Acciaio ci voltammo in simultanea verso il Sottotenente, rimasto solo al tavolo che poco prima aveva diviso con una Riza Hawkeye al massimo della sua bellezza. Sembrava affranto, ma come dargli torto? Rimediare un appuntamento con lei e poi giocarselo in quel modo avrebbe ridotto ad una pezza persino un tipo con un’autostima come la mia.
    «Che ne dici, andiamo a consolarlo?» ironizzai non appena passò quell’attimo d’incredulità, scoccando una rapida occhiata ad Acciaio.
    Mi guardò a sua volta, sollevando un sopracciglio. «Così almeno non dovrò sopportare la sua sola compagnia», rispose, lasciandomi intendere che quello fosse velatamente un sì.
    Decisi di non indagare oltre, afferrando semplicemente il mio bicchiere per attraversare la ressa del locale e dirigermi per primo al tavolo del Sottotenente, prendendo posto dove poco prima era accomodata Riza.
    «Ha piantato in asso anche te, a quanto pare», gli dissi poi tranquillamente, bevendo un piccolo sorso del mio drink come se nulla fosse.
    Senza alzare lo sguardo, lui si lasciò sfuggire un suono molto simile ad un lamento. «Non rigiri il coltello nella piaga, per favore», mi rispose, ritrovandosi poi a sbattere le palpebre con fare perplesso, come se si fosse accorto solo in quel momento di non essere più solo e che qualcosa non quadrava. Alzò difatti la testa di scatto, fissandomi con tanto d’occhi. «Colonnello?» chiese infine piuttosto incredulo. «Che cosa ci fa lei, qui?»
    Ridacchiai senza entusiasmo, bevendo un altro sorso. «Sono venuto a festeggiare con Acciaio», spiegai, facendo un cenno con il capo in direzione del suddetto che, presa una sedia da uno dei pochi tavoli ancora miracolosamente vuoti, la portò al nostro prima di prender posto a sua volta.
    «Sera, Sottotenente», salutò poi sena dargli il tempo di assimilare del tutto la cosa, facendo solo crescere la perplessità che sembrava essersi dipinta sul suo viso.
    «Potrei sapere perché siete qui... insieme?» riuscì poi a domandare, nuovamente incredulo, cominciando a far saettare lo sguardo su entrambi così velocemente che quasi mi venne la nausea nel seguirlo.
    Acciaio fece per aprir bocca e rispondere, ma m’inserii tempestivamente nel discorso. «Siamo solo venuti a bere qualcosa, o è forse proibito?» feci soave, forse persino un po’ divertito quando sbatté per l’ennesima volta le palpebre.
    «Di solito non va al Christmas?» domandò difatti, e io mi limitai a ridacchiare.
    «Vanessa avrebbe cominciato a battere la fiacca e a passare del tempo con me, non volevo che Madame la richiamasse», risposi semplicemente, beandomi dell’occhiata con la quale Acciaio mi fulminò tempestivamente. «E poi sarebbe stato anche piuttosto scortese nei confronti del mio accompagnatore, non ti pare?» soggiunsi poi per amor di regola, guadagnandoci però uno sbuffo proprio da quel burbero fagiolo.
    «Come se le sarebbe interessato davvero, poi», rimbeccò. «Avrebbe di sicuro fatto il cascamorto come suo solito».
    «Ogni uomo ha i suoi difetti, Acciaio».
    «E lei ne ha fin troppi».
    «Scusate?» ci richiamò all’ordine Havoc, ancora pressoché perplesso per chissà quale motivo. «Io andrei, così potrete continuare il vostro battibecco in santa pace».
    Mi avvicinai un po’ con la sedia, così da potergli passare un braccio intorno alle spalle. «Ma come, Sottotenente, non vuole restare a farci compagnia?» gli chiesi in tono sarcastico. «Sono sicuro che anche Acciaio gradirebbe».
    «Io gradirei molto di più tornare a casa», ammise il diretto interessato, dando sfoggio ad uno sbuffo annoiato prima di guardare distrattamente Havoc. «Ci resti lei, con il Colonnello. Ma stia attento a non dargli per nessun motivo le spalle», alluse, stornando lo sguardo su di me prima d’alzarsi.
    Mi sporsi però verso di lui per afferrarlo per un braccio, così da impedirgli di andarsene e costringendolo al tempo stesso a tornarsene seduto. «Non così in fretta, Acciaio», ribattei pacatamente. «Questa è la nostra serata».
    «Alla quale io preferirei non fare parte», si fece sentire ancora una volta Havoc, probabilmente stufo dei nostri botta e risposta senza capo né coda. «Mi è bastato già quel due di picche che mi sono appena beccato».
    «Quindi eri davvero tu l’impegno della Hawkeye, eh?» mi ritrovai a domandargli, scorgendo appena con la coda dell’occhio Acciaio, che sembrava ascoltarci in modo piuttosto disinteressato mentre sorseggiava il proprio liquore. «Quando gliel’hai chiesto?»
    Stupito forse da quella domanda sbatté le palpebre, ma passato quell’attimo di iniziale stupore rispose tranquillamente. «Tre giorni fa, perché?» fece. «Ha detto che ci avrebbe pensato ed eccoci qui, anche se poi mi ha praticamente mollato».
    «Si vede che hai fatto qualcosa di veramente stupido, se ha girato i tacchi», ribattei sarcastico, appuntandomi mentalmente che, qualsiasi cosa fosse successa fra quei due, avrei dovuto evitare di fare lo stesso errore.
    «Quel che ho fatto è affar mio, Colonnello», replicò immediatamente. «Se proprio vuole scoprirlo, tenti di accaparrarsi un appuntamento con lei».
    «
È per caso una sfida?» domandai scettico, vedendolo scrollare le spalle prima che mi scoccasse appena una rapida occhiata.
    «Se vuole metterla così...» rispose semplicemente.
    «Vuole dunque scommettere su chi tra noi due riuscirà a conquistare il cuore della ligia e severa Riza Hawkeye, Sottotenente Havoc?» lo sbeffeggiai, sogghignando tra me e me come se già sentissi di avere la vittoria in pugno. Ma lui sembrò sorridermi in risposta, ammiccando.
    «Io intanto sono riuscito a guadagnarmi un’uscita con lei a differenza sua, Colonnello», mi freddò, e dovetti con mio immenso dispiacere ammettere che, su quel piano, la battaglia l’aveva vinta lui.
    Non mi lasciai però abbattere, riprendendomi fin troppo in fretta. Sorrisi persino a mia volta con fare sfacciato, incrociando le braccia sul tavolo prima di alzare lo sguardo per poterlo così osservare con attenzione in quei suoi occhi azzurri. «Di certo sei un bell’uomo, Havoc, ma credi davvero di poter battere il sottoscritto?»
    «Potrei stupirla, Colonnello», rimbeccò semplicemente, facendo un piccolo cenno del capo nella mia direzione e sorridendo maggiormente, squadrandomi esattamente com’ero solito fare io con Acciaio il più delle volte: dall’alto in basso.
    «E se volessi partecipare anch’io?» sentii una terza intromettersi prima ancora che potessi ribattere, e con un sopracciglio sollevato mi voltai istintivamente verso la fonte.
    «Che cosa vorresti fare, tu?» chiedemmo all’unisono io e Havoc, guardando Acciaio con un’espressione indecifrabile dipinta in viso. Scoppiammo poi a ridere nello stesso momento, non potendone realmente fare a meno. Aveva proposto una cosa semplicemente assurda.
    «Cos’avete tanto da ridere, voi due idioti?» rimbrottò per richiamarci all’ordine, e stavolta fu lui a sollevare un sopracciglio prima di incrociare le braccia al petto.
    Cercando di riacquistare il controllo della mia mimica facciale provai al tempo stesso a rispondergli, sforzandomi di non lasciarmi sfuggire qualche altro sbuffo ilare. «Ridiamo, Acciaio, perché tu non ti sei reso conto dell’immensa boiata che hai detto», precisai, quasi con il tono pacato e tranquillo che si usava per spiegare le cose ad un bambino.
    «Credete forse che non riesca a tenervi testa?» ironizzò, sollevando maggiormente il sopracciglio.
    Sbuffai nuovamente ilare. «E sentiamo, cosa vorresti se si presentasse l’ipotetico - e impossibile, aggiungerei - caso in cui fossi tu, a vincere?»
    A quella mia domanda si limitò a scrollare appena le spalle, come se per lui la cosa avesse scarsa rilevanza. «Non ho grandi pretese», m’informò pacato. «Potrei anche accontentarmi di un giro pagato da voi, per quel che mi riguarda», soggiunse sarcastico, mettendo ben in chiaro che quelle fossero soltanto parole di circostanza. Non si sarebbe mai accontentato di così poco, probabilmente, e forse era il primo a non crederci. Fossi stato in lui, già il solo fatto di essere riuscito a battere in campo sentimentale uno dei più grandi seduttori d’Amestris sarebbe stato un gran bel premio.
    «Lasciamolo tentare, Colonnello», s’intromise Havoc in tono divertito, agitando persino una mano come se quella conversazione non fosse già degenerata abbastanza. «In fin dei conti non ci costa assolutamente nulla».
    Feci scorrere lo sguardo sull’uno e l’altro, a quel dire, sollevando un sopracciglio con fare fin troppo scettico. Non riuscivo proprio a capacitarmi di quella loro smania di mettersi in competizione con me, l’idolo delle donne di Amestris. Non avevano nessuna possibilità di vittoria.
    Avrebbero pianto. Oh, aye, eccome se avrebbero pianto.
    «Vedremo chi la spunterà, allora», dicemmo tutti e tre all’unisono, osservandoci con attenzione come se stessimo già cercando di capire ognuno le intenzioni dell’altro.
    Qualcosa, però, mi dava la certezza che quella storia non sarebbe finita poi così bene come pensavamo.
 
  
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