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Autore: Keiko    15/02/2011    1 recensioni
Quando tutto è perduto l'unica cosa su cui si può fare affidamento è la speranza. Ma otto anni possono davvero bastare per arrendersi all'evidenza della sconfitta?
[Storia ispirata all'universo Killjoys, ambientata otto anni dopo gli avvenimenti del video "SING".]
Genere: Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [25/12/2010]
Disclaimer: I My chemical Romance (Mikey Way, Gerard Way, Frank Anthony Iero, Bob Bryar e Ray Toro nella loro ultima formazione), Jamia Nestor, Alicia Simmons e Lyn-Z (bassista dei Mindless Self Indulgence) sono persone realmente esistenti. I personaggi originali non sono ovviamente persone realmente esistenti, ma semplice frutto della mia immaginazione. La storia è frutto di una narrazione di PURA FANTASIA che mescola la mia visione di fan a eventi storicamente accaduti e rumors spulciati in rete, destinata al diletto e all'intrattenimento di altri fans. Non si persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene dunque intesa.



Sedici anni appena, viso magro e carnagione olivastra, capelli che sembravano una selva di mangrovie mai toccate dall’uomo.
Mercy aveva scorto la curva della schiena di Grace nella penombra della sera, le uniche luci a rischiarare la notte i lontani fari delle torri della Better Living Indutries a Battery City, tristemente simili a ciò che nel Ventesimo secolo furono le Twin Towers di New York City. Loro – i ribelli – vivevano nel deserto, si spostavano come nomadi da nord a sud per non dare la possibilità agli uomini della S/C/A/R/E/C/RO/W/, la squadra speciale della Better Living guidata da Korse, di intercettarli, loro e quella radio pirata che a tutte le ore trasmetteva musica proibita, letture profane e messaggi di eroi morti già da un pezzo.
I vampiri – i cattivi, come si ostinava a chiamarli Grace nonostante si fosse lasciata alle spalle la propria infanzia già da un pezzo, ammesso che ne avesse mai avuta davvero una – non avevano compreso che per diventare un eroe occorreva morire giovani e bellissimi, proprio come Gerard.
“Fa freddo, Grace. Perché non vieni dentro con gli altri? Tra poco Lyndsay leggerà le storie di mezzanotte ala radio.”
“Non mi va di ascoltare sempre le solite cose, Mercy.”
“Non sono le solite cose. E’ il Canto di Natale di Dickens. E non l’ha mai letto.”
Grace aveva sollevato il proprio sguardo sulla donna, le mani strette tra le ginocchia nel tentativo di scaldarle dal gelido vento di dicembre che sferzava dall'immensità del deserto verso la città, portandosi dietro sabbia ghiacciata dura come pietra.
Mercy le piaceva, l'aveva vista per la prima volta al rifugio poco prima di tutto quel casino scoppiato per Radio Boom, ed era rimasta colpita da quei capelli nerissimi e gli occhi grandi e scuri che sembravano enormi sul suo viso lungo e sottile. Grace l'aveva capito che c'era qualcosa di strano, perché una così la portava vita la Better Living Industries prima che potesse anche solo mettere piede fuori da Battery City eppure, per chissà quale motivo era finita lì, nel cuore del deserto. Si erano incrociate all'esterno di uno dei covi della cerchia più distante dalla città – ricordare quale, e se fosse ancora in piedi dopo gli attacchi della S/C/A/R/E/C/RO/W/, sarebbe stato impossibile -, poi Mercy era salita su un furgoncino coperto di polvere ed era schizzata via nel deserto con Dr. Death lasciandola lì con i ragazzi.
L’unica cosa che era certa di aver ricevuto da Mercy, quel giorno, era il desiderio di diventare come lei, da grande, senza sapere ancora nulla del suo passato, senza conoscerla, con quell’idolatria tipicamente infantile che brucia il petto al pensiero di voler essere donna nel minor tempo possibile.
In un mondo in cui l’infanzia non esiste, non puoi che sperare che quel periodo di transizione in cui non sei né carne né pesce finisca il più velocemente possibile.
“Grace non puoi passare ogni notte qui al freddo. Ti prenderai una polmonite, se vai avanti di questo passo.”
“Meglio, così raggiungerò più velocemente Gerard. Perché non posso venire con voi, Mercy?”
Erano passati otto anni, ormai, da quando Radio Boom era finita in mano alla Better Living Industries e i Killjoys erano stati eliminati per salvarle la vita. Senza di loro non avrebbero mai sconfitto quella tirannia fondata sulla paura di una morte quasi indolore per il solo fatto di avere idee personali, idee differenti da quelle di tutta Batttery City, o quel che ne rimaneva. Perché a Battery City esistevano solo due categorie di persone: i buoni e i cattivi; i corrotti e i puri; quelli che sapevano solo dire “si” chinando il capo e chi, invece, il volto lo alzava verso il cielo e sapeva gridare una rabbia che sarebbe esplosa come una bomba ad orologeria.
Era solo questione di tempo, per attivare di nuovo quel detonatore.
Grace si era illusa per otto anni di vederli tornare accompagnati da una nube di polvere, stagliarsi contro l'orizzonte che fendeva il deserto in due parti perfette di cui una era il cielo di Mercy, l’altra il giallo scintillante della polvere sotto i raggi del primo sole.
“Non torneranno più, Mercy?”
La donna le si era seduta accanto cingendole le spalle con il braccio magro e sottile, da ballerina. A Grace, ogni movimento di Mercy, sembrava il volo di un cigno dal piumaggio candido come la neve.
“Mi piacerebbe vedere la neve, non l’ho mai vista.”
Persa dietro i propri pensieri, la ragazzina si faceva consolare dal tepore del contatto di un altro corpo contro il proprio, dalla certezza confortante di potersi lasciare andare a un pianto liberatorio senza doversi mostrare adulta da ogni costo.
Da che ne aveva memoria, lo faceva da sempre quello.
“Quando eri bambina l’hai vista, Grace, solo non te la ricordi.”
“Forse non sono mai stata bambina.”
“Già, forse hai ragione. A te l’hanno rubata, l’infanzia.”
L’aveva stretta un po’ più forte a sé, appoggiandole il volto alla spalla ossuta, i riccioli selvaggi a solleticarle il viso.
“Dobbiamo lavarli e metterli a posto, Grace. Ormai hai una foresta al posto dei capelli, sono inguardabili.”
“A me piacciono così.”
“Probabilmente hai persino i pidocchi.”
“A Ray piacevano.”
“I pidocchi?”
“No, i miei riccioli.”
“Perché anche i suoi erano così scandalosamente indomabili.”
“Quante storie, fai. Si vede che arrivi da un mondo che non è questo, anche ora.”
Grace le aveva rivolto un sorriso di quelli che sapevano di un'ironia sottile più adulta di quello che la sua età le avrebbe potuto permettere, e Mercy le aveva concesso di prenderla in giro con la rassegnazione tipica dei fratelli maggiori.
“Domani ci facciamo un bel bagno e ti rimetto in sesto almeno per Natale.”
“Perché non posso venire con te e Dr. Death?”
Mercy non aveva risposto, si era limitata a indicarle le torri della Better Living Industries con l’indice sinistro.
“Sei ancora troppo piccola per sapere quando è giusto morire.”
Grace si era voltata di scatto verso di lei sgranando nell’oscurità gli occhi smeraldini, mentre la donna l’aveva lasciata andare sollevandosi in piedi.
“E’ ora di rientrare, Grace. Coraggio.”
 
Quando Mercy era arrivata tra i ribelli era diversa da tutti gli altri che arrivavano lì, così lontana da quel mondo fatto di pattume lasciato in mezzo alla strada e ratti voraci che l'avrebbe capito chiunque che lì, non sarebbe sopravvissuta un giorno soltanto. Schiva, taciturna, imbranata, con un'educazione pressoché da principessa e sufficientemente stronza da considerare anche il nucleo principale dei Killjoys un ammasso di coglioni senza palle. Lei, però, non avrebbe mai utilizzato un vocabolario così colorito: sapevano solo che era un medico, e la cosa era più che sufficiente per accoglierla a braccia aperte, e aveva dimostrato senza problemi di saper sopravvivere anche senza sapere nulla di armi e rappresaglie. Dr. Death avrebbe accolto chiunque, a essere onesti, ma questo Mercy l'aveva compreso solo seguendolo ovunque, accompagnandolo nei lunghi tragitti di ricognizione nel deserto o alla ricerca dei Killjoys scomparsi dopo quella notte in cui persino le stelle si erano ritirate per far spazio allo scintillare violento di quattro disperate meteore.
“Non ci credo che siano morti, Shadows.”
Lui adorava chiamare tutti loro con i nomi di battaglia, gli ricordava le storie di supereroi che gli raccontava suo padre quando era bambino e tutto, agli inizi del Ventesimo secolo, sembrava assicurare alla Terra quanto meno la tranquillità dettata dalla certezza che l'uomo fosse l'ultimo anello della catena alimentare. Nessuno, ovviamente, avrebbe mai potuto prendere in considerazione l'ipotesi che gli esseri umani potessero evolversi, trasformarsi e creare una spaccatura insanabile tra “cibo” e “collaboratori”.
“Non chiamarmi così, Death. Per favore.”
Dr. Death era solo Dr. Death, il suo vero nome l'aveva lasciato dilaniare da Battery City senza preoccuparsene troppo.
“E' a causa di Frank?”
“Non stiamo parlando di Frank. Li abbiamo visti morire. Ancora mi chiedo come abbiamo fatto a salvare Grace da quell'inferno. Come credi che potessimo salvarli tutti? Siamo arrivati troppo tardi.”
“Siamo arrivati al segnale di Gerard.”
Aveva puntualizzato lui, fissando l’orizzonte piatto dinnanzi a loro, l’auto ferma al centro del nulla di un deserto in cui solo le ombre di Battery City parevano allungarsi per cercare di ghermirli.
Quella città non dorme mai, maledizione, nemmeno la notte di Natale.
“Abbiamo sbagliato a fidarci di quell'idiota. Lo sapevamo che si sarebbero fatti ammazzare. Hai visto che sguardo avevano quando sono partiti?”
“Che sguardo era, Shadows?”
Mercy aveva sollevato il viso verso l’uomo, occhi nerissimi dello stesso cupo colore delle ombre di Battery City sul deserto - le ombre dell’animo di quella che, agli occhi di Dr. Death, era ancora una ragazzina intrappolata nel corpo di una donna senza saperci vivere - , la mano destra appoggiata alla sedia a rotelle.
“Di chi non ha nulla da perdere. Non avevano paura di morire e sapevano che in quattro non avrebbero avuto vie di fuga. Perché non ci hanno fatto andare a con loro?”
“Non volevano altre vite sulla loro coscienza.”
“Sono cazzate, soltanto cazzate. E' stato un modo per fare gli eroi e lasciare gli altri nella merda.”
“In ogni caso eri arrivata da troppo poco tempo per poterli seguire.”
“Sai cosa ti dico, Death? Va' all'Inferno. Prendi le loro difese anche adesso che sono morti. Non sarete mai oggettivi, mai in grado di cambiare il mondo. Per farlo – per farlo davvero – la strada è lastricata di cadaveri. Cosa pensi, che basti un fiore in una pistola per calmare tutto? Non funzionano così le cose. Non a Battery City, almeno.”
Era stata costretta a far parte della squadra di recupero dei Killjoys durante la spedizione alla sede principale della Better Living Industries e tutto, sin dal primo pomeriggio di quel maledetto 04 luglio 2019 sembrava essere predisposto per un finale del cazzo da B-movie.
E tutto era stato esattamente così: un finale del cazzo, visto a rallentatore da dietro i vetri di un furgoncino blindato, il tempo necessario per portare via Grace tra il fuoco della S/C/A/R/E/C/RO/W/ mentre lei sparava soltanto, cercando di scorgere – tra quegli spettrali volti pallidi – un sorriso amico.
Quel sorriso, magari.
Oppure anche solo il ciuffo rosso fragola di Gerard o quello biondissimo di Mikey o… no, in Ray non poteva sperare, disteso in modo scomposto sul cofano della mustag dei Killjoys, la vedova nera a fargli da sicuro giaciglio: la prima – e l’ultima dolorosa cosa – che avevano visto appena erano arrivati sotto le massicce torri della sede centrale dell’Industria del Male.
Aveva dovuto sparare a quelle anime disgraziate e disgustose e non aveva mai ucciso nessuno prima eppure, in quel momento, si era sentita dalla parte del giusto.
Quelli non erano umani, erano spettri divoratori di anime.
Aveva ucciso e poi aveva costretto sé stessa a stringere la piccola Grace, stringerla sino a farla soffocare per non farsi sopraffare dalle lacrime, per trovare in quell’abbraccio un po’ di conforto per sé stessa.
Dov’era la giustizia, nel loro cazzo di mondo?
Nelle favole, o nelle gesta epiche degli eroi medioevali, i puri di cuore vincevano sempre.
Che i Killjoys fossero peggiori persino di Korse?
No, era evidente semmai il contrario.
“Però i fiori li porti con te oggi, o sbaglio?”
Mercy non aveva risposto, aveva solo premuto l’acceleratore del furgone più forte, a tutta velocità verso Battery City.
“Non fare domande del cazzo se conosci la risposta. La tua retorica da saggia guida indiana con me te la puoi anche mettere dove sai tu. Non funziona.”
“Parli come Fun Ghoul. Anzi, sembri persino lui. Hai la stessa rabbia cieca dentro, una rabbia sorda che ti spinge a vivere giorno dopo giorno. Quando sei stata abbracciata dal deserto non parlavi e non ti muovevi con la sinuosità di una vedova nera, ma con leggerezza di un gatto di casa. E in otto anni non mi hai ancora detto perché combatti la S/C/A/R/E/C/RO/W/, Shadows.”
“La Better Living Industries ci ha portato via le cose più preziose che avevamo.”
“Non lo fai solo per un ideale. Tu hai la determinazione di chi chiede vendetta.”
“Ho un conto in sospeso con Korse, ma credo di avertelo già detto.”
“Non sono morti, Shadows, ne sono certo.”
“Piantala con questi discorsi del cazzo, lo sai come va a finire? Che Grace passa le sue serate ad aspettare il loro ritorno davanti al rifugio persino con questo freddo. Le metti in testa un mucchi di stronzate sentimentali. Lo vuoi capire che dobbiamo andare avanti, che non torneranno? Che non ci saranno altri Killjoys, cazzo?”
“Tu, io, Grace e tutti gli altri siamo Killjoys.”
“Fammi il favore, Death. Nessuno di noi vale un capello di Gerard o Frank.”
“Gerard era Gerard.”
E Frank era Frank. E Mikey era Mikey. E Ray era Ray.
E se n’erano andati tutti, portandosi via la loro speranza.
“Questo non migliora le cose. Non c’è più. Il tuo Party Poison, la tua creazione perfetta, Dr. Death, è stato portato via da un pezzo di merda di nome Korse. Ce l’ha strappato dalle mani e in otto anni, non abbiamo mosso un passo verso Battery City per farla svegliare dal torpore. Che cazzo di ribelli siamo?”
“Killjoys.”
“Le scorribande notturne imbrattando i muri di Battery City sono ridicole. E anche la pioggia di volantini con le foto di Korse depennato dalla lista dei ricercati con l’elenco delle sue vittime, se per questo. Non funziona. Contro una cosa come la S/C/A/R/E/C/RO/W/ ci vuole un colpo violento.”
“Loro ce l’avevano fatta a entrare là dentro.”
“Se entri e poi ne esci morto, non è servito a un cazzo quello che hai fatto. Dobbiamo entrare e uscirne vivi, con la testa di Korse.”
L’uomo si era lisciato i baffi corvini, scrutando le luci della città scintillare sempre più vicine a loro.
“Secondo te lo festeggiano ancora il Natale?”
“Non credo sia un’usanza di quei mostri, Death.”
Mercy aveva premuto l’acceleratore, facendosi inghiottire dalle luci della città e dai fari possenti delle torri della Better Living Industries, inconfondibili contro il cielo nero di quel ventiquattro dicembre.
“Cosa hai detto a Grace?”
“La verità.”
“E non ha voluto seguirti?”
“Non è una stupida, Death.”
“L’hai cresciuta bene, Shadows.”
“Le ho solo insegnato a vivere, e sono una pessima maestra. Non so farlo nemmeno io.”
“E’ imponente, vero? Ogni anno tornare qui mi fa uno strano effetto.”
Dr. Death si era sporto dal finestrino, assaporando il vento gelido di Battery City, fatto di puzzo di piscio e pattume, di sesso e droga e alcool, fatto di umori non umani e lacrime di donne e bambini.
“Sembra di stare all’Inferno.”
Mercy non gli aveva risposto, aveva spento il motore del furgone e aveva preso dai sedili posteriori quattro rose dalle tonalità di colore differenti.
“Perché proprio le rose? Ogni anno, a Natale, vuoi portare qui le rose per i ragazzi. Perché proprio loro?”
“Per anni ho avuto le rose e non ho chiesto scusa a nessuno. Per anni ho cercato una risposta senza trovarla e sono dovuta venire nel deserto per accorgermi di cos’era giusto fare, di cosa volevo fare della mia vita. Ho passato i primi vent’anni della mia esistenza a fare ciò che gli altri credevano fosse giusto per me, sono dovuta fuggire per rendermi conto che quello che lo era davvero era fuori dal mio mondo. Era l’opposto del mondo che conoscevo, tutto ciò che ritenevo sporco e vigliacco era invece il posto perfetto per una come me.”
“Credi che siamo dei codardi perché non ci facciamo ammazzare come loro?”
“Penso che ognuno di noi lo farà quando sentirà che è giunto il momento di morire.”
“Sai già quando sarà il tuo?”
Lei gli aveva sorriso, stringendosi le rose al petto in un gesto infantile che tradiva un tempo fermatosi per lei a quei vent’anni, in cui la voglia di fuggire era stata pari a quella di farsi soffocare dagli studi di medicina che lei odiava.
Quando un pettirosso deve lasciare il nido per la prima volta, ha paura di precipitare nel vuoto e schiantarsi al suolo, e lei si era sentita esattamente così.
Era stato Korse a costringerla a scappare per evitarle di rimanere imbrigliata in quel vischioso pantano fatto di studi e sacrifici per una razza non-umana.
“Sai cosa mi ha detto Gerard la sera in cui ci siamo conosciuti?”
“No, cosa?”
Lei aveva scrollato le spalle, aprendo la portiera del furgone tenendo la maniglia ben salda.
“Lascia perdere, non voglio farmi prendere dai sentimentalismi. Torno subito.”
Aveva richiuso la portiera dietro di sé, camminando a passo veloce verso il centro del piazzale antistante la sede della Better Living Industries.
Ogni anno era sempre peggio, il ricordo anziché scivolare via ritornava più vivido che mai: il corpo privo di vita di Ray sulla mustag e gli altri, persi chissà dove all’interno dell’edificio, sembravano essere ancora lì e le pareva persino di udire il fischio dei proiettili passarle accanto.
Non aveva potuto ringraziare chi l’aveva fatta sentire unica e speciale, in qualche modo, anche se era imbranata, non sapeva cucinare o fare il bucato né, tanto meno, sparare.
Ma aveva provveduto Frank, a fargli da maestro.
Mercy aveva sospirato, chiudendo le palpebre sino a vedere mille stelle colorate nel buio di quella cecità volontaria, e li aveva riaperti adagiando al centro del piazzale le quattro rose, ognuna delle quali recava un biglietto con su inciso un nome: Party Poison, Jet Star, Kobra Kid, Fun Ghoul.
Aveva sollevato lo sguardo verso le ampie vetrate dell'edificio e aveva scorto il guizzo di capelli corvini allontanarsi bruscamente dalla finestra per non essere visti.
Etsuko il deserto mi fa ancora paura.
E’ immenso, freddo, si perde tuffandosi nell’orizzonte ed è popolato da ombre che si allungano pronte a ghermirci. Sembra che ce le trasciniamo dietro da chissà quante vite e che non ci abbandonino mai. Sono le ombre di Battery City, di quello che siamo stati là dentro forse, o forse sono solo le ombre di ciò che siamo e saremo anche dopo la nostra morte.
Forse Gerard volevi dire questo, ma non sono stata abbastanza brava da comprenderlo quella volta.
Avevi ragione, però: noi apparteniamo al deserto, è per questo motivo che Battery City non ci avrà mai.
Aveva sorriso a quelle rose sfavillanti di colore, ai piedi della Better Living Industries, una pozza di ribellione in mezzo al grigiore squallido di una città dormiente.
Aveva sollevato la mano destra verso il cielo, in un saluto da dura mentre già ritornava al furgone, la schiena rivolta verso l’edificio e il capo chino verso il terreno. 
Ci rivedremo.
“Anche se nel deserto la tua storia si perde nella sabbia, la tua ombra sopravvive per sempre.”
“Cos’è?”
“Quello che mi ha detto Gerard quella volta.”
Dr. Death era scoppiato in una risata fragorosa, battendo la mano sul cruscotto del mezzo mentre Mercy si richiudeva alla spalle la portiera e un mucchio di ricordi che avrebbe cercato di domare sino al prossimo Natale.
“Skies Shadows, eh? Tipico di Party Poison.”
“Suggerire nomi idioti?”
“No, riconoscere ciò che abbiamo dentro.”
Lei gli aveva sorriso, girando la chiave dell’accensione.
“Andiamo, forse siamo in tempo per il finale del Canto di Natale. Anche questi mostri lo festeggiano, o sarebbero già usciti per ammazzarci, non trovi?”
“Credi non ti abbiano vista?”
“Aspettano solo il momento adatto per farci fuori. Certe cose non cambiano mai. Nemmeno a Natale, credimi.”
Lo sapeva, Mercy, che Etsuko l’aveva vista dalle imponenti vetrate del grattacielo.
Lei era sempre lì, una spietata mantide religiosa al servizio di Korse disposta a cancellare ogni sentimento per un progetto più ampio e crudele.
Lei, che l’aveva tradita e l’aveva costretta a scegliere la strada da imboccare.
Quella in salita e, ovviamente, sbagliata per tutti e giusta per lei soltanto.
Le aveva però strappato ciò che di bello la vita le aveva offerto: e no, per quello non l’avrebbe perdonata mai.
Il tempo della vendetta, lento e inesorabile, stava per giungere al proprio termine, scoccando la fatidica mezzanotte di un Capodanno di Sangue.
 
 
Anche se nel deserto la tua storia si perde nella sabbia, la tua ombra sopravvive per sempre.” Citazione presa da “Goodnite, Dr. Death Defying”, ovviamente dei My Chemical Romance (più o meno).
Per anni ho avuto le rose e non ho chiesto scusa a nessuno.” Citazione dal film “V for Vendetta”. Mi sono fissata con questo monologo, per cui mi sentivo in dovere morale di renderne pubblica la bellezza con questo verso.
Il Capodanno di Sangue è un riferimento al mio manga preferito “20th Century Boys” di Naoki Urasawa.
 

 

   
 
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