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Autore: LeGuignol    17/02/2011    5 recensioni
L accese il pc, ritemprato dalle quasi diciassette ore di sonno che si era concesso e pronto per tornare operativo.
– Dopo centodue ore di veglia, forse dovresti dormire ancora un po’. – gli suggerì Watari, porgendogli premurosamente il vassoio della colazione sul quale, accanto al bricco di caffè caldo e ad una ciotola strabordante di zollette di zucchero, faceva bella mostra una fetta di torta di fragole dall’aspetto invitante.

La mia storia inizia così, narrando quello che sembrava essere un giorno di ordinaria amministrazione alla Wammy's House. Anche L lo pensava, all'inizio. Ma...
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'L'alfabeto della Wammy's House'
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Questa storia è leggera, poco impegnativa e dannatamente OOC. Ne sono conscia e ho messo l’avvertimento, quindi non fatemi le piste per la caratterizzazione di L.
Perdonatemi se lo dico in maniera così brusca: si tratta di sfogo da scribacchina frustrata XD
Il fatto è che anche a me piange il cuore a vedere questo personaggio trattato così, ma purtroppo ogni volta riesco a tenerlo IC solamente finché non lo faccio parlare; dopo, puntualmente, sfugge al mio controllo. E la cosa mi irrita non poco! E’ un personaggio davvero capriccioso e indisponente… ma confido nel fatto che prima o poi riuscirò a domarlo! Quindi non me ne vogliate per come l’ho reso; devo pur esercitarmi in qualche modo a maneggiarlo, no? Per una volta, provate ad immaginare un L lontano dalle indagini: esasperate il suo lato infantile, accentuate la sua vena ironica (perché, sì, spesso L nel manga è ironico), tenete a mente i suoi atteggiamenti bizzarri e calatelo in una gag... ci siete? Bene! Siete pronti per immergervi nella lettura!
La prima battuta di Watari è presa dal minimanga One day, disegnato dal sensei Obata e apparso nel libro “File n° 15”; lo avreste mai detto che L dorme?!






L accese il pc, ritemprato dalle quasi diciassette ore di sonno che si era concesso e pronto per tornare operativo.

– Dopo centodue ore di veglia, forse dovresti dormire ancora un po’. – gli suggerì Watari, porgendogli premurosamente il vassoio della colazione sul quale, accanto al bricco di caffè caldo e ad una ciotola strabordante di zollette di zucchero, faceva bella mostra una fetta di torta di fragole dall’aspetto invitante.

L ignorò il consiglio, senza però mancare di ringraziare mentalmente l’anziano signore per le attenzioni che poneva sempre nei suoi confronti.
Si sedette alla sua postazione, circondato da monitor, schedari e dolciumi vari, e cominciò immediatamente a studiare le segnalazioni che FBI, CIA e polizia di tutto il mondo si erano scambiati durante il suo riposo, sintetizzate scrupolosamente da Watari nel tabulato posato sulla scrivania. Trasferì otto zollette di zucchero nella tazzina da caffè e prese a sbocconcellare la torta.
Era pronto per iniziare la giornata nel migliore dei modi.
Se non che notò con la coda dell’occhio che il vecchietto era rimasto in piedi al suo fianco senza accennare a ritirarsi - come faceva abitualmente dopo avergli fornito tutto l’occorrente - né a dare spiegazioni in proposito.
Quel comportamento poteva significare una cosa sola: Watari stava per annunciargli un compito che sapeva non avrebbe gradito; e al quale, per di più, non avrebbe potuto sottrarsi.
Era certo che non si trattasse di lavoro. Il fondatore della Wammy’s House infatti sapeva bene che in quel caso ogni tentativo sarebbe stato vano; L accettava esclusivamente i casi che stuzzicavano la sua curiosità, e se non li giudicava degni di attenzione non c’era verso di convincerlo.
No, doveva trattarsi di qualcos’altro.
Il ragazzo diede un’occhiata alla lista dei compiti della giornata posata accanto al tabulato, anch’essa redatta da Watari. Non vi scorse nulla di sospetto: “Contattare Maison, direttore dell’FBI; intervenire a un’assemblea dell’ICPO; discutere con il presidente degli Stati Uniti di una faccenda delicata in cui pare siano implicate le più alte sfere del Governo...
Scorse la lista finché, arrivato circa a metà, si bloccò e deglutì a secco: “Passare al laboratorio di D”.
Oh.
Mio.
Dio.
Ecco cosa c’era.

D di disgrazia” pensò il detective, mogio.

Si era sempre chiesto perché alla Wammy’s House continuassero a tollerare la presenza di un individuo del genere. D, apparentemente una ragazzetta da niente, era un genio strampalato e completamente ingestibile. Era stata accolta all’Istituto per la sua spiccata intelligenza, grazie alla quale fin dalla tenera età aveva progettato invenzioni di vario genere nei campi più disparati; ma ben presto era divenuto chiaro a tutti che la sua genialità non avrebbe mai portato a nulla di concreto.
Per di più D si era messa in testa che, data la sua predilezione per i dolci, L potesse essere interessato a tutte le sue invenzioni assurde in merito all’argomento. Di conseguenza, non mancava mai di renderlo partecipe delle sue scoperte. Al ragazzo venne in mente un esempio eloquente, tra i tanti episodi del passato.

– Guarda, ho assemblato un termometro che avverte quando una torta è bruciata! Volevo che fossi il primo a vederlo! – aveva esclamato raggiante indicandogli, sul carrellino che si era trascinata dietro, un marchingegno dalla mole tale che non sarebbe mai riuscito ad entrare in un forno normale.

– Le sue dimensioni non sembrano molto pratiche... – le aveva detto lui, laconico.

– Sciocco! – aveva ribattuto la ragazza ridendo, come se dare dello sciocco ad L fosse stata la cosa più naturale del mondo. – Non si deve necessariamente tenere in casa! Anche in giardino va benissimo! O in cantina. O sul balcone. Funziona a distanza, grazie ad un sensore a impulsi positronici! –

– A cosa serve un termometro che avverte quando il danno ormai è fatto? – le aveva chiesto, con tono piatto.

– Non è questo il punto. Funziona, no? – aveva ribattuto lei con una logica tutta sua.

Il problema di D era proprio quello. Per lei il mezzo era più importante del fine. Era la creazione in sé ad attirare la sua attenzione; l’utilità, presunta o concreta che fosse, era una conseguenza secondaria.
E il concetto di “creare”, in un cervello bislacco come quello, aveva avuto degli sviluppi inaspettati: l’interesse di D con il passare degli anni si era concentrato sull’arte bianca, ovvero la pasticceria.
Naturalmente non bisogna credere che il suo personale concetto di pasticceria combaciasse con quello comune. I prodotti della sua mente erano meraviglie dell’architettura, in cui la perfezione geometrica e l’originalità della fantasia raggiungevano il culmine: dolci incredibili, sbalorditivi, invitanti... e assolutamente immangiabili. Era capace di usare il detersivo in polvere in mancanza della farina, il sapone al posto del burro, o il dentifricio in gel invece della marmellata, a patto che avesse un colore interessante. Del resto, il fine ultimo di un dolce non la riguardava affatto, in quanto giudicato superfluo.
Così, tutte le invenzioni della ragazza erano dirette a coadiuvarla nel campo dolciario per facilitarle il lavoro, ma in un modo apparentemente privo di senso. In verità, dire che le scoperte di D fossero insensate non era esatto; solo, all’atto pratico si rivelavano totalmente inutili per qualsiasi individuo raziocinante che non fosse stato il loro inventore.
I docenti della Wammy’s House avevano tentato più volte di indirizzare il suo talento verso attività più proficue, ma con il passare degli anni i loro sforzi si erano rivelati inutili. Sembrava che in lei vigesse esclusivamente il binomio genio-follia. Alla fine tutti si erano rassegnati a lasciarle fare ciò che più le aggradava, convinti che la ragazza soffrisse di una qualche forma di menomazione mentale che le intaccava la sfera della logica pur senza danneggiare quella intellettiva. Le avevano assegnato una cucina spaziosa, in cui poteva sbizzarrirsi con le creazioni più astruse, e non l’avevano più obbligata a seguire nessun tipo di corso di studio. Da allora, D aveva vissuto praticamente a tempo pieno nel suo “laboratorio”, guardata con sospetto da alcuni compagni e con compassione da altri, con il suo perenne sorriso da alienata stampato in faccia.

L tentò di pensare velocemente ad una soluzione per sviare dall’impegno indesiderato, senza osare voltarsi direttamente verso Watari. Purtroppo l’anziano signore lo conosceva fin da bambino e, oltre ad avere ancora un certo ascendente su di lui, avrebbe sicuramente riconosciuto una scusa. Gli sarebbe bastato uno sguardo per leggergliela in faccia.
Per di più, Watari sembrava avere intuito la sua ritrosia, e pareva aver già adottato una tattica: L reputò che l’attesa paziente del vecchietto alle sue spalle fosse a dir poco snervante. Certamente l’uomo sapeva che lui aveva già scorso tutta la lista degli impegni trovando il punto incriminato, e di sicuro si ostinava a non dire nulla al solo scopo di tenerlo sulle spine di proposito e farlo capitolare. Doveva decidersi ad affrontare la situazione e ad anticiparlo facendo la prima mossa; dopo tutto, era ridicolo rimanere in silenzio in quel modo, lasciando che il tempo trascorresse inutilmente!

– C’è dell’altro? – chiese, tanto per tastare il terreno, ma temendo la risposta.

– Stamattina D ha chiesto una tua... consulenza. Sta allestendo una mostra. – rispose educatamente l’anziano.

Una mostra? Figuriamoci, non aveva nessuna voglia di perdere tempo dietro alle fantasie di una mentecatta.

– Ho un impegno urgente e improrogabile. Credo che non sarà possibile. – rispose, sperando di liquidare la faccenda.

Ma che brillante giustificazione! Perché in presenza di Watari, al di fuori dell’ambito lavorativo, la sua acutissima mente doveva regredire all’infanzia?

– Ti sei appena svegliato, e non hai ancora deciso a cosa lavorare. – gli fece notare l’altro.

– Ho letto sulla lista che devo presenziare a una riunione dell’ICPO alle dieci in punto. Non mi rimane molto tempo. – ribatté caparbiamente il detective.

Avrebbe tenuto duro.

– Proprio così. Quindi è meglio affrettarsi a passare dal laboratorio di D. Dopo potrai dedicarti a tutto il resto senza essere distratto da nessuna preoccupazione. – continuò Watari con il consueto tono rispettoso.

Eh no, non l’avrebbe avuta vinta! Diamine, era adulto, e padrone delle proprie decisioni. Si voltò verso il suo tutore, deciso a fronteggiarlo.

– Sentimi bene, io... – cominciò.

– L... – lo interruppe l’altro.

L’espressione placida sul volto di Watari non era mutata, ma il tono di voce ebbe il potere di zittire il detective all’istante. Calmo. Deferente. E spaventosamente perentorio.

– Sì? – riuscì a mormorare.

– ...dovresti essere più gentile con le ragazze. – fu la conclusione lapidaria.

Niente da fare, l’autorità di Watari su di lui era ancora salda come una volta. L, rassegnato, si alzò dalla sedia srotolandosi dalla sua assurda posizione e si avviò verso il laboratorio di D, con le mani cacciate a fondo nelle tasche e più incurvato che mai.

..oOOo..

Il laboratorio, che D chiamava “la fucina dell’estro” ma che tutti conoscevano come “l’antro della cuoca pazza”, era un’enorme cucina attrezzata che si estendeva su un’area di circa quaranta metri quadri, ottenuta unendo tre camere del dormitorio. In essa mobili, pentolame ed elettrodomestici si alternavano ad apparecchiature elettroniche, arnesi da lavoro e cavi elettrici che correvano lungo il pavimento.
Sulla porta spiccava una targa dai colori pastello che citava “D’s lab :)”. L pensò che quando D parlava del suo laboratorio se lo immaginasse proprio così, con una faccina sorridente al fondo. Girò il pomello della porta, entrò... e quasi si scontrò con due ragazze slanciate e attraenti che indossavano nient’altro che un corto accappatoio.

– Uffa, non è ancora arrivato... – sbuffò annoiata una delle due.

Portava i capelli raccolti in una curiosa acconciatura di bastoncini di vaniglia e ciliegine candite.

– Chi dovrebbe arrivare? – chiese il ragazzo, incuriosito dallo strano incontro.

Quella là ha detto che non può finire il mio vestito finché non le portano della panna da montare! – gli rispose la seconda.

L si accorse con sorpresa che, ad una più attenta osservazione, il trucco del viso della giovane era composto non da normali cosmetici, ma da un sottilissimo strato di zucchero colorato.
In quel momento la conversazione fu interrotta da uno strillo acuto, proveniente dal retro di una tenda che serviva da divisore tra la cucina e l’area di lavoro.

– Oh, scusa! Non mi ero accorta che fosse ancora così caldo! – cinguettò un’inconfondibile vocina femminile.

Chi sta torturando questa volta?” si chiese il detective, con un sospiro.

– Posso entrare? – domandò, scostando la tenda.

Quello che vide lo lasciò di stucco. D, per mezzo di una sac à poche (1), stava tracciando il disegno di un elaborato arabesco di cioccolata direttamente sul petto e l’addome di una ragazza sdraiata sul tavolo. Quest’ultima era completamente nuda ad eccezione di un succinto perizoma color pelle, ed era graziosa al pari delle altre due ragazze che aveva incontrato all’ingresso della cucina. Immobile sulla lastra di marmo nonostante l’espressione insofferente sul viso, attendeva che la pasticciera terminasse l’arabesco, del tutto indifferente al fatto che un uomo avesse fatto il suo ingresso. L notò che il disegno di cioccolata simulava una guepière dalla trama raffinata.
Poco più in là, una fotografa era intenta ad inquadrare una quarta modella da diverse angolazioni, scattando foto senza sosta con la sua reflex. L rimase senza parole: l’ultima modella indossava quello che sembrava essere un sofisticato abito di pan di Spagna e marzapane.
L’esclamazione di gioia di D lo riportò alla realtà.

– Piccolo Pandaaaa! Sei venuto a trovarmi! – esultò vedendolo.

Gli si lanciò contro senza mollare la sac à poche che stava utilizzando, con il risultato di macchiargli vistosamente la maglia bianca con la crema al cioccolato che vi era contenuta.

D di disastro…” pensò L, irritato.

– Non mi chiamare con stupidi soprannomi. Non siamo più bambini! – la rimproverò.

– D’accordo, Piccolo Panda – rispose la ragazza fissandolo con sguardo adorante.

– Chiamami L! –

– Come vuoi, Ellino! – continuò lei, senza smettere di sorridergli.

Rettifico: D di demente” puntualizzò L fra sé.

La ragazza tornò allegramente all’occupazione che aveva interrotto. La divisa bianca che indossava le cadeva dritta sul corpo efebico, privo di curve e fianchi. Una ciocca di capelli le sfuggì dal cappello da cuoco; D se la risistemò dietro l’orecchio, lasciando una sbavatura di cioccolato a fare compagnia alla chiazza di zucchero a velo che le imbrattava una guancia.

– Watari ti avrà accennato della mostra. In realtà, all’inizio volevo organizzare una sfilata di moda dal vivo, con vestiti commestibili! Non è emozionante? Però c’era un problema: non sarebbe stato possibile far sfilare tutte le mie opere direttamente davanti al pubblico, perchè alcune sono troppo deperibili e di breve durata. Così ho pensato di farle immortalare, e di abbinare una mostra fotografica alla sfilata! L’ho intitolata “le belle pasticcine”. E’ un gioco di parole, l’hai capito? Ricorda “le belle statuine”, ah ah ah! – lo informò ridendo.

Confermo. D di demente” pensò L, guardandosi però bene dall’esternare la propria opinione.

– Quel vestito, in particolare, mi è costato parecchia fatica. All’inizio non avevo la più pallida idea di come confezionarlo. Voglio dire, non è che possa cucire il pan di Spagna... meno male che sono riuscita a tenerlo insieme con un condensato di marmellata e bostik! – concluse D con un sorriso radioso, in attesa di un apprezzamento dal suo interlocutore per la brillante trovata.

– ...bell’idea... – la accontentò L con sufficienza.

Il pensiero di cosa potesse aver usato la ragazza oltre al bostik gli tolse ogni appetito verso quelle splendide creazioni.
D gli si avvicinò, parlando a bassa voce per non farsi sentire dalla modella vestita di marzapane.

– Cioè, se avessi potuto ficcarla direttamente nel forno avvolta nell’impasto sarebbe stato tutto più facile... ma non credo che si possa fare, vero? – chiese speranzosa, come se un’eventuale risposta positiva del detective avesse potuto darle il via libera.

L la scrutò attentamente senza riuscire a capire se stesse scherzando. Scacciò dalla mente il dubbio atroce che gli stesse dicendo la pura e semplice verità.
In quel momento qualcuno bussò alla porta, spalancandola senza attendere il permesso di entrare.

– Mello, finalmente! – lo accolse D saltellandogli incontro.

– La tua panna, dottor Frankenstein – l’apostrofò il biondo, sbattendo un cartoccio da due litri sul piano di lavoro della cucina.

– Grazie! – rispose lei giuliva. Poi, con aria contrita, aggiunse: – Senti, non è che ci hai ripensato? –

– Neanche morto! Non ci pensare nemmeno, non mi lascerò mai trasformare in un ricoperto al cioccolato! – ringhiò il ragazzo.

– Ma ti ho già spiegato che non ci sarà nessun pericolo! Il cioccolato sarà tiepido! E ti lascerò libere le narici! – ribattè lei, con gli occhi lucidi.

– Non mi freghi! – rispose Mello. – Vuole immergermi nel cioccolato fuso e farmi partecipare alla sua dannata mostra! – spiegò rivolto al ragazzo moro.

– Ma non capisci? Il cioccolato è il must del momento! Pensa, un ricoperto al cioccolato vivente... Ti intitolerei “Magnum”, come il gelato della Wall's! (2) Saresti il pezzo forte della sfilata! – piagnucolò lei.

– Come no! Conoscendoti, per completare l’opera saresti perfino capace di infilarmi una stecca nel... –.

Il campanello del forno censurò l’ultima parola di Mello.

– Ah! Il cappello di meringa è pronto! – esclamò D correndo ad estrarre la teglia e mollando il “pezzo forte” della mostra a lagnarsi con il detective.

– Bene, ora che è arrivata la panna posso preparare il “bikini montato”! – annunciò poi, tornando nell’area di lavoro reggendo una ciotola con una mano e un apparecchio elettrico con l’altra.

Chiamò la modella con il trucco di zucchero e le chiese di distendersi sul tavolo al posto di quella con la guepière di cioccolata, che nel frattempo si era solidificata. La modella sciolse il nodo della cintura dell’accappatoio e gettò a terra l’indumento, rimanendo di colpo completamente nuda e facendo rischiare un mezzo infarto ai due ragazzi presenti. Incurante della loro reazione, si sdraiò elegantemente sul piano di lavoro.

– Un pasticciere degno di questo nome monta la panna a mano, ma per questa volta farò un’eccezione e inaugurerò il mio nuovo frullino semovente a flusso ordinato di cariche elettriche (3) – spiegò D, sollevando l’apparecchio come un trofeo.

– Assomiglia in tutto e per tutto a un comunissimo sbattitore elettrico – le fece notare Mello.

D mise in moto l’apparecchio, senza curarsi dell’osservazione del biondo.

– Hai proprio ragione – concordò L.

Quest’ultimo commento, al contrario, parve pungere la ragazza sul vivo.

– Non vorrai insinuare che copio le invenzioni altrui? – rispose con un tono stizzito che non le era consono.

L rimase colpito dal suo scatto: era sicuramente la prima volta in cui la ragazza gli si rivolgeva  priva dell’eterno sorriso sul volto.

– Non so cosa sia, questo “sbattitore elettrico” – borbottò imbronciata fra sé e sé.

Dopo di che non disse più una parola. Cominciò a lavorare la panna liquida con il frullino finché non triplicò di volume e si solidificò. Sempre in silenzio, applicò poi una bocchetta rigata ad una nuova sac à poche e riempì la tasca di panna montata per mezzo di una spatola.
Ad L quel mutismo sembrò innaturale come il sorriso svanito. L’atmosfera si era fatta improvvisamente pesante; per di più, Mello ebbe la splendida idea di defilarsi, mollandolo lì ad arrabattarsi per cercare una soluzione. A cosa, poi? Non riusciva proprio a capire perché D se la fosse presa con lui. Dopo tutto, era stato Mello a parlare per primo.

– Lo sbattitore elettrico è un apparecchio composto da due fruste e un motore, ma molto più lento, grezzo e antiquato del tuo. A guardare meglio, si vede chiaramente che sono due cose completamente diverse! – le disse nell’intento di rimediare.

– Non prendermi per scema. – fu la risposta di D.

L’incrinatura che avvertì nella sua voce lo meravigliò ancor più dell’arrabbiatura apparentemente ingiustificata della ragazza.

D di depressa. Questa mi mancava”.

La ragazza, muovendo con maestria la sac à poche, cominciò a disegnare addosso alla modella i contorni del bikini con lunghi ghirigori di panna montata, riempiendoli poi con linee orizzontali e verticali in modo da riprodurre la trama di una stoffa. Completò il motivo con alcuni ciuffetti di crema e con bacche di mirtilli e lamponi, ed infine posò sulla testa della modella un turbante di zucchero filato. Durante tutta l’operazione mantenne sul viso quell’aria corrucciata del tutto estranea alla sua solita espressione.

– Fatto. Ora puoi sfilare davanti alla macchina fotografica – proferì con voce atona.

L’entusiasmo con cui aveva lavorato all’idea di quell’evento si era smorzato.
Naturalmente aveva mentito, riguardo lo sbattitore elettrico. In quanto appassionata di pasticceria, era ovvio che conoscesse un attrezzo del genere. Ma la sua invenzione, rispetto ad esso, era molto più evoluta: sfruttando la particolare forma aerodinamica delle fruste e gli impulsi elettrici trasmessi ad esse dal motorino da lei stessa brevettato, permetteva di montare panna o albumi in un tempo irrisorio senza surriscaldarne le molecole. Il sensore bloccava automaticamente l’apparecchio quando la panna raggiungeva la giusta consistenza, evitando così di farla impazzire o di trasformarla in burro. Ma l’idea che quell’apparecchio, così simile ad un comune sbattitore, avesse potuto essere in realtà qualcosa di molto più avanzato, evidentemente non era nemmeno passata per l’anticamera del cervello del detective. Come tutti gli altri, anche lui aveva creduto che il genio strampalato della Wammy’s House non fosse in grado di produrre nulla di utile…
D sapeva benissimo che le sue invenzioni non venissero comprese, e sapeva altrettanto bene che gli altri la considerassero diversa. Lei stessa era conscia di essere diversa; solo non capiva il perché. La spiegazione le sfuggiva, aleggiando appena al di sopra della soglia della sua comprensione, come quando non riusciva a cogliere l’essenza delle lezioni di filosofia e etica che i suoi compagni sembravano apprendere con estrema facilità. Per lei, le uniche cose comprensibili erano la matematica, la meccanica, la fisica; tutto ciò che esulava dalle scienze esatte era fuori dalla sua portata.
A volte pensava che probabilmente, se fosse nata e vissuta su un’isola deserta, avrebbe condotto un’esistenza felice all’oscuro della propria diversità; ma, a contatto con la gente, non poteva fare a meno di avvertire la loro diffidenza nei suoi confronti. Cosa c’era di diverso tra il suo comportamento e quello degli altri? Perché la giudicavano strana? Non riusciva a comprenderlo. Aveva la netta impressione che il proprio handicap, se così si poteva chiamare, le stesse precludendo un’enorme fetta di vita che non sarebbe mai riuscita ad afferrare appieno: come le lezioni di filosofia, sarebbe rimasta per sempre un privilegio degli “altri”.
In L a volte avvertiva la sua stessa diversità. Forse per questo lo sentiva più vicino di qualsiasi altro ragazzo della Wammy’s House. Tuttavia, la presunta diversità di L, a differenza della sua, era volontaria. Lui si emarginava coscientemente dalla vita sociale, perché i suoi interessi erano rivolti altrove; l’eccentricità del suo comportamento era dettata dal suo carattere peculiare, e non indotta da una tara mentale.
Nonostante ciò, L era l’unica persona che avesse provato a leggerle dentro, senza farsi influenzare dalla definizione di “geniale ma stramba” con la quale la ragazza veniva etichettata e liquidata dalla maggior parte della gente che si teneva alla larga da lei. In verità, quella del detective era pura curiosità: se Watari e Roger avevano creduto in D al punto da assegnarle una lettera dell’alfabeto – premio riservato esclusivamente agli allievi che possedevano capacità tali da poter contribuire alla salvezza del mondo con il loro operato – qualcosa di utile in lei doveva esserci. Di conseguenza, il suo spirito investigativo lo aveva spinto irresistibilmente a scoprire di che cosa si trattasse.
Ma D tutto questo non poteva saperlo; da parte sua, credeva piuttosto che L le si fosse avvicinato per distrazione o per noia. In fondo, il vero motivo non le importava; le piaceva poter scambiare qualche parola con quel ragazzo che, al pari di lei, sembrava isolato dal mondo esterno. La faceva sentire meno reietta.
Fino a quel momento lo aveva ritenuto migliore di tutti gli altri, ma a quanto pareva si era illusa. Il suo commento sullo sbattitore le aveva aperto gli occhi, ferendola.  
D rimase a fissare le modelle che posavano davanti all’obiettivo esibendosi con i suoi abiti mangerecci e facendoli risaltare con la loro grazia. Le invidiò un pochino.
Non si poteva definire bella, lei: i capelli, di un biondo senza tono, incorniciavano il viso smunto dai lineamenti anonimi e dagli occhi cerulei, di una sfumatura così slavata da risultare insignificante. Le labbra, lungi dall’assomigliare a quei boccioli pieni e morbidi tipici delle adolescenti, erano sottili, quasi ceree. L’unico pallido tocco di colore era dato dalle guance, di un tenue rosa pesca.
Anche il sul corpo era anonimo; ancora acerbo, non faceva intuire neanche l’accenno di una curva femminile.
Sì, in quel momento D pensò di invidiare davvero le ragazze che si pavoneggiavano indossando le sue creazioni, ridendo fra loro e mettendosi in posa. Si ritrovò a pensare che, pur non possedendo un briciolo della sua creatività, potevano permettersi un sacco di esperienze che a lei erano precluse, e si sentì triste. Non le era certo sfuggito lo sguardo dei due ragazzi davanti al corpo nudo della modella. Lei, al contrario, non avrebbe mai attirato l’attenzione di nessuno.

– Trovo che tu abbia avuto un’idea davvero originale, con questa sfilata. – le disse L, alle sue spalle.

Lei si voltò verso di lui, indecisa se credere o meno alle sue parole.

– E’ per questo che mi hai fatto chiamare, no? Volevi un mio parere. Beh, credo che il pubblico rimarrà a bocca aperta. – continuò.

La ragazza lo fissò assorta. In altri momenti gli sarebbe saltata festosamente al collo, entusiasta del suo giudizio, guadagnandoci da parte di lui una smorfia irritata che trovava estremamente comica. Ma in quel momento si chiese se non la stesse prendendo nuovamente in giro.
Quel pensiero la turbò: provare sospetto per L era una sensazione del tutto nuova, aliena. E spiacevole.
Lo aveva considerato un amico per tanto tempo; forse, sbagliava ad essere così precipitosa, giudicandolo male per una breve, unica frase e negandogli una seconda possibilità. Però, se non fosse stato sincero, lei questa volta ci sarebbe rimasta male per davvero…
Il ragazzo si accorse del suo nervosismo. Non gli piaceva, questa “D diffidente”, così diversa dalla ragazza svampita a cui era abituato. Gli diede la sensazione che qualcosa fra di loro si fosse irreparabilmente infranto; un legame prezioso e speciale, che fino a poco prima era riservato esclusivamente a lui e a nessun altro.

Poi lei sorrise, e l’inquietudine svanì.

La ragazza aprì il frigo e ne estrasse un dolcetto dall’aria deliziosamente invitante. Lo porse al detective, che però esitò.

– Coraggio, prendilo! Ti assicuro che l’ho preparato soltanto con ingredienti commestibili! E’ per ringraziarti del tempo che mi hai dedicato, Piccolo Panda. – lo incoraggiò, ridendo della sua ritrosia.

– Allora grazie. – rispose lui, accettando il dolce e avviandosi verso l’uscita. – Sono sicuro che la sfilata sarà un successo... anche senza il “pezzo forte”. –

D non smise di sorridergli, ed L si sentì risollevato. Come se avesse rischiato per un pelo di perdere qualcosa di essenziale.

..oOOo..

L posò il dolcetto sulla scrivania. Era un vero gioiellino di arte pasticciera; se il sapore era all’altezza dell’aspetto, si sarebbe rivelato senza dubbio il dolce più squisito della sua vita.
Per un momento fu sfiorato dal pensiero che sarebbe stato un peccato rovinarlo mangiandolo… e un attimo dopo il pensiero venne giudicato estremamente stupido e blasfemo, e scacciato senza indugio.
Dopo tutto, un dolce esisteva appositamente per essere mangiato. E poi a D avrebbe fatto piacere sapere se gli era piaciuto.
D…
Chissà quanto impegno doveva averci messo nella preparazione di quel dolce, appositamente per lui!

– D di... dolcezza? – mormorò soprappensiero.

Che stupidaggine, quella ragazza era così strampalata che i due termini non avrebbero mai potuto coesistere nella stessa frase. Nonostante ciò, L non riuscì a cancellare del tutto la sensazione che aveva avvertito quando lei gli aveva porto il suo regalo, con il sorriso radioso stampato sulla faccia e le guance un po’ più colorite del solito. In quel momento, gli occhi le brillavano di felicità. Gli era sembrata davvero tenera.
Per un attimo L si sentì vicino a svelare il mistero della presenza della ragazza alla Wammy’s House. D non avrebbe mai potuto succedergli, questo era un dato di fatto; era una persona incoerente e completamente scollegata dalla realtà, con gravi problemi di integrazione sociale. Però, proprio per questo motivo si era legata a lui; in un certo senso, D dipendeva da lui. E ciò lo rendeva in qualche modo responsabile della sorte della ragazza. Avrebbe potuto continuare ad ignorarla come aveva fatto fino a quel momento, oppure accettare la sua amicizia disinteressata, sobbarcandosi la conseguenza di farle un po’ da fratello maggiore. Però, in questo caso, avrebbe dovuto cominciare a  prendere coscienza lui stesso dei rapporti umani dai quali si era sempre tenuto alla larga.
Forse la soluzione era tutta lì. Roger e Watari avevano visto in D l’elemento che avrebbe potuto sostenere L nella sua missione in un modo particolare: costringendolo a far affiorare dentro di sè un senso di altruismo.

Dopo tutto, era impensabile poter salvare il mondo chiudendo fuori i sentimenti umani.

Guardò l’ora: le dieci meno cinque. Chiamò Watari e gli chiese di metterlo in contatto con la sede dell’ICPO. Avrebbe fatto in modo di liquidare la riunione il più in fretta possibile. Poi finalmente avrebbe potuto godersi il suo dolce in pace: meritava di essere gustato con calma.




(1) La sac à poche è la tasca da pasticciere, ovvero l’attrezzo che serve per decorare i dolci, riempire i pasticcini, fare zeppole e bignè, ecc.

(2) Wall’s è il marchio dell’Algida in Inghilterra (la Wammy’s House si trova a Winchester). Eh sì, sono capace di badare a queste inezie infinitesimali e contemporaneamente di trascurare vagonate di particolari basilari. Questa è AngelVirtues, gente!

(3) Un flusso ordinato di cariche elettriche è un insieme di paroloni per definire la comune corrente elettrica ^^


Il confessionale:
ringrazio tutti quelli che hanno letto, tutti quelli che vorranno eventualmente darmi consigli su migliorie da apportare alla storia, e naturalmente tutti quelli che si sono divertiti leggendola ^^
Dite la verità, dal titolo vi aspettavate una mielosa storia d'amore marysuesca, eh?
Dunque, la volta scorsa ho scritto una storia su R, adesso sono passata a D. Uhm, credo che, nel caso in cui mi venisse l'idea per una terza lettera,  farei meglio a radunarle tutte in una raccolta XD

Un ringraziamento speciale va a Micch, che ha betato il testo dandogli quel tocco in più che fa sempre tanto bene!
   
 
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