Tayros
Senza
nome
Acqua salata, grigia come il cielo dell’inverno che anche quell’anno sarebbe finito troppo presto. Il vecchio si coprì la testa con un lembo del mantello, saettò al mare un’ultima occhiata astiosa e stabilì che era giunto il momento di andarsene, prima che il cielo vomitasse ancora pioggia.
Da molto prima che nascesse il padre di suo padre, in quanti, marinai, pescatori e mercanti, si erano prostrati ai piedi del Re, implorandolo affinché desse un nome alla distesa d’acqua di cui era impossibile scorgere il confine, dimora di numi, strada che conduceva presso altri popoli e altri mondi, fonte di ricchezza e di sostentamento? La risposta era la stessa da un’infinità di soli nati e morti, d’estati torride, di tramontane ululanti come Erinni infernali. Era, è…e sarà. Pensava Egeo. Perché la distesa grigia che si allargava immensa ai suoi piedi, non era soltanto dimora di numi, strada che portava lontano, fonte di ricchezza e sostentamento. Era dimora di mostri, fomentatrice d’illusioni, cagione di morte. E giustizia non imponeva che degli assassini fosse strappata via la vita e cancellato qualsiasi ricordo, a cominciare dal nome che padre e madre gli avevano imposto?
I poteri che il Fato e gli dei gli avevano concesso a poco sarebbero servito contro l’assassino fatto di acqua, sale e infinito che mugghiava minaccioso come un toro selvaggio dalle lunghe corna falcate. Hanno forse un nome l’incendio, la tempesta, il fulmine, il terremoto?
Tanti soli erano sorti e tramontati, tante stagioni si erano rincorse, tante primavere avevano scalzato gli inverni, ma il tempo non lo aveva aiutato a dimenticare, come qualcuno pretendeva di fargli credere. Era una bella giornata di sole, quando suo figlio si era recato con il cane a giocare sulla spiaggia. L’animale aveva fatto ritorno, Teseo no. Aveva solo otto anni. Nessuna vedetta aveva avvistato al largo navi dalle grandi vele scure, le agili navi dei maledetti Phoinikes che avevano nasi adunchi, dita macchiate dal succo rosso dei murici, puzzavano di pesce e di morchia, e si diceva rapissero i fanciulli per non sacrificare i loro figli ai mostri che adoravano. Il mare gli aveva offerto il primo dei suoi doni avvelenati.
Non una tomba su cui piangere né una speranza alla quale aggrapparsi. Che fossero per sempre maledetti, i Phoinikes ladroni di mare e rapitori di fanciulli. Gli anni e il dolore gli avevano inciso il volto di rughe, incanutito precocemente i capelli. I maledetti Phoinikes dalle folte barbe crespe avevano distrutto la sua vita; ma un re non può permettersi il lusso della pazzia.
Come lui malediceva il mare, così Dedalo malediceva la sua ambizione. I monelli, che lo avevano sempre conosciuto sudicio e cencioso, gli buttavano addosso torsoli di cavolo e ridevano ascoltandolo farneticare, di certo faticavano a credere a quanti raccontavano di come grande fosse stata la sua fama di costruttore, che addirittura aveva varcato il mare, tanto tempo prima. Il re di Creta, il possente Minosse, gli aveva commissionato, promettendogli in cambio immense ricchezze, un carcere da cui fosse impossibile evadere. Ma era stato ingannato e massicce porte nere si erano chiuse dietro lui e suo figlio, affinché il segreto non trapelasse e gli dei gradissero un doppio sacrificio di morte. Tuttavia Dedalo conosceva i segreti di quell’edificio che la sua mente aveva concepito e gli dei…Non avrebbero avuto, i Numi strafottenti e crudeli, la sua vita e quella del giovane Icaro, il suo genio sarebbe stato più forte della loro onnipotenza. Invece, dopo aver scalato a mani nude una ripida muraglia a picco sul mare, il ragazzo, provato dalla fame, dalla debolezza e dal terrore, doveva essere impazzito e si era lanciato nel vuoto, credendo di volare.
-E tu non sei capace di volare, vecchio pazzo?
Qualcuno lo spintonava, i monelli ridevano e gli occhi folli dello straccione si riempivano di lacrime.
Dedalo aveva visto morire il sangue del suo sangue. Il re, da oltre dieci anni, non sapeva che ne fosse stato del suo. E aveva imparato sulla sua stessa pelle che la speranza non logora meno del dolore l’anima dell’uomo.
I doni
del mare
I giorni si susseguirono indifferenti e implacabili, e dal mare venne Androgeo, il figlio del re di Creta, Minosse il Possente. Dedalo, l’accattone, maledisse lui e l’intera sua stirpe, ma nessuno badò alle farneticazioni del vecchio pazzo e l’ospite fu accolto con tutti gli onori da tributarsi a un principe suo pari. Il dopo ti autorizza a ridere di te, non ci fosse da piangere, si diceva spesso Egeo da sé solo, pensando al secondo dei doni avvelenati che gli erano venuti dal mare. Androgeo, principe di Creta. Un bellimbusto effeminato, con le palpebre sottolineate dal bistro, olezzante di profumi e tintinnante di gioielli come una prostituta. In presenza di alcuni giovani nobili ateniesi, l’idiota s’era vantato di saper domare qualsiasi toro, anche il più aggressivo e selvaggio. Già, aggressivo e selvaggio come i grossi bovi castrati che i tuoi compatrioti addestrano a restare immobili come statue mentre giovani acrobati piroettano con eleganza e senza rischiare nulla sulle loro larghe groppe?
Androgeo era presuntuoso, come tutti gli idioti. Il grande toro nero che sbuffava e scalpitava aldilà del recinto nulla aveva in comune con i placidi bovi addestrati sul largo dorso dei quali anche lui doveva essersi esibito in salti e piroette. Ma la bocca ai maledetti bellimbusti ateniesi che avevano osato ridere del figlio di Minosse doveva chiuderla, in un modo o nell’altro. Scavalcò il recinto.
Le maledizioni di Dedalo e il mugghiare lugubre del grande toro nero, il rosso del sangue sulle punta delle sue corna e il pallore di morte sul viso bistrato del principe Androgeo furono il secondo dono che gli venne dal mare. Il terzo non si sarebbe fatto attendere a lungo, Egeo ne era certo.
E venne ancora dal mare, l’ambasciata di Minosse il Possente, per portare fino alla rocca dell’Acropoli dolore senza speranza.
Il re di Creta chiedeva sette fanciulli e sette fanciulle, scelti tra i nati di nobile famiglia, o sarebbe stata guerra.
Minosse il Possente pretendeva vendetta. Lacrime contro lacrime, dolore contro dolore, finché avesse avuto fiato in corpo e sangue nelle vene. Sette fanciulli e sette fanciulle ogni anno che gli dei avrebbero mandato sulla terra, non appena con il ritorno della primavera sarebbe stato possibile alle navi affrontare nuovamente il mare. Giovani vite che Egeo non avrebbe osato rifiutare a un sovrano troppo potente, per non rischiare una guerra perduta in partenza e un destino di schiavitù per il suo popolo. Giovani vite che l’oblio avrebbe inghiottito, com’era accaduto al suo Teseo, che i maledetti Phoinikes dalle scure pelli untuose avevano rapito per sacrificarlo ai mostri che adoravano.
“Ti
maledico,
Minosse empio e spergiuro, come gli Dei hanno maledetto te e la tua
progenie…”
Dedalo, il vecchio pazzo, andava farneticando di un mostro racchiuso nel labirinto dalle cento stanze che egli stesso era stato incaricato di progettare. Un mostro generato dai lombi del Re e partorito dalla sua sposa, un demone che si nutriva di carne e di sangue. Come gli idoli ai quali i maledetti Phoinikes sacrificavano i fanciulli rapiti per risparmiare i loro figli.
Ma la mente di Dedalo era tanto sconvolta da confondere realtà e fantasia, pensava Egeo scuotendo la testa, mentre ascoltava gemere il vento e lamentarsi la civetta.
Teseo
L’età e l’esperienza l’avevano reso diffidente. Anni, del resto, ne erano passati troppi per poter affermare con certezza che lo sconosciuto fosse chi diceva di essere o che mentisse. Indossava vesti straniere, e aveva la faccia cotta dal sole. Una faccia diversa da quella che conosceva, gli era stata cara e tormentava ancora come un’ossessione i suoi sogni. I riccioli erano neri e molli come allora, ma gli occhi scuri s’erano fatti guardinghi e l’ombra fuligginosa della barba che gli sporcava le guance proclamando al mondo come fosse diventato un uomo non nascondeva la cicatrice di un morso appena sotto lo zigomo sinistro. Parlava con l‘accento cantilenante dei maledetti Phoinikes, gli stessi che avevano rapito il suo bambino. Quando lo rivedrò, in questa vita o nell’altra, il cuore mi balzerà in petto, e sentirò il mio sangue cantare. Ma il suo sangue non aveva cantato, nonostante fosse quasi certo che gli occhi dello straniero erano quelli di suo figlio. E quella cicatrice…
-Quando è stato? E come?
-Il cane. Volevi ucciderlo, e io te lo impedii…Padre.
“Lycos
è un bravo
cane. E’ colpa mia se m’ha assalito. Sono stato
imprudente a strappargli l’osso
di bocca, lui si è solo difeso.”
Dieci anni erano passati, e il suo sangue non cantava, malgrado le affermazioni dello straniero fossero come la luce dell’alba che dilania le tenebre.
Era un
bravo cane,
Lycos. Mi capitava spesso di pensare ai nostri giochi insieme, quando
ero
lontano. Chissà
se anch’io gli sono
mancato.
Non cantò, il sangue del vecchio Egeo, neppure quando un servo condusse il mastino pulcioso e ormai decrepito nella sala delle udienze e la certezza cancellò ogni dubbio, dopo che il cane riconobbe nel giovane dalla pelle scura e dagli occhi guardinghi il suo antico padroncino.
Perché
non ti sei
fatto vivo che adesso, figlio? Quello che ti offrivo, una corona e un
regno,
non avevano per te il fascino dell’avventura che i maledetti Phoinikes pirati
e ladri di bambini
potevano offrirti? Perché non sei tornato prima e hai
permesso che mi macerassi
nel dolore per così tanto tempo?
Avevi
otto anni, quando fosti rapito: sono abbastanza da ricordare anche tuo
padre
che ti amava e che da allora ha vissuto col cuore schiacciato sotto il
peso del
mondo, e invece ricordi solo il tuo cane.
Non cantò, il sangue del vecchio, neppure mentre, con mani tremanti posava il serto d’oro sui capelli arruffati di Teseo, l’erede al trono, il figlio ritrovato.
Se il
coraggio
avesse albergato nel tuo cuore di coniglio, avresti portato guerra fino
ai lidi
dei maledetti Phoinikes pirati e ladri di bambini, invece hai lasciato
che mi
portassero via, condannandomi a un destino umiliante di
schiavitù.
Il giovane non s’inchinò, né abbassò lo sguardo di fronte a colui che gli era padre e sovrano. In porto, aveva visto imbarcarsi su una nave che li avrebbe condotti al loro destino sette bambini e sette fanciulle. Il tributo, gli avevano detto, a Minosse, il re di Creta. Che cosa ne sarebbe stato di loro, a nessuno era dato di saperlo, e in proposito si raccontavano storie terribili. Erano ormai trascorse quattro primavere, dacché Androgeo era morto da sciocco e Minosse aveva cominciato a esigere il tributo di sangue. Minosse era troppo potente. Ed Egeo…Egeo aveva in petto un cuore di coniglio, pensò Teseo strappandosi il serto d’oro dai capelli e scagliandolo in terra.
-Che tu mi dia o meno licenza, partirò con loro, mio padre e sovrano. Se tornerò vincitore, i marinai isseranno sull’albero della nave vele bianche…
…Ma
se il Fato mi
chiederà di pagare il conto una volta per tutte,
dall’alto dell’Acropoli vedrai
sul mare vele nere come la notte, il rimorso ti avvolgerà
come un lercio,
logoro mantello puzzolente, e finché vivrai non
ti libererai dei tuoi incubi…Egeo.
Barak
Avesse vissuto la vita che il destino sembrava volergli assegnare non l’avrebbe amata come l’amava, la distesa immensa e inquieta delle acque. Fosse stato quel padre pavido che l’aveva generato a crescerlo, gli avrebbe insegnato a temerlo come un pericolo mortale, il mare. Invece era stato un altro uomo a insegnargli a piegarlo alla sua volontà come un puledro riottoso, ad affrontarlo mettendo in conto i rischi che questo comportava e a scoprire che ne valeva la pena. Sempre.
Si chiamava Barak. Il Fulmine. Come quelli che Zeus saetta sulla terra per punire delle loro colpe e della loro empietà i mortali. Ma Barak adorava altri dei. Dei crudeli, assetati di carne e di sangue umani. Erano i sacerdoti di Baal ad acquistare la merce che il pirata vendeva nei porti di Biblo, Tiro e Sidone dopo averla rapita nelle località costiere di tutto il Grande Mare che non aveva nome. Bambini stranieri che sarebbero stati offerti in sacrificio al Demone per risparmiare quelli dei Phoinikes…Un destino che, stranamente, Barak il Fulmine gli aveva risparmiato.
Nel corso di quegli anni, si era domandato tante volte perché, Teseo principe d’Atene. Perché, in quanto figlio di re, avrebbe potuto fruttare al pirata un congruo riscatto? La più elementare delle logiche imporrebbe che a un ostaggio la cui vita valeva oro fosse riservato un buon trattamento, mentre a lui non erano state risparmiate le busse, le fatiche e le umiliazioni che si riservano agli schiavi. Ma se conosceva il mondo lo doveva a quel lercio ladrone dalle labbra livide e la testa tignosa, che ti guardava con un unico occhio iniettato di sangue, puzzava di sudore e di carogna, a quell’essere abbietto che lui odiava con tutto se stesso. Nonostante tutto.
Barak era stato il suo destino, pensava Teseo guardando il mare. Un destino che, a meno di quattordici anni, lo aveva condotto su lidi sconosciuti, tra genti che parlavano lingue diverse e adoravano i più strani fra gli dei, mostruosità grottesche, uomini con teste di bestie, perfino spiriti incorporei: Babilonesi, Ittiti, Cananei, Egizi dai lunghi occhi truccati. Barak gli aveva insegnato il nome e la direzione dei venti, come orientarsi osservando il sole e le stelle, prevedere le tempeste, governare un’imbarcazione e ricavare sostentamento dal mare. Gli aveva insegnato a truffare, imbrogliare, minacciare. Gli aveva insegnato a trasformare il più innocuo degli oggetti in un’arma letale e in quale parte del corpo colpire per cagionare una morte rapida e pietosa. O lenta e crudele.
Barak era stato il suo destino, e lui quello del predone. Quel giorno, il mare era calmo e una brezza leggera gli scompigliava i capelli. Teseo aveva percepito la carezza viscida della sua mano sulle natiche. Non era più un bambino, a quattordici anni fatti, era alto e forte, e qualcuno gli aveva insegnato a uccidere: quello stesso uomo che l’aveva fatto oggetto delle sue attenzioni equivoche. Sono stato il tuo schiavo, ma non sarò la tua puttana, gli sibilò, brandendo un arpione e piantandoglielo nel ventre. Non meritava una morte rapida e pietosa, Barak il Fulmine, e quella che gli venne da Teseo fu lenta e crudele.
Cnosso
Barak, ricordò Teseo, gli occhi fissi alla linea dell’orizzonte, gli aveva parlato tante volte di quella terra, quando lui era ancora un bambino e l’altro un pirata, un ladrone, magari uno sfacciato propagatore d’imposture che in realtà sull’isola non aveva mai posato i suoi fetidi piedi, perché sarebbe stato ricacciato in mare vivo o morto, avesse osato soltanto avvicinarsi alle coste cretesi con il suo agile vascello dalla grande vela nera. Creta, benedetta e protetta dagli dei. Creta, ricca, potente, corrotta e terribile. Creta che non amava gli audaci e infidi Uomini del Mare.
Forse mentendo, forse rubando ricordi altrui, gli aveva detto di campi lussureggianti e di splendidi giardini, di sontuosi palazzi affrescati, di giovani dagli occhi ridenti e dai lunghi capelli scuri che, per dimostrare il tutto il loro coraggio, erano soliti piroettare sui dorsi di grandi bovi appositamente addestrati, di splendide donne che non conoscevano pudore…Gli aveva detto di una città chiamata Cnosso.
E lui aveva fantasticato sugli incanti e le menzogne di cui Barak gli parlava, quando il vino raddolciva il suo umore. Aveva fantasticato su quelle meraviglie che non conosceva e avrebbe voluto conoscere, si ritrovò a pensare Teseo. Anni non ne erano passati molti, da allora, ma di certo lui era cambiato, e sapeva che, ammesso fossero verità e non fantasia, i suoi occhi, la sua mente e il suo cuore non si sarebbero lasciati incantare. Da nulla: gioielli e giardini e palazzi meravigliosamente affrescati e stupidi giovani che piroettavano in groppa ai bovi e puttane che mostravano senza ritegno i seni nudi, i capezzoli tinti con la cocciniglia e la polvere d’oro.
Terra alle viste, berciò il marinaio di vedetta. Terra di demoni e non di meraviglie, mura che i Ciclopi dovevano aver edificato, all’alba dei tempi. A picco sugli scogli, il Palazzo dalle cento stanze, l’inestricabile susseguirsi di atrii e cubicoli, finti ingressi e finte porte, luogo dov’era inevitabile smarrirsi e da cui sarebbe stato impossibile evadere. Dedalo l’aveva progettato e il suo compenso era stata la follia. Dedalo l’aveva progettato e un esercito di schiavi costruito a picco sul mare perché divenisse per la Bestia tana e prigione.
Il Grande Re lo ricevette, e sicuramente si meravigliò vedendo che, ad accompagnare al loro destino i fanciulli ateniesi, invece del solito vecchio dall’aria afflitta, era stato mandato un giovane forte e tracotante, l’erede che Egeo credeva d’aver perduto e aveva fortunosamente ritrovato. Non era stato facile reprimere il brivido che gli aveva attraversato il corpo imbolsito, come se incrociando lo sguardo bovino e segnato con quello del figlio di Egeo avesse guardato in faccia il suo stesso destino. Non aveva più un erede diretto, lui, dacché Androgeo era morto da stupido. Era un vecchio a cui restava poco da vivere, e oltre alla morte che lo aspettava al varco, era il destino di Creta a farlo tremare come la febbre delle paludi. Oscure profezie che egli stesso aveva udito dicevano che Creta sarebbe scomparsa nel momento stesso in cui il suo fato si fosse compiuto. Creta, la grande, la splendida, la terribile. Creta, la Perla del Mare, destinata, come una schiava fedele, a morire quando lui fosse morto, a diventare spoglia su cui gli avvoltoi si sarebbero gettati a migliaia, per dilaniarne le ricchezze e disperderne il ricordo. Sarebbero piombati in tanti, cinti di bronzo e armati di ferro, dal continente e dagli arcipelaghi. Anche il giovane che lo fissava con beffardi occhi neri.
Arianna
Lo sguardo della donna si appuntò sulle mani sacrileghe dello straniero che, con distratta noncuranza, sfioravano la sagoma di un grande toro campeggiante al centro di uno splendido bassorilievo.
-Non toccare.
Teseo si voltò e la intravide nell’ombra del portico, avvolta in un ampio mantello nero che poco o nulla concedeva all’eleganza. Doveva trattarsi di una sacerdotessa, pensò. Quei barbari adoravano nel Toro il segno della forza e della fecondità. Dipinte, scolpite o sbalzate nel metallo e nella pietra, le immagini propiziatorie della grossa bestia erano dappertutto.
-Non toccare.
Parla con più convinzione, donna. Avrebbe voluto dirglielo, ma si trattenne, nonostante nessuno gli avesse insegnato ad essere gentile con le femmine. Quella sembrava una qualsiasi, il viso pallido senza ombra di belletto, vestita male e priva di fascino, sicuramente più vecchia di lui.
-Porta rispetto a ciò che per chi ti ospita è sacro.
Aveva forme abbondanti e grossi occhi bovini segnati da occhiaie viola. Come Minosse.
-Perdona la mia impudenza, principessa: sedotto dalla bellezza di questa scultura, ho scordato che, presso di voi, il Toro è una divinità benevola, propiziatrice di fecondità e fortuna…
Il mio nome è Arianna, gli disse lei, afferrandolo per un braccio. Arianna. Una vergine inacidita di venticinque anni almeno, che dagli dei non aveva avuto in dono prosperità e fortuna. La sua stirpe, anzi, si diceva fosse stata maledetta. Suo padre aveva rifiutato di sacrificare a Poseidone il toro più bello delle sue stalle e il dio lo aveva punito avvelenandone e corrompendone il seme. Così si diceva. Ma era più probabile che gli dei non c’entrassero, e a corrompere la progenie del re fosse stata, come spesso accadeva, una serie ininterrotta di matrimoni tra parenti stretti.
Era figlia di re, Arianna, ma non lo guardava in modo molto diverso dalle baldracche che avevano consolato la sua solitudine e la sua stanchezza, quando ancora navigava e il primo posto di cui andava in cerca quando la sua nave attraccava era il bordello. Doveva piacerle, quello che vedeva, un giovane uomo impetuoso, dai lunghi riccioli scuri e i muscoli asciutti e duri come legno. Sicuramente l’avevano informata sul perché il vento aveva condotto lui a quei lidi, invece del solito vecchio aristocratico dall’aria afflitta: Egeo non era più disposto a pagare il tributo a Minosse con le vite dei suoi giovani sudditi. Ma tutto quanto ha un prezzo.
E il prezzo lo pagò sulla paglia fradicia di una stalla, anche se sotto di lui si dimenava gemendo non una puttana ma una vergine inacidita, Arianna, la figlia del re Minosse. Il rimorso non ti perseguiterà con incubi e notti insonni, se toglierai dal mondo colui che vive nel Palazzo delle Cento Stanze e ha nelle vene il mio stesso sangue. Ma quello che ho avuto da te e ormai disperavo di avere non mi basta, figlio di Egeo. Solo se accetterai di portarmi via da questa putrida palude e di prendermi come sposa ti rivelerò il segreto per non fare del Labirinto la tua tomba.
I
gemelli
Cammina qualche passo dietro di me, straniero, finché non ci lasceremo alle spalle Cnosso e i nostri giuramenti segreti. Finché i nostri orecchi non udranno la voce possente del mare, e allora ti racconterò del Palazzo delle Cento Stanze e dell’obbrobrio che occulta agli occhi del mondo e alla vergogna di Minosse maledetto dagli dei, il mio fratello Asterione.
-A Minosse è mancato il coraggio di toglierlo dal mondo appena nato, prima che la voce corresse e tutti, a Creta, sapessero che il grembo della regina aveva generato un mostro. Ma al mostro era legato il destino di Creta, stando al cianciare di un vecchio indovino, e mio padre ha temuto che tentare d’ingannare gli dei un’altra volta non gli avrebbe portato fortuna. Poiché nemmeno la più abbietta delle schiave avrebbe osato stringere quell’orrore fra le braccia, fu una cagna ad allattarlo; e grossi cani, gli unici esseri in grado di entrare e uscire dal Labirinto grazie alla finezza del loro fiuto, tuttora gli recano in ceste legate sulla schiena i viveri con cui sostentarsi.
Un sovrano saggio e un padre misericordioso dovrebbe togliere dal mondo il suo figliolo deforme nel momento stesso della nascita, ma un’oscura profezia aveva legato il destino di Creta a quello del mostro…Agli occhi acuti e tristi di Arianna non doveva essere sfuggito il lungo brivido che lo aveva attraversato tutto quanto. Ben più terribile degli anni di schiavitù vissuti sotto la sferza di Barak doveva essere la sentenza che condannava a vivere il prigioniero del Labirinto.
-Siamo nati dallo stesso parto, e io posso leggere i suoi pensieri, come accade tra gemelli. La sua infelicità la conosco da sempre.
I mostri
non hanno
voce per gridare al mondo il loro dolore, ma catene invisibili e
più tenaci del
ferro legano i nati dallo stesso parto in vita e oltre la vita.
E’ con la
potenza del tuo pensiero che riesci a leggergli nella mente e quando ha
lamentato la sua solitudine, hai pensato di dargli i nostri nobili
fanciulli per
compagni…E adesso vuoi che sia io a far ciò che
Minosse non ha osato portare a
compimento. Dubito tu stia agendo per pietà, Arianna. Per
amore di colui che
nonostante tutto ha il tuo stesso sangue dentro le vene.
Perché di provare
pietà tu sei incapace, principessa.
-Tieni, figlio di Egeo: gli dei non hanno dotato noi umani del fiuto che indica ai cani la via per uscire dal Labirinto, ma dipanando questo man mano che ti addentrerai nei suoi cunicoli, non ti sarà difficile venirne fuori dopo che ...che il Fato si sarà compiuto per tua mano.
Un gomitolo di corda ruvida e sozza come il filo della Parca infernale. E una pesante daga di bronzo. Si voltò a guardarla un’ultima volta, prima che il Labirinto lo inghiottisse nelle sue viscere fetide. Seduta su un muretto a secco chiazzato di muschio viscido, la destra a nascondere gli occhi dall’offesa del sole, dopo aver annodato attorno al polso sinistro una gugliata di stoppa sudicia, sarebbe rimasta ad aspettarlo.
Il
Palazzo delle Cento Stanze
La luce, all’interno del Labirinto, filtrava flebile da strette feritoie, attraverso le quali un essere umano, adulto o bambino che fosse, non sarebbe potuto fuggire. L’aria era umida e fredda, come dentro un pozzo. E putrida, di rifiuti e di tomba.
Una tomba che poteva diventare la sua, come da anni lo era di Asterione, sepolto vivo, come lo era diventata per le vittime sacrificate alla viltà di Egeo, alla superstizione di Minosse. E alla malvagità di Arianna.
Era una luce pallida e malata quella che rischiarava a malapena una bambola intagliata nel legno, un vezzo di corallo, una piccola tibia bianca, i resti mummificati di un fanciullo morto di fame, sete e terrore. Non ce ne sarebbero stati ancora, giurò Teseo a se stesso, stringendo forte l’impugnatura della daga. Non ce ne sarebbero stati altri ancora.
Avrebbero baciato le sue mani grondanti il sangue scuro del mostro, poveri piccoli rinchiusi come schiavi senza dignità in un lurido recinto appena fuori dal palazzo. Se lui non fosse uscito vivo dal labirinto, la loro fine sarebbe stata quella degli altri, della piccola mummia vizza, delle povere ossa che un tempo erano state una bambina orgogliosa della sua bambola nuova e del suo vezzo di corallo.
I più piccoli ancora si succhiavano il pollice e non sapevano il perché delle loro lacrime. I più grandi ricacciavano indietro il pianto per non spaventarli, piccoli uomini e piccole donne ai quali il destino avrebbe negato l’amore e la gloria, se il suo cuore non fosse stato abbastanza temerario e il suo braccio abbastanza forte, si disse da sé il figlio ritrovato di re Egeo. Il recente passato aveva temprato il suo coraggio come una lama sulla forgia, eppure anch’egli aveva lacrime brucianti da ricacciare indietro, terrori arcani da annientare. Doveva cancellare l’obbrobrio dalla faccia della terra, debellare il sortilegio. Doveva farlo, costasse quel che costasse, per poter guardare in faccia senza provare vergogna i genitori di quei fanciulli. E per Fedra, che non era più bambina, e il cui sorriso gli era entrato nel sangue. Fedra, che doveva essere sua, non della Chera che ne avrebbe fatto ossa, vermi e putridume.
Teseo strinse le labbra tra i denti e continuò ad avanzare. L’aria era umida e sempre più greve del fetore di tomba, d’escrementi e di stalla. Dalle strette feritoie lame di luce smorta laceravano a fatica la penombra, come coltelli divorati dalla ruggine.
Asterione
Prima ancora di vederlo, gli era sembrato di percepire la sua presenza, in un sibilo come frullo d’ali di pipistrello, nell’ansito del suo respiro pesante. E comprese che dovevano essere fole, quelle che dicevano di un mugghio potente come la tempesta e capace di gelare dentro le vene il sangue al più coraggioso degli uomini. Come fole sicuramente erano quelle che gli attribuivano la testa cornuta di un toro selvaggio innestata sul corpo di un titano, e zanne da fiera nella caverna rossa delle fauci.
Si muoveva con l’andatura sgraziata d’una di quelle grosse scimmie che i giocolieri facevano ballare al suono dei pifferi e tra i lazzi dei monelli nei giorni di mercato; il suo corpo nudo, stento e deforme di rachitico era coperto da un folto vello scuro. Un fiotto giallastro di bava filamentosa gli colava sul mento dalla bocca semiaperta. Due piccole protuberanze sporgevano, simmetriche, ai lati della fronte globosa. Asterione. Il Minotauro. Metà uomo, metà toro selvaggio. Dono avvelenato degli dei a Minosse, empio e spergiuro. Orrore scaturito dagli incubi e imprigionato nei recessi del Labirinto perché gli occhi del mondo non fossero offesi dalla sua vista. Belva divoratrice di fanciulli innocenti.
Innocenti, già, come gli occhi che, nella penombra, lo guardavano con espressione vacua e addolorata, supplicando di strapparlo a quella vita che non era vita. Povero ebete, avrai la pace che cerchi. Pensò Teseo senza abbassare la daga, quando Asterione gli si fece incontro implorandolo, muto e tuttavia eloquente, di regalargli la pace. Ma a Fedra avrebbe raccontato di una lotta senza esclusione di colpi, pensò ripulendo, contro la stoffa che gli cingeva i fianchi, l’arma dal sangue. E di un mostro feroce che aveva testa di toro innestata su un corpo da titano e zanne ferine nella rossa caverna delle fauci.
Nasso
Quando il mare infido e traditore
ti si dimostra amico
e non si oppone al tuo ritorno a casa dopo aver reso ricco te e temuto
il tuo
nome, allora puoi bere fino ad ottundere la tua coscienza,
ragazzo…
Se
mai ne aveva avuta una,
Barak il ladro di bambini, pensò Teseo tracannando
d’un fiato l’ennesima coppa
piena fino all’orlo d’aspro vino non diluito.
E quando i pensieri dentro la tua
testa si fanno
molesti come le ultime mosche dell’autunno e non ti lasciano
dormire, nessuna
medicina è migliore di questa per conciliare il
riposo…
Quali
saggi consigli
avrebbe potuto dispensare a lui, sangue di re, un ladrone e un
assassino? La
sua gente disprezzava che era solito annegare nel vino le voci che un
uomo
dovrebbe sentire dentro quando sta per commettere un’azione
riprovevole agli
occhi degli Dei, e nella sua terra agli ubriachi erano fatti segno solo
di pietà
e ribrezzo. Non mancava molto al
ritorno, ma quando il suo piede avrebbe toccato il suolo, lui sarebbe
stato di nuovo
quello che era e nessuno, ad Atene, avrebbe conosciuto
la sua vergogna. Lo avrebbero,
anzi, accolto da eroe e salvatore, ricoprendo il suo cammino di petali
profumati e lanciando al suo passaggio grida di giubilo. Egeo avrebbe
nuovamente posato il serto d’oro sui suoi capelli e, quando
fosse giunto il
momento, avrebbe accolto
la sposa da lui
scelta come fosse stata una sua propria figlia…Fedra, dalle
lisce chiome color
del grano, dagli occhi azzurri
come le misteriose profondità del mare. Fedra che il suo
Teseo aveva strappato
ad una morte obbrobriosa e ingiusta.
Forse
agli eroi non serve
affogare nel vino le voci stridule delle Erinni infernali per poter
godere di
qualche ora di sonno. Aveva ragione Piritoo, l’amico
d’infanzia che sopra la
nave dalle vele nere aveva ritrovato, dopo tanti anni. Piritoo, il
figlio del
pescatore, il monello dai rossi capelli pidocchiosi e dal naso rotto in
qualche
rissa, che al vecchio Egeo non era mai andato a genio ed era, a suo
dire, vile
per aspetto, nascita e animo. In fin dei conti, l’idea di
abbandonare Arianna
sull’isolotto dove avevano attraccato per rifornirsi
d’acqua e di viveri era
stata sua: i marinai hanno anima vagabonda, lingua mendace e cuore
nero,
dicevano i vecchi. Forse non si sbagliavano.
A Nasso troverà quel che
cerca, la vecchia troia.
Dovrà accontentarsi di un capraio o di un pescatore, ma tu
m’insegni che, solo
guardandoli tra le gambe,
è impossibile
distinguere un popolano da un principe.
Era
stato Piritoo a ordire
l’inganno, consigliandogli di farla scendere con lui a terra,
sforzarsi di
blandirla come se l’avesse amata e farle bere dalla sua
borraccia un sorso
d’acqua nella quale era stato sciolto un narcotico inodore e
insapore ma tanto
potente da addormentare un cavallo. Perché le Erinni
avrebbero dovuto
tormentare lui e non quell’altro?
E
quale reverenza, quale rispetto meritava Arianna, da lui abbandonata a
Nasso, se
con le sue stesse parole aveva avuto modo di rivelargli la nera
malvagità del
suo animo?
Avrebbe dovuto ucciderlo appena
nato, ma gli è mancato
il coraggio, dopo che un indovino aveva predetto che se il mostro fosse
morto
per mano di un uomo e non per il volere degli dei, l’Enosigeo
avrebbe scatenato
la sua collera su Creta. Al terremoto sarebbe succeduta la carestia,
quindi
un’epidemia di peste avrebbe falcidiato la popolazione,
infine l’isola sarebbe
stata invasa da stranieri armati di ferro e avrebbe perduto la
libertà.
Gli
indovini son solo
imbroglioni che fanno pagare a caro prezzo il fumo che vendono, ma
molta gente
è superstiziosa, e anche Minosse lo era. Imprigionato nel
Labirinto, con la
sola compagnia della sua ombra deforme, la mente debole oppressa dal
dolore
dell’anima che anche gli idioti sono capaci di provare, il
poveretto era
costretto a vivere perché la sua gente
non
finisse schiacciata sotto le macerie di un terremoto, ammazzata dalla
peste o,
peggio, schiava. Intanto, dopo che Androgeo era morto da sciocco ad
Atene, il
re si era visto costretto a cercare un erede. Lo aveva presto trovato
in suo
nipote Idomeneo, e Arianna… Piritoo vide Teseo sorridere
involontariamente, nel
mezzo del pesante sonno indotto dal vino.
Amavo mio cugino fin da bambina, e
fui felice per
lui…e per me. Il patto tra Minosse e Idomeneo sarebbe stato
suggellato da nozze
regali…
Lui non ti amava, questo lo sapevi.
Ma non te ne
importava e, pur di averlo, eri disposta ad accettare che non
ricambiasse il
tuo amore.
Le
sue stesse parole gli
tenzonavano in testa, annegate nel limbo vischioso del suo sonno
ubriaco.
Nascosta dietro uno spesso tendaggio, Arianna aveva visto e sentito
tutto.
Nozze regali avrebbero suggellato il patto fra Minosse e Idomeneo, ma
la sposa
sarebbe stata la sua sorellastra, Etra. Non lei. Non lei, la sorella
gemella
dell’Obbrobrio rinchiuso nei recessi fetidi del Labirinto.
Non lei, che avrebbe
potuto guastare un’altra volta la discendenza generando figli
dalla mente bacata
e le membra deformi come Asterione. L’Abominio. Il suo
fratello gemello.
Etra solo una era una bastarda, ma bella e
forte. E aveva il sangue
di Minosse dentro le vene. E sarebbe stata in grado di partorire figli
sani.
Non posso mettere a repentaglio
l’integrità della
stirpe e il futuro del regno…
Se
le parole di suo padre
l’avevano tramortita, il sorriso soddisfatto
d’Idomeneo doveva averla uccisa.
Certo, la nobile Arianna era brutta, la bastarda Etra bella come la
luna, e
quel maledetto poteva reputarsi un uomo fortunato…Almeno
fintantoché, nei
recessi puzzolenti del Labirinto, l’Abominio avesse
continuato a vivere la sua
vita indegna d’essere vissuta ma avvinta con nodi
inestricabili al destino di
Creta.
Vele
Nere
Dormi ancora il sonno incosciente del vino,
mio principe. Dormi, e non preoccuparti di quel che avevi da dirmi, ora
che la
terra è alle viste e, dall’alto
dell’Acropoli, il vecchio re Egeo spia ansioso
l’orizzonte dopo aver approntato per te
l’accoglienza che spetta a un eroe.
Eroe?
Piritoo guardò
con malcelato disprezzo colui che, ubriaco fradicio, giaceva
addormentato sulla
stuoia. La fortuna di Teseo era stata quella di nascere in una reggia
invece
che nella catapecchia di un pescatore, ma la fama di eroe non si
eredita dal
proprio padre come i regni e le ricchezze. Forse gli sarebbe stato
facile
spacciarsi per tale agli occhi del popolino sempre disposto a credere a
qualsiasi frottola gli venisse propinata; o a quelli senza
più lacrime di quei
genitori che mai avrebbero osato sperare
di riabbracciare i figlioletti destinati alle fauci del
Minotauro. Ma
lui aveva smesso da un pezzo di credere nelle favole. Lui non era tanto
stupido
da prendere per oro colato la più spudorata ed evidente
delle menzogne. Quando
Teseo era uscito dal Labirinto, non aveva addosso un graffio;
c’era sangue
sulla sua spada, e non era quello di
un
mostro feroce che aveva lottato fino allo stremo per difendere la sua
vita, ma
di un povero idiota che sull’arma puntata
si era gettato di proposito per mettere fine alle sue
sofferenze. Se poi
era riuscito a venir fuori senza difficoltà dalla trappola
delle cento stanze, il
nobile giovanotto non lo doveva alla sua astuzia e alla sua
determinazione, ma
al rancore che Arianna si covava dentro.
Dipana la matassa mentre ti addentri nel
Labirinto, mio principe, e, portata a termine la tua missione, segui la
traccia
del filo e rivedrai la luce del sole e la distesa delle onde…
Già,
fai tutto
quanto senza sbagliare, figlio di Egeo, e quando il povero Asterione si
ritroverà catapultato nel Regno delle Ombre, allora Arianna
avrà la sua
vendetta, perché su Creta si abbatteranno il terremoto, la
peste e la guerra, e
morirà Minosse, e morirà Idomeneo, e
morirà Etra, e moriranno tutti quanti…Come
aveva profetizzato il veggente uccello del malaugurio dopo aver
guardato
l’Obbrobrio generato dal grembo della Regina. Come,
dall’alba dei tempi, stava
scritto nelle stelle.
Dormi il sonno degli eroi, mio principe,
senza pensare ad Arianna abbandonata che, risvegliatasi dal sonno del
narcotico,
ora maledice anche te, seduttore di donne spergiuro e ingannatore.
Dormi senza
pensare a quello
che dovevi dirmi e che
di certo avrà perso tutta la sua importanza, ora che Atene
è alle viste e,
dall’alto dell’Acropoli il vecchio re Egeo spia
ansioso il tuo ritorno. Dormi
tranquillo: gli Dei hanno altro per la testa che ascoltare gli
sproloqui della
vacca cretese che hai sedotto e abbandonato e mandarti sfortuna e
morte. La tua
terra ti accoglierà da vincitore, anche se non rechi con te
la spoglia del mostro,
a riprova della tua impresa gloriosa. Ai padri e alle madri di questa
città
sarà sufficiente sapere che i loro bambini sono al sicuro,
ora che la tua spada
ha cacciato nell’Ade l’Obbrobrio del Labirinto.
Dormi, e non sognare Arianna
abbandonata, ma una bella sposa che ti attende fremente nel talamo.
Dormi, e
quando ti sveglierai…
Il
vecchio re
aguzzò lo sguardo e la vide scivolare sulle acque calme
della baia, la grande
nave che, per la seconda volta, riportava a casa suo figlio, o forse
soltanto
il ricordo del suo coraggio, se la vela issata sul pennone fosse stata
nera
come la notte invece che bianca come il peplo di una vergine fanciulla.
Il sole
gli
dardeggiava sugli occhi, che non erano ormai più quelli di
una volta, e la
grande nave non era che un’ombra quasi immobile sulla distesa
senza nome del
grande mare. Portava Teseo, che ritornava a casa. No, non il Principe,
suo
figlio ed erede circonfuso di gloria, ma il ricordo del suo coraggio.
Quando il
sole si nascose dietro una nuvola, Egeo la vide, issata sul pennone, la
grande
vela, nera come un manto funebre.
Per tutti gli dei, quanto ho dormito.
Abbastanza da presentarsi al cospetto del re con
la bocca impastata e le occhiaie
di un
vagabondo fresco reduce da una colossale sbornia, ma per lui non ci
sarebbe
stato disonore, se nessuno avesse saputo, pensò cacciando la
testa in un bacile
d’acqua dolce e scrollandosi
come un cane uscito
da uno stagno. Aveva
scordato di ordinare al nostromo che venisse issata sul pennone la vela
bianca
della sua vittoria ma, messo piede a terra, l’equivoco si
sarebbe chiarito e la
festa avrebbe avuto inizio. Finalmente.
L’acqua
della
battigia accarezzò i piedi e le caviglie del Re, per poi
impregnare l’orlo del
suo chitone ricamato d’oro. Egeo avanzò, i piedi
che sprofondavano nel fondale
scabro, l’acqua che saliva, gonfia e nera, col progredire
faticoso dei suoi
passi. La nave, ormai la vedeva dacché il sole
s’era nascosto dietro le nuvole,
riportava in patria il ricordo glorioso del figlio perduto e ritrovato,
rapito
e restituito dal mare per finire ucciso dall’innominabile
Abominio del
Labirinto. Era nera, la vela. Come un sudario. Come la Notte. Come
l’aria
pesante dell’Ade. Non sarebbe stato facile, per un uomo della
sua età, fendere
la forza della corrente, per poi affondare come un sasso senza tentare
di
mantenersi a galla. Era scritto nel destino che il Mare Senza Nome
dovesse
essere la sua tomba.
E da quando il vecchio re disperato scelse le
sue acque per lasciarsi morire, il Mare Senza Nome si chiamò
come lui, Egeo.
FINE
18
febbraio 2011