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Autore: Mikaeru    19/02/2011    5 recensioni
“Sherlock!” esclamò sorpreso, tirando un sospiro di sollievo, “Cosa ci fai qui? Ecco dov’eri scomparso, stamattina…”
Lo prese in braccio ma quello si rifiutò di starci e zompò sul tavolo, guardandolo arrabbiato. John ricambiò lo sguardo assottigliando gli occhi.
“Il vostro gatto è qua da quando abbiamo aperto. Forse vi aspettava, non ha fatto che agitarsi e guardare fuori dalla finestra.”
“Questo spiegherebbe la sua faccia arrabbiata.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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… sì. È una fic con Sherlock gatto. Non chiedete. È stupida, idiota, ma alla mia donna piace XDD spero sia carina anche per voi \o\
Ah! Il tassista si trova di fronte al ristorante di Angelo nel pilot, quello non trasmesso XD (GUARDATELO, E’ BELLISSIMO çOç!!)

Il gatto in giallo (nello studio in rosa)

John Watson non amava particolarmente vivere a Londra (ma dopo la guerra aveva imparato ad apprezzarla maggiormente). Non ne amava l’eccessiva confusione e l’impossibilità di trovare un cittadino londinese in una folla per chiedere indicazioni, ma più di tutto non amava l’imprevedibilità meteorologica: quella che doveva essere una tranquilla passeggiata sotto il sole tiepido della primavera, senza un motivo (doveva avere per forza uno scopo il suo perdere tempo nel suo giorno libero?), si era trasformata in una corsa affannata per trovare un luogo in cui ripararsi dalla pioggia – che poi, ovviamente, non si sarebbe mai infilato in un locale a casaccio, si sarebbe sentito stupidamente a disagio. Preferiva prendere un po’ di acqua in più ma rifugiarsi da Angelo, che fortunatamente si trovava abbastanza vicino a dove il temporale lo aveva colto impreparato. Si era quasi fatta l’ora di pranzo, così decise che ne avrebbe approfittato e non si sarebbe accontentato di un caffè di cortesia.
Accolse l’insegna del ristorante come un segno che qualcuno, lassù, esisteva davvero.
Angelo, intravedendolo dalla finestra, aprì per primo la porta accogliendolo calorosamente come al solito, raggiante ed allegro; lo aiutò a togliersi la giacca completamente fradicia e l’appoggiò vicino al termosifone, poi lo fece accomodare al tavolo più caldo. “Dottore, state più attento che vi prendete una febbre da cavallo! Dovreste sempre portarvi in giro un ombrello!”
“Sì, sì, lo so, non ci ho pensato e per questa unica dimenticanza il cielo ha voluto punirmi.”, sospirò prendendo il menù.
Per la prima volta da quando aveva scoperto il ristorante Angelo non accompagnava con una marea di chiacchiere la sua scelta; alzò gli occhi e lo vide sorridere sopra le sue spalle, allora si voltò e trovò il suo coinquilino.
“Sherlock!” esclamò sorpreso, tirando un sospiro di sollievo, “Cosa ci fai qui? Ecco dov’eri scomparso, stamattina…”
Lo prese in braccio ma quello si rifiutò di starci e zompò sul tavolo, guardandolo arrabbiato. John ricambiò lo sguardo assottigliando gli occhi.
“Il vostro gatto è qua da quando abbiamo aperto. Forse vi aspettava, non ha fatto che agitarsi e guardare fuori dalla finestra.”
“Questo spiegherebbe la sua faccia arrabbiata.”, borbottò John, suscitando la curiosità di Angelo, che si mise ad osservare il gatto nero a sua volta, ma che comunque non riuscì a capire.
“Come fate a capire se ha la faccia arrabbiata?”
“Ha le pupille sottilissime, dev’essere furioso, poi sta tutto dritto e ha la coda gonfia. Chissà cosa gli ho fatto.”
“Non siete arrivato presto.”, rispose Angelo per Sherlock, e per un attimo sembrò che annuisse alla sua intuizione.
“E io come faccio a sapere che dovevo venire qui, Sherlock? La prossima volta scrivimi un biglietto.”, lo sfidò facendo ridere il ristoratore ma rabbuiando ancora di più il muso del gatto. Ormai i suoi occhi azzurro-verdi erano tutti iride.
“Allora, cosa porto a voi e al vostro solito appuntamento?”
John soffrì per un attimo nel rendersi conto che tutto quello che poteva catalogare come appuntamento era, per davvero, un gatto, e sospirò di dolore. “Io prendo della pasta al ragù e a Sherlock porta del latte caldo… e un po’ di pesce, va.”
“Subito dottore!”
John cercò di nuovo di acchiappare il gatto per tenerlo sulle ginocchia ma quello non sembrava aver intenzione di ubbidire, come al solito. “Almeno smettila di giocare con il sale e con il pepe, che fai solo disastri!”
Ovviamente cominciò ad agitare più velocemente le zampe e nel giro di dieci secondi entrambe le boccette erano a terra, in mille pezzi, il contenuto sparpagliato. A quel punto Sherlock si ritenne soddisfatto del suo operato e gli saltò sulle gambe, acciambellandosi e decidendo che quella era l’ora del riposino. Se John avesse osato muoversi si sarebbe ritrovato le sue unghie nelle cosce. Il dottore sospirò e si domandò perché riusciva a farsi sottomettere persino da uno stupido felino. Si arrese ad accarezzarlo, percorrendo la spina dorsale che si sentiva distintamente sotto il pelo lucido.
Sherlock era l’unico gatto al mondo a non fare mai le fusa.
Ad interrompere il suo sonno dei giusti fu una bambina senza i due incisivi superiori che si attentò, incautamente, di accarezzarlo: soffiò in reazone e John dovette stringerlo perché smettesse. Si scusò con la bambina che si guardò la mano preoccupatissima, ma fortunatamente la trovò illesa.
“Ma è un gatto cattivo!”, protestò profondamente offesa e scandalizzata, aprendo tantissimo la bocca e aggrottando le sopracciglia esageratamente.
“No, no, non è cattivo, è solo un po’… un po’ così. Adesso si calma e fa il bravo, guarda.”
John cominciò ad accarezzarlo e a grattargli le orecchie perché si quietasse un poco; quando cominciò a muovere la testa in direzione della mano, diede il permesso alla bambina di provare a toccarlo di nuovo, e questa volta Sherlock non mosse un pelo.
“Come si chiama?” domandò mentre cominciava ad accarezzare tutto il suo corpo, timorosa di essere graffiata o colpita; il gatto si faceva coccolare tranquillo, senza muovere una vertebra, per una volta nella sua vita ubbidendo a John.
“Sherlock.”
“Io sono Monica. Sherlock è proprio uno strano nome per un gatto.”
“Sai, anche questo gatto è molto strano, quindi gli si adatta.”, le disse come se le stesse rivelando un segreto importantissimo.
La bambina si imbronciò perché non aveva capito cosa quell’uomo volesse dire. Smise di carezzare il micio e si mise le mani dietro la schiena, iniziando a dondolare sui talloni.
“Come mai lo puoi tenere qui?”
“Perché anche Angelo è un uomo strano.”
Monica continuava a non capire e questo non le piaceva, perché solitamente lei era una che capiva tutto subito, al volo.
“È un maschio o una femmina?” continuò ad indagare.
“Un maschio, di due anni.”, rispose John mentre il piccolo si dibatteva per tornare ad acciambellarsi sulle sue gambe.
“Come James, il mio fratellino!”
Monica aveva un tono di voce alto e squillante, che infastidiva moltissimo il gatto. Questi si alzò di nuovo, fissandola. Se fosse stato umano, l’avrebbe fatto con sufficienza e un vago senso di disgusto. “Sai, anche se è un maschio a lui metto sempre le cose che metto io nei capelli, gli stanno così bene! Posso mettergli questo? Sono sicura che anche a lui starà bene!”
Si sciolse la coda di cavallo mostrando un lunghissimo nastro rosso che Sherlock guardò con terrore.
“No, no, Monica, non puoi – grazie mille, è un pensiero molto carino, ma Sherlock è, diciamo, allergico a queste cose, non si fa mettere nemmeno un collare con la targhetta…”
Si ritrasse appena, guardandolo piccata.
“E se si perde come fai a riconoscerlo tra tutti i gatti?”
“… eh, bella domanda.”
La piccola gonfiò le guance, irritata da quel suo parlare vago, e disse al dottore che era pronto e che doveva andare a mangiare; John le sorrise e la salutò, obbligando Sherlock a fare lo stesso agitando la sua zampa. Quello si offese di nuovo, non capendo perché dovette fare certe stupidaggini, ma tutta la sua arrabbiatura sparì quando sentì il tintinnio dei piatti sul tavolo; si drizzò sulle gambe di Watson quando sentì l’odore del pesce. Si allungò poggiando le zampe anteriori come per vedere se i suoi sospetti fossero giusti, e vide che Angelo si era premurato di spezzettargli il pesce.
“Sherlock, fa il bravo, su.”
Prese il piatto e lo appoggiò per terra e Sherlock si mise a mangiare voracemente – doveva essersi davvero agitato tanto quel mattino, se aveva quella fame – mentre lui si andava a lavare le mani. Quando tornò il pesce era stato mangiato un po’ ma il gatto se ne stava in piedi sulla poltrona con le zampe anteriori appoggiate sul vetro, a soffiare verso qualcosa, con la coda gonfia e il pelo irto. Non l’aveva mai visto così agitato.
“Sherlock, che succede?”
Il gatto, come percorso da una scossa elettrica, si buttò giù dalla poltrona ed uscì, infilandosi tra le gambe di nuovi clienti appena entrati che, spaventati, cacciarono un urlo perché qualcosa di dubbia provenienza ed identità era sgusciato loro tra i piedi. John riuscì a trattenere un urlo e per poco non si morse la lingua. Si lanciò al suo inseguimento, rapido: lo vide schizzare come una pallina impazzita tra le macchine che suonarono più volte, bestemmiandogli contro. Watson approfittò dell’imbottigliamento per raggiungere dall’altro lato della strada il suo gatto che, porca miseria!, si era buttato sul viso di un uomo, graffiando e soffiando.
“Cristo, Sherlock!” urlò riprendendoselo, guardando il povero malcapitato su cui la bestiaccia si era buttato; fortunatamente era arrivato prima che commettesse danni irreparabili e le unghie non avevano colpito gli occhi.
"Mi scusi, mi scusi, oddio le ha fatto molto male?" domandò con ansia John sentendosi idiota per le domande ovvie, stringendo forte il gatto perché non si muovesse, ma quello continuava ad agitarsi e dovette metterlo giù. L'animale continuò a soffiare senza sosta, ma non sembrava volesse attaccare ancora; se ne stava per terra e girava attorno alle gambe del dottore, elettrico.
Il malcapitato, un signore anziano e corpulento ma che non sembrava abbastanza forte da stenderlo con un pugno (come sarebbe potuto succedere con qualcuno di giovane e magari già irritato per i fatti suoi), aveva il viso rosso di rabbia , ma si trattenne sublimando tutta l'ira in un sonoro sbuffo. Cercò di fare un sorriso di circostanza ma gli uscì solo una strana smorfia. Aveva un lungo graffio sulla guancia destra e alcuni superficiali sulle mani, ma non sembrava soffrirne. "Sì, tutto a posto, tutto a posto. Devo aver fatto qualcosa che ha disturbato il suo gatto, anche se non capisco perché."
"Mi scusi, mi dispiace moltissimo, posso fare qualcosa? Sono un medico, lavoro in un ambulatorio qua vicino se ha bisogno oddio sono così mortificato –"
"Non si preoccupi, non si preoccupi, si tratta solo di qualche graffio, nulla di che. Ora devo andare, il lavoro mi aspetta."
Si calò in testa il berretto che aveva in mano che John non aveva notato fino a quel momento; doveva averlo raccolto da terra perché lo sbatté un paio di volte, presumibilmente per togliere la polvere. Si infilò poi nel taxi che avevano di fianco, al posto del guidatore. Ecco perché era abituato a fare così bene buon viso a cattivo gioco, pensò John, chissà che gente gli capitava.
"Avanti, Sherlock, torniamo da Angelo, abbiamo un pranzo da finire.", gli disse – rimproverarlo sarebbe stato tutto fiato sprecato. Il dottore si incamminò sperando che lo seguisse ma, come al solito, fu una speranza vana; non aveva fatto che due passi che dovette tornare indietro a vedere cosa il gatto stesse annusando con tanto impegno.
"Cosa c'è, Sherlock, cos'hai trovato, eh?"
Si chinò e raccolse una boccetta di vetro rosa, con una strana pillola pezzata che era sicuro di non aver mai visto. La raccolse, prendendola tra le dita; la boccetta non era più grande di una falange. Era troppo pulita per essere lì da tanto e in più, se lo fosse stata, qualcuno l'avrebbe già rotta camminandoci sopra.
"L'hai fatta cadere al signore, disastro di un gatto?"
Restituirgliela sarebbe stato impossibile, come si poteva ritrovare un signor Qualunque Tassista a Londra? La intascò col proposito di farla analizzare per semplice curiosità medica; fu in quel momento che finalmente Sherlok si calmò e si strusciò un attimo solo sulle sue gambe, poi gli incollò addosso i suoi occhi come spilli. John sospirò, arreso.
"Sì, sì, ho capito, ora ti prendo in braccio... quanta fatica mi fai fare. Vedi di mangiare tutto e non lasciarne metà come al tuo solito."
Sherlock miagolò contrariato.

 

"Certo che sei proprio una bestia incredibile."
Sherlock, finalmente davvero tranquillo, ronfava acciambellato e beato sulle ginocchia di John, miagolando sommessamente per le coccole. Se fino a quel momento il dottore aveva creduto di avere un animale strano, ora era sicuro di averne uno straordinariamente fuori dal comune. Sembrava proprio che fosse tutto ponderato, che l'attacco al tassista fosse stato pensato, e questo in realtà avrebbe spiegato la furia omicida del gatto.
John aveva fatto davvero analizzare, il giorno dopo, la pillola, e con enorme sconcerto aveva scoperto essere una droga, e da quello alla chiamata a Scotland Yard non era passato un attimo. Aveva portato i risultati a Lestrade (ovviamente seguito da Sherlock, il quale, quando John gli aveva detto che sarebbe tornato da lì a poco, aveva cominciato ad agitarsi e a protestare) e lui aveva confermato essere la stessa droga ritrovata nel corpo dei misteriosi suicidi seriali delle ultime due settimane; quando Lestrade era arrivato al risultato, Sherlock aveva emesso un lungo miagolio vagamente scocciato - ovviamente era salito sul tavolo dell'ufficio dell'ispettore, non fosse mai che non stesse al loro livello.
"Dottore, il suo è un gatto molto strano." aveva constatato Lestrade.
"Ma davvero. Ha la faccia supponente, sembra che ci prenda in giro." aveva aggiunto Sally. “Non ho mai visto un gatto così.”
"È antipatico, sembra che si creda superiore a noi e invece è solo un pulcioso gatto." aveva concluso Anderson, che era stato l'unico che si era poi beccato una soffiata e un tentativo di graffio.
Aveva fornito un identikit preciso e il tassista era stato catturato; aveva confessato di essere stato lui l’artefice di quelle morti, di aver portato le vittime in quello strano gioco. Lestrade gli aveva detto che non ci vedeva chiaro, in quel caso, che c’era qualcosa di più oscuro.
"Un po' Anderson se lo sarebbe meritato, quel graffio, ti dirò.", disse John grattandolo dietro le orecchie e Sherlock si svegliò, mettendosi in allarme per quel nome odioso. "No, tranquillo, non c'è nessuno." lo tranquillizzò Watson ridendo. Lo fece scendere dalle sue gambe per potersi alzare, visto che era ora di cena e la fame iniziava a farsi sentire con la sua solita voce profonda e rimbombante. Il gatto lo seguì fino in cucina, salendo sul tavolo e cominciando ad annusare, stupito, una scatola enorme, impacchettata come se fosse un regalo.
"È una sorpresa per te, guarda."
John tolse il nastro azzurro di seta, scartando poi il pacco. "Una nostra paziente abituale, una signora un po' tocca" confessò abbassando appena il tono di voce, come se potesse essere lì nei dintorni, "mi ha regalato trenta scatolette per te. Sono costosissime, io non me le sarei mai potute permettere. Non sei contento?"
Il gatto ignorò il suo discorso, troppo preso a giocare col nastro, come ipnotizzato. Non si era mai interessato così tanto a qualcosa. John lo prese in mano facendolo ondeggiare, per vedere se reagiva ancora: prima Sherlock lo seguì con lo sguardo, poi cercò di acchiapparlo con le zampe, e non si diede mai per vinto finché non riuscì a prenderlo. Il suo padrone lo riprese e guardò prima il gatto, poi il nastro, poi di nuovo gatto e nastro. Delicatamente provò a legarglielo al collo e Sherlock non fece nessuna storia. Era un nastro abbastanza sottile di uno strano azzurro-blu che risaltava bene nel suo pelo nero.
"Domani ti compro anche un campanellino, così sei perfetto."
Ancora una volta, il gatto non protestò, limitandosi a strusciare la testolina contro la mano di John.

  
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