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Autore: Keyra    25/02/2011    1 recensioni
Mi spogliavi di ogni sicurezza ricordandomi, ogni giorno, di guardarmi allo specchio e di dar voce alle mie ossessioni. Come se tu, continuamente, sottolineassi le mie paure con un evidenziatore. E io acconsentivo a quel colpo di Stato smilitarizzato che tu ormai avevi portato a termine dentro di me. Senza bisogno di armi, senza bisogno di patti, di trattati o di slogan persuasivi. Tu eri dentro di me già prima che arrivassi, non c'era bisogno che mi convincessi di niente.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ti scrivo perché è un giorno come tutti gli altri,  e io ormai, nella mia scontata quotidianeità, non posso far altro che leggere un po' di te in ogni riga della mia giornata, consapevole della tua assenza, della surreale distanza che separa le nostre mani da mesi. Non posso far altro che ascoltarti mentre mi racconti la mia vita , come un narratore interno della mia esistenza tu ti siedi affianco a me e mi srotoli davanti tutto quel che sono e quel che vorrei essere, facendomi sentire sempre più inadeguata, sempre più maniacalmente sbagliata. Non ci sei ma è come se mi guardassi sempre, insistentemente, come se passassi in analisi ogni mio gesto, ogni mio sguardo, nella speranza e nella convinzione di poter scorgere in ciò le mie fragilità e nutrirtene come un carnivoro delle sensazioni. 
Sai, ho sempre pensato che la vita sia come un treno. C'è chi sale, poi chi scende, e se non ti piace quel vagone, puoi sempre cambiarlo. Non è difficile, niente di impossibile, basta alzarsi, e cercarne un altro che sia più di tuo piacimento. Un viaggio interminabile, in cui ogni tanto ti addormenti, chiudi gli occhi mentre il treno attraversa l'oscurità di un tunnel scavato dentro una montagna e poi non li riapri più, semplicemente rimani così, semiaddormentato, semicosciente, lasciando che fuori il tempo scorra e insieme al tempo lasci andare via anche un po' della tua vita, niente di grave, solo un po', giusto il tempo per riposarsi. E poi apri gli occhi ed è tutto così meravigliosamente bello davanti a te, è tutto così meravigliosamente vivo e reale che quasi ti commuovi, a ricordarti com'è, la vita. E poi, la gente. Chi quando sali è già lì, seduto proprio nel sedile affianco a quello in cui istintivamente tu ti andrai a sedere, ti aspetta inconsciamente e tu aspetti lui, e poi un gesto, un movimento accennato delle labbra che dovrebbe significare un buongiorno buonviaggio arrivederci, un gesto impercettibile ti basta per tendergli una mano e chiedergli di accompagnarti per un po' con il suo silenzio in quel viaggio chiamato vita. Oppure, chi arriva quando tu già sei lì da un po', assorbito dal tessuto consumato dei sedili di quell'interregionale, e si intromette con insindacabile prepotenza nei tuoi pensieri, piazzandosi davanti a te e costringendoti a guardarne i movimenti strani, i lineamenti forti, cercando di aspirare via con il suo ipnotico sguardo di vetro le tue uniche certezze, gli unici punti fissi della tua vita. 
Ecco, tu sei una di quelle persone. Hai preso posto affianco a me in un giorno qualunque, lievemente soleggiato con temperatura minima di tredici gradi, un cielo di cartapesta e i marciapiedi più lucidi del solito - probabilmente la notte aveva piovuto -, senza sapere che avresti sconvolto la mia vita - ma probabilmente, forse, sperandolo.  Di vagoni, io e te, ne abbiamo cambiati tanti, insieme. E impegnati in tante di quelle offensive militari per sconfiggerci non abbiamo capito sufficientemente in tempo che la nostra rivalsa, l'odio proliferato in ogni nostra cellula neuronale, non era altro che un volerci cercare insistentemente, fino allo sfinimento. Non avevamo capito che quello non era un tumore da sconfiggere mettendo in pratica tutte le strategie politiche possibili tra di noi, non avevamo capito che sarebbe bastato arrenderci. Dichiarare lo stato d'assedio e arrenderci.  
Non ricordo esattamente il momento in cui abbiamo spento i ricetrasmettitori delle nostre debolezze, per permetterci di amarci più serenamente. Ma quando l'abbiamo fatto io sono crollata con la stessa facilità di un muro di polistirolo, e affidandomi a te ho affidato la mia vita a un demolimento progressivo. Tu avevi la gestione del cantiere in cui al posto di costruire, si distruggeva. 
E mi stupiva la nudità della mia anima di fronte al tuo sguardo sempre indagatore, capace di svestirmi con poche parole articolate in un suono feroce e metallico, ma inspiegabilmente anche consolatore, e non potevo fare altro che assecondare le tue stranezze metodologiche, i tuoi silenzi che duravano giorni, i tuoi enigmatici sospiri. Mi spogliavi di ogni sicurezza ricordandomi, ogni giorno, di guardarmi allo specchio e di dar voce alle mie ossessioni. Come se tu, continuamente, sottolineassi le mie paure con un evidenziatore. E io acconsentivo a quel colpo di Stato smilitarizzato che tu ormai avevi portato a termine dentro di me. Senza bisogno di armi, senza bisogno di patti, di trattati o di slogan persuasivi. Tu eri dentro di me già prima che arrivassi, non c'era bisogno che mi convincessi di niente. Tu eri la mia fragilità che si concretizzava davanti ai miei occhi. Eri il fantasma delle mie manie che improvvisamente si materializzava, diventava corpo e voce e anima e il mio amore. 
Che quello fosse il tuo modo di amare, io non potevo saperlo. E non posso saperlo nemmeno ora.  So solo che dopo avermi diseredato, dopo avermi privato di ogni stabilità sentimentale, te ne sei andato così come sei venuto. Hai improvvisamente deciso di scendere dal treno che avevamo preso insieme. E io ho passato così gli ultimi giorni del nostro fantomatico amore, osservando la lenta metamorfosi dei tuoi sentimenti, guardandoti pian piano allontanarti da me e da ogni nostra logica, da ogni possibile legame particellare che ci teneva uniti. E io ti lasciavo fare, non ero in grado di fermarti. Avrei dovuto farlo, ma l'unica cosa che mi riusciva era gridarti di non andare via silenziosamente, come se fossi diventata improvvisamente muta, come se la mia voce non avesse più un suono. E avrei potuto tenderti le mani e fermarti, aggrapparmi ai tuoi maglioni perfettamente stirati e implorarti di non abbandonarmi nella solitudine delle mie ossessioni. Avrei dovuto farlo, ma non l'ho fatto. Ho lasciato che la mia immagine si dissolvesse pian piano e che nelle tue giornate io diventassi sempre meno fondamentale. Avevo capito ormai che il nostro amore aveva una struttura bipartita asimmetrica: io amavo te, ma tu non amavi me. 
E ora, dopo mesi moltiplicati per estensione, riesco ancora a giustificare il tuo assenteismo protratto e a sperare in un tuo ritorno. Continuo ancora ad aspettarti seduta sullo stesso treno, contando i giorni che ci separano, sempre di più, sempre di più, ma che comunque non riescono a cancellare la tua presenza dentro di me. Tu sei sempre stato lì, di fronte a me, anche quando su quel sedile dalla stoffa consunta e logorata c'era qualcun altro, tu sei sempre stato lì. E anche ora che non ci sei, io ti vedo. Ti vedo di fronte a me, ogni giorno, vedo i tuoi occhi stanchi di vivere una vita che non è la tua osservarmi pretenziosi, ineccepibili, attenti ad ogni mio possibile sbaglio. Ti vedo e ti racconto la mia vita, l'inconsolabile monotonia delle mie giornate ormai tutte uguali, o forse, in un reciproco scambio di sguardi senza voce, sei tu a raccontarmi la tua, di vita. Che poi, forse, ormai, è anche un po' la mia. 
 
 
 
 
 
  
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