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Autore: monochrome    26/02/2011    1 recensioni
Ricordava di esserselo chiesto una mattina, coi raggi solari primaverili in faccia e un debole vento freddo a farla rabbrividire. Aveva visto un bambino strappare le ali ad una farfalla, così, con naturalezza, dopo che aveva fatto tanta fatica per catturarla. Se l’era chiesto in quel momento, quale senso avesse avuto tutto quello per quella piccola farfalla rossa. Eppure aveva dovuto sforzarsi tanto per non essere più un bruco. Che senso aveva avuto la sua fatica? Quale era stato il risultato ultimo?
Non era riuscita a trovare una risposta convincente. In realtà non era riuscita a trovare nemmeno una risposta. Ma era soltanto una bambina e, in quel frangente, la domanda se l’era scordata così come le era venuta in mente.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fine





“Gran segreto è la vita, e nol comprende
Che l’ora estrema.”
(Adelchi, atto V, scena VIII)



Se lo era chiesto tante volte. Se lo era chiesto quando non ne aveva potuto fare a meno, quando il senso di smarrimento le aveva serrato l’anima e non accennava a volerla lasciare; se l’era chiesto quando il dolore era stato troppo grande per poter essere sopportato senza la consapevolezza di un qualche scopo, quando le sue certezze erano svanite o erano state distrutte e i suoi sforzi vanificati. Certe volte però, se l’era chiesto e basta, senza un motivo particolare. Così, spontaneamente. E in quei casi, e solo in quelli, aveva accettato la sua incapacità nel trovare una risposta. Le altre volte aveva dovuto chiudere gli occhi e ignorare il fatto che in nessun modo avrebbe potuto capire. Il suo orgoglio non lo avrebbe sopportato.
Non le ricordava esattamente tutte. Di alcune le tornavano in mente soltanto sporadici dettagli, come macchie sbiadite di colore su una tela bianca, di altre riusciva a ricordare ogni più piccolo particolare. Stavano riemergendo dalla memoria, come fiaccole luminose impossibili da ignorare, nonostante una parte di lei volesse farlo. Ma un’altra parte voleva scandagliarle, voleva ripensarci e soffermarcisi. Voleva ricordarsene bene, quando sarebbe morta, ed aver accettato i fallimenti e, magari, riderci un po’ su; perché in quel momento lei credeva di aver capito: capito dove avesse sbagliato e perché lo avesse fatto e, infine, capito quale fosse la risposta.
L’orologio a parete che aveva appeso, anni prima, sopra la porta, continuava a ticchettare, interrompendo il silenzio della notte con il suo sordo rumore ritmico. Non avrebbe saputo leggerne l’ora nemmeno se le fosse interessato: la vecchiaia aveva velato i suoi occhi plumbei con i veli di una quasi completa cecità e di cercare gli occhiali nel comodino lei non aveva voglia.
Sentì i passi di gomma dell’infermiera, al di là della porta socchiusa, farsi più vicini, fino ad avvertirli fermarsi chetamente di fianco al letto.
«Si è svegliata signora Contini?» sussurrò la ragazza, posandole una mano su una spalla in un tocco dolce, umano. «Dorma ancora un po’, è notte fonda.»
Aveva ragione, avrebbe dovuto continuare a riposare, tentare di ignorare quei continui ricordi fino ad addormentarsi di nuovo. Le avrebbe fatto bene chiudere gli occhi e abbandonarsi al sonno. L’oblio avrebbe portato via tutto.
Tuttavia non riusciva a trovare quel sonno. Quella parte di lei voleva pensare, voleva ricordare. Dopo la morte, in fin dei conti, avrebbe avuto l’eternità per riposare.
«Potresti aiutarmi a tirarmi su?»
L’infermiera le accese l’abat-jour, inondando la piccola stanza di quella calda luce arancione tipica di un focolare in inverno, per poi aiutarla a sedersi contro la testata del letto. Le rivolse un sorriso, che l’anziana non riuscì a vedere.
«Torno fra poco per aiutarla. Vuole gli occhiali?»
La donna scosse stancamente la testa, ringraziando con voce persa, lontana. Gli occhiali non l’avrebbero aiutata nel vedere nei ricordi ciò che stava cercando.
Le stava tornando in mente quando era bambina. Ricordava di esserselo chiesto una mattina, coi raggi solari primaverili in faccia e un debole vento freddo a farla rabbrividire. Aveva visto un bambino strappare le ali ad una farfalla, così, con naturalezza, dopo che aveva fatto tanta fatica per catturarla. Se l’era chiesto in quel momento, quale senso avesse avuto tutto quello per quella piccola farfalla rossa. Eppure aveva dovuto sforzarsi tanto per non essere più un bruco. Che senso aveva avuto la sua fatica? Quale era stato il risultato ultimo?
Non era riuscita a trovare una risposta convincente. In realtà non era riuscita a trovare nemmeno una risposta. Ma era soltanto una bambina e, in quel frangente, la domanda se l’era scordata così come le era venuta in mente.
Se l’era domandato ancora però e, ancora, non aveva trovato soluzione. Era stato al funerale di suo padre. Sua madre era venuta a mancare fin troppo tempo prima, suo padre era morto d’infarto e lei era una ragazza di appena vent’anni. Si era trovata di colpo sola, senza parenti stretti, senza affetti; senza una guida o un riferimento. Era sola, semplicemente. Ricordava di non essere nemmeno riuscita ad andare alle esequie. Era entrata nel cimitero quando tutti gli altri ne stavano uscendo, tutti vestiti di nero. La guardavano male, perché lei di nero non aveva nulla, nemmeno i capelli. Come se un colore avesse potuto rappresentare il suo stato d’animo.
Si era diretta a quella lapide in pietra, conficcata davanti a un cumulo di terra smossa, sulla quale spiccava una foto del padre che lei non avrebbe mai scelto. Era una foto che lo rappresentava quando i suoi capelli ricci erano ancora uniformemente scuri e le rughe che gli solcavano il viso erano solo quelle provocate da un sorriso. Non era quello l’uomo che era morto, quello era un ricordo sbiadito nella mente di chi non aveva mai voluto accettare il suo cambiamento, di chi non avrebbe mai voluto accettare lei, coi suoi capelli color grano così stranieri, così non-della-famiglia. Ricordava di essere rimasta composta, impettita, incredibilmente a disagio. Continuava a giocherellare nervosamente coi capelli, a distogliere lo sguardo da quella foto aliena e a rimanere in silenzio. Stava aspettando: aspettava che lui le dicesse qualcosa, aspettava che suo padre le suggerisse la strada, un ultimo insegnamento da genitore. Ma lui se ne era andato e non le aveva detto nulla. Era rimasta sola.
Per un tempo infinito aveva indugiato in piedi di fronte a quella lapide e per un tempo infinito poi, l’aveva abbracciata, piangendo come una bambina. Le era sembrato di capire, in quel frangente: forse amare qualcuno ed essere amati a sua volta era lo scopo della vita. Forse…
Ma era soltanto il fine che lei aveva voluto darsi in quel momento, tentando di sopperire alla mancanza di un responso più ampio. Non c’era stata nessuna rivelazione sul senso dell’esistenza, nessuna risposta definitiva. C’era stato solo un bel pianto e l’ultimo addio a suo padre.
«Le andrebbe una tazza di the?»
La voce dell’infermiera la riportò alla realtà. Le sorrise riconoscente, prima di afferrare con incertezza gli occhiali che la ragazza le aveva messo in mano. Li inforcò con lentezza, come se avesse tutto il tempo del mondo e arrivati a quel punto pensava di poterselo permettere.
Accettò volentieri la tazza fumante che la giovane le stava porgendo con un sorriso. Si permise di studiarla, passando dai capelli color mogano ai grandi occhi cioccolato, al naso a punta, alla fossetta sul mento.
Le sfiorò le dita nel prenderle la tazza dalle mani, trovandole estremamente morbide e delicate. Non aveva bisogno di guardare le sue per sapere che nel tempo si erano smagrite, che le sue dita affusolate in quel momento risultavano soltanto ossute e che i tendini risaltavano sul dorso della mano. Non aveva bisogno di guardarle per sapere che l’anulare sinistro era disadorno da qualsiasi anello.
Inspirò a pieni polmoni gli effluvi del the, prima di cominciare a sorseggiarlo, bollente com’era. Anche l’infermiera se ne versò una tazza, andando a sedersi nella sedia a dondolo nell’angolo di quella stanzetta, accanto all’armadio in ciliegio. Lo sorseggiò, dondolandosi appena sulla punta di quella sedia.
«Lei non ha parenti signora?» domandò, cauta.
La signora Contini la studiò appena attraverso le lenti spesse, leggermente sorpresa.
«Non volevo esser-» si affrettò ad aggiungere la ragazza, ma venne interrotta da un gesto della donna, che le sorrise, proprio come sorridono le nonne.
«No, cara.»
«Suo marito?»
L’anziana sospirò, abbassando la tazza di the e tenendola in grembo avvolta fra le mani. Distolse lo sguardo dalla giovane, aveva intravisto un gioco di luce e non voleva accertarsi del fatto che fosse un anello di fidanzamento.
«È morto tanti anni fa, poco dopo che ci eravamo sposati.»
Dell’incidente in macchina in cui aveva di nuovo perso tutto non si ricordava nulla. I medici avevano detto che probabilmente la botta era stata talmente forte da procurarle una piccola amnesia. Lei era convinta che fosse il suo cervello ad aver arginato l’accaduto in un cassettino, molto remoto, per impedirle di sbriciolarsi definitivamente. Istinto di sopravvivenza.
Il soggiorno in ospedale faceva fatica a ricostruirlo. Non aveva voluto sapere quanto tempo era rimasta in coma farmacologico, né le era interessato contare i giorni dal suo risveglio fino alle dimissioni. Le pareti bianche della stanza erano state lo specchio della sua vita fra quelle mura, dopo che il dottore le aveva comunicato la morte del marito e della bambina che portava in grembo. L’aveva scoperto in quel momento, che sarebbe stata una bambina. Così come aveva scoperto che non avrebbe potuto avere altri figli, come se avesse avuto qualcuno con cui farli quei figli.
Si era ritrovata a sperare di essere morta anche lei, in quell’incidente. D’altronde, che cosa le era rimasto? Che cosa doveva fare? Persino quell’obiettivo che si era prefissata tempo prima, sulla tomba del padre, aveva perso significato. Che cosa poteva fare?
Se avesse avuto una risposta di qualsiasi tipo, probabilmente non si sarebbe ritrovata, qualche mese dopo, al di là del parapetto di un ponte, intenta a buttarsi fra le acque spumose di un fiume in piena, non così certa di esserne pronta, o capace, o entrambe. Se avesse avuto la certezza della mancanza di scopo della vita sarebbe saltata in acqua, pronta a farsi abbracciare dalla corrente e soffocare lentamente; se fosse stata sicura dell’esistenza di un fine ultimo universale non l’avrebbe nemmeno scavalcata quella ringhiera.
E invece era rimasta lì, perché l’indecisione generava altra indecisione.
«Se non hai intenzione di salvarmi, non farmi perdere tempo» Si era resa conto di quel suo pensiero solo dopo averlo sussurrato al mondo, alla vita, a Dio. L’aveva urlato, nuovamente, fra le lacrime e ne aveva acquisito la consapevolezza.
Ma poi aveva scavalcato la balaustra, ancora una volta, e, poggiati i piedi sull’asfalto, si era chiusa in se stessa.
«Ha qualche figlio?»
Di nuovo la donna si riscosse, rendendosi però conto della comparsa di un lieve sorriso, un po’ malinconico forse, sulle sue stesse labbra.
Posò la tazza di the, ormai semivuota sul comodino e l’infermiera, alzandosi, la ripose insieme alla sua sul vassoio con il quale le aveva portate nella stanza.
«Non posso averne» rispose, mesta, sdraiandosi nuovamente. Adesso avrebbe dovuto davvero riposare, ne era certa. Non vedeva l’ora di abbandonarsi alla stanchezza, chiudere gli occhi e sprofondare nell’oblio. Alla fine, ricordare era incredibilmente faticoso. Ed era doloroso.
Vide la giovane rattristarsi, lasciandole intravedere, prima che le togliesse le occhiali, un’espressione compassionevole che la fece sorridere.
«Mi dispiace, signora.»
«Non preoccuparti. Adesso ho capito, lo so.»
Chiuse gli occhi, sospirando, sotto lo sguardo interdetto dell’altra.
«Andrà tutto bene. Ne sono certa.»








SdA


Non so onestamente cosa dire su questo racconto. Lo sento mio, incredibilmente mio, ma lo sento anche alieno e distante. Non so, è strano.
È un racconto che ho presentato per la X edizione dei Colloqui Fiorentini, incentrati sulla figura e la poetica di Manzoni e sono incredibilmente contenta che sia andata com'è andata. Non ci speravo minimamente, ma a volte raccogliere dieci centesimi dagli scalini di una stazione, evidentemente, aiuta.
E poi che dire, un grazie enorme a Medea00 (insieme anche a tantissimi complimenti :D vi ordino di leggere quel capolavoro che è "Crisi da pagina bianca") e a Shinushio, quella santa donna che tenta ancora di convincermi che non sono poi così senza speranza. Grazie infinite, a voi e a tanti altri, che non leggeranno mai, ma che sono certa lo sappiano (o almeno spero...)

   
 
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