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Autore: Jolene    11/01/2006    4 recensioni
alla luce delle notizie avute dalla JK, ho deciso di creare daccapo la storia di Tom Riddle. Buona fortuna, tesori! ------------------------------- Tom Riddle era ossessionato dal pensiero di rimanere per sempre nell'ombra dell'anonimato. Aveva idea che il mondo l'avesse rigettato come un pezzo di carne marcia in mezzo ad un'enorme pattumiera di cose inservibili, e che l'unico, il solo modo per sbucare via da quel pattume era riuscire a distinguere se stesso dagli altri.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tom Riddle/Voldermort
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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“Che il signore sia con voi."
"E con il tuo spirito."
"Annunciamo la tua morte signore, proclamiamo l'attesa della tua venuta. Celebrando il memoriale della tua resurrezione rendiamo grazie per la tua gloria immensa, amen."
"Amen."
"Potete andare in pace."
"Grazie a Dio!" sospirò Paula dalla sua panca a destra in fondo, infilando in fretta lo smalto, che aveva steso di nascosto sulle unghie durante la cerimonia, nella borsetta in modo che nessuno se n’accorgesse. Si vociferava che una volta Jenna Robinson aveva nascosto una confezione di smalti sotto il letto, e che il giorno dopo era stata costretta a tagliare i capelli a zero per evitare che capitasse di nuovo. L'orfanotrofio Saint Claire dettava leggi molto severe riguardo alle libertà che poteva concedersi una ragazza matura.
La cerimonia era appena terminata; sacerdote e diacono erano scomparsi in fretta oltre la porta della diocesi, ed una ressa rumorosa e chiacchierina affollava le tre piccole navate della chiesa.
I bambini del Saint Claire erano talmente tanti che da soli riempivano tutta la sala, sebbene le dimensioni non fossero delle più considerevoli.
Selma Wellington era tra tutti la maggiore, con i suoi diciannove anni compiuti di fresco, e certo la più invidiata, trovandosi a messa per l'ultimo giorno dopo una vita passata in orfanotrofio, visto che aveva conseguito la sua indipendenza di maturità. Sarebbe rimasta per sempre, nell'immaginario collettivo, come 'la furia di Londra': una vera e propria potenza in azione, un essere ribelle ed indomabile.
Tutti ricordavano il giorno, degno di nota, in cui, dopo una tremenda lite con una compagna di classe, le aveva infilato a forza la testa in una pozzanghera. Il giorno seguente s'era saputo che l'incauta ragazza si era coraggiosamente azzardata a fare un commento maligno sull'abbigliamento di Selma. Nessuno a memoria d'uomo aveva mai più sfiorato l'argomento in sua presenza, e
ciascuno si era sempre tenuto lungi anche solo dal provocarla.
I bambini del Saint Claire non avevano qualcuno che interagiva per loro se subivano un torto. Avevano imparato a risolvere da soli le proprie questioni, a farsi valere se necessario. Li avevano relegati ad un angolo di mondo, e loro lottavano per uscirne fuori, per diventare figure consistenti, figure materiali. I bambini del Saint Claire erano chiamati 'Gli invisibili '.
"Sono venuta a sapere." aveva rivelato un giorno una bimbetta lattiginosa di nome Marine nel bagno delle ragazze, mentre ognuna era affaccendata con i suoi panni sporchi da lavare, ostentando l'aria di una che sa qualcosa in più del diavolo.

"Che Betty Malone ha vissuto al Saint Claire per quindici anni, prima di essere adottata da una contessa del Westshire."
"Betty Malone?! Non è possibile!" aveva esclamato l'amica Anny cacciando la testa fuori della tinozza e lasciando distrattamente che il sapone le scivolasse via dalle mani. Betty Malone era stata una delle più famose attrici degli anni venti, nonché il sogno proibito di migliaia di ragazzi.
Tarina, una delle ragazze più grandi, l'aveva rimproverata con uno scappellotto piuttosto violento sulla nuca. "Dà qua." aveva detto afferrando il sapone "La Malone non ha mai detto niente del genere. Non inventare palle, sozzetta pidocchiosa." aveva aggiunto, zittendo Marine con un'occhiata al vetriolo.
Questo era il genere di racconto che un bambino orfano si sarebbe volentieri bevuto. C'era una quantità di storie simili che girava al Saint Claire, ma nessuna ovviamente rispecchiava la realtà. I bambini del Saint Claire credevano di avere la certezza di essere in qualche modo legati ad un personaggio importante. Così era facile fantasticare che chiunque tra loro avrebbe potuto diventarlo.
D'altra parte molti di loro erano dotati d’ottime qualità caratteriali, ma quanti avrebbero avuto la possibilità di dimostrarli, o quantomeno coltivarli? Non c'era nessuno a garantire per gli invisibili, e nessuno di loro conosceva la strada per il successo. Sarebbero rimasti invisibili come lo erano stati i loro predecessori generazioni e generazioni prima.
Tom Riddle era ossessionato dal pensiero di rimanere per sempre nell'ombra dell'anonimato. Trovava insopportabile l'idea di non poter in qualche modo emergere contro quella massa informe di bambini rifiutati. Aveva idea che il mondo l'avesse rigettato come un pezzo di carne marcia in mezzo ad un'enorme pattumiera di cose inservibili, e che l'unico, il solo modo per sbucare via da quel pattume era riuscire a distinguere se stesso dagli altri. Con il tempo si era sviluppata in lui la
convinzione, nutrita dalle sue straordinarie capacità e dal modo in cui gli altri lo scansavano, d’essere superiore a tutti quelli che lo circondavano.
Era stato in un giorno di marzo di tre anni prima che aveva per la prima volta realizzato la sua determinazione a mettersi in evidenza.
Gli Invisibili avevano un gran bel po' d’idee per ammazzare il tempo nelle giornate vuote.
Un giorno la direttrice aveva comperato un bel mazzo di carte, ma Billy Stubbs, noto come il ladruncolo dell'orfanotrofio (tutti si guardavano dalle sue occhiatacce avide) aveva prontamente preventivato di impadronirsene. E così il giorno seguente il pacchetto da quaranta carte si era volatilizzato dalla stanza della direttrice per materializzarsi sotto il materasso a molle di Billy.
Naturalmente, nonostante ci avesse provato, Billy non riuscì a tenere per sé quella proprietà conquistata con fatica. Gli altri ragazzini lo minacciarono di confessare tutto alla signora Cole se non avesse messo il mazzo di carte in possesso comune: da allora tra i ragazzini più grandi si tenevano delle partite che richiedevano interi pomeriggi di battaglia. Chi vinceva in genere si guadagnava la stima e il rispetto di tutti, oltre che dieci centesimi da ogni perdente. Il campione imbattuto era stato, fino a quel momento, Kerry Shelter, un sedicenne basso e tarchiato che si comportava in ogni situazione come se ogni cosa gli fosse dovuta.
Tom aveva da poco compiuto dieci anni, quando Kerry gli si avvicinò per la prima volta. Tom non aveva mai rivolto la parola a Kerry, e viceversa; nonostante possa sembrare una faccenda grottesca per due ragazzini che avevano vissuto nella stessa casa per dieci anni.
Kerry lo squadrò storcendo il naso come se di fronte si trovasse qualcosa di inferiore, uno sputo, un escremento, qualcosa di sgradito.
"Vieni a giocare a poker?" disse Kerry.
Tom in risposta gli lanciò un'occhiata di gelida indifferenza. Kerry allora lo prese per la collottola.
"Vieni a giocare a poker, viscido moccioso, non è una domanda!"
Tom indugiò su di lui un lungo sguardo calcolatore. Kerry voleva dei soldi, e li voleva da lui perché tutti i suoi coetanei avevano rifiutato l'invito. Ora: cosa restava a lui da fare? Essere battuto in gioco e perdere dieci dei suoi preziosi centesimi oppure vincere (o rifiutare) e rischiare un occhio nero?
Non aveva intenzione di inimicarsi Kerry e la sua combriccola, sapendo che prima o poi l'avrebbe pagata, e anche cara. Così una soluzione meno indolore per entrambi si fece spazio nella sua mente. Poche settimane prima aveva sbirciato Francine Merkow infilarsi al dito l'anello di fidanzamento con  Paddy, un giovane che lavorava come operaio nell'industria di demolizione là vicino.
Si trattava di un cimelio piccolo, un semplice anellino d'oro in pegno della sua devozione per Paddy.

Tom aveva sentito qualcuno assicurare a Betty Bells che Francine alla sera lo riponeva in uno scatolino di lucida- scarpe nel cassetto. Così, un bel po' di tempo prima, se n'era impossessato. Quando Francine si era accorta dell'assenza dell'anello, era caduta in uno stato di completa disperazione. Girava voce che Paddy le aveva promesso di portarla a vivere in America il mese successivo, ma non appena seppe della scomparsa dell'anello fece una scenata di gelosia talmente devastante che Francine ritornò con un grosso livido sulla guancia. Paddy e Francine non si rivolsero mai più la parola, e la notte dopo Tom vide Francine struggersi in un pianto silenzioso seduta sul gabinetto della quarta latrina; in realtà provò una sensazione che s'avvicinava alla pena,
ma fu intimamente contento per il fallimento dei progetti della ragazza. Tutte le volte che l'aveva sentita pavoneggiarsi del suo presunto viaggio in America, gli si era stretta una morsa di fuoco attorno alla testa. Seppure inconsciamente, aveva fatto di tutto per evitare a Francine la gioia di evadere dal Saint claire prima del tempo.
Con una volontà tenace ed ossessiva per la sua giovanissima età, Tom si riteneva l'unico a dover emergere. Non avrebbe permesso che qualcuno gli rubasse quell'obiettivo e tantomeno che gli s’avvicinasse. Così tenne quell'anello sempre in tasca con sé, per evitare il fastidio che avrebbero potuto arrecargli trovandolo nella sua stanza.
Ebbene, quando Kerry gli impose di giocare, Tom oppose un netto e lucido rifiuto.
"Lo so che hai bisogno di soldi, Kerry, ma io posso darti più di quanto ti serve."
Il bullo lo squadrò con interesse grossolano.
"Che cosa? Non dirmi balle, stronzetto saputello, perché non mi ci vuole tanto a farti un culo grosso così."
"Vieni."
Tom lo portò nel ripostiglio degli stracci e si chiuse la porta alle spalle. Kerry era più alto di lui di tre spanne, ed in confronto alla corporatura del ragazzino la sua era delle dimensioni di un armadio. Aveva sopracciglia fitte e costantemente aggrottate. Si diceva che fosse un ragazzo estremamente sveglio e capace: i suoi voti a scuola erano tra i migliori, nonostante il suo impegno nello studio fosse minimo.
I suoi genitori erano due giovani italiani che, una notte d'estate, erano piombati nell'orfanotrofio con la decisione di lasciare lì il figlioletto in fasce. L'unico motivo dell'abbandono fu che erano troppo poveri per sfamare un'altra bocca: la madre versò molte amarissime lacrime prima di strapparsi il figlio dalle braccia.
Kerry aveva ereditato da loro tratti mediterranei e massicci di cui andava del tutto fiero.
Tom prese l'anello tra l'indice e il pollice e glielo mostrò.
L'oggettino scintillava come una stella in mezzo al buio e mandava riflessi luccicanti nelle iridi di Kerry, già desiderosi d'impadronirsene. Con un gesto improvviso e cruento glielo tolse di mano; ma poi, proprio quando Tom fu sicuro di aver risolto tutto, un lampo di comprensione balenò veloce negli occhi di Kerry. Allora sollevò lentamente lo sguardo spiazzato.
"Questo è l'anello che Francine aveva perso?"
Tom annuì.
Kerry sembrò completamente spiazzato, e fissò Tom con uno sguardo che sorprese le sue aspettative: più che contento pareva… Pareva quasi disgustato!
"Tu hai rubato quell'anello." scosse la testa "Non credevo che potessi abbassarti a tanto, Riddle." aggiunse con una nota di disprezzo nella voce, dopo aver gettato via l'anello come se fosse stato incandescente.
"Mi fai schifo!" urlò
Tom rimase perplesso: com’era possibile che non fosse andato tutto secondo i suoi piani? Forse non era stato abbastanza meticoloso, o non aveva considerato abbastanza la personalità dell'individuo che aveva di fronte?

Quella fu una tra le prime lezioni della sua vita.
Kerry aveva urlato, ma Tom gli impedì astutamente di urlare ancora e di rivelare il suo segreto.
Il bullo provò ad aprire bocca, ma dalla gola, invece che di parole, iniziò a sgorgare un consistente fiotto di una sostanza verdastra simile a vomito. Kerry strabuzzò gli occhi e si strinse il collo con le dita.
"Lo dirai a qualcuno?" disse Tom.
Kerry fu colto da un fiotto ancora più esplosivo, che costrinse il suo corpo scosso dai tremiti ad espellere una quantità allarmante di quel pus viscido, ormai sparso dappertutto sulle piastrelle del ripostiglio. Un suono soffocato ed un gorgoglio fecero capolino dalla bocca del ragazzo che scosse la testa con convinzione.

"Bene."
Non appena la gola di Kerry sembrò essersi liberato dall'insopportabile flagello, si precipitò immediatamente fuori del ripostiglio.
Tom sforzò la sua mente al desiderio, e subito il pavimento fu lindo come dapprincipio. Poi con un sorrisetto a mezza bocca raccolse il suo bottino ed uscì anche lui. Aveva ottenuto senza nemmeno troppi sforzi, se non proprio esattamente, quello che voleva.
Kerry Shelter ricordò per sempre quell'episodio, che tuttavia rimase celato nei più reconditi angoli della propria anima: arrivato un tempo, giunse ad autoconvincersi che si trattasse di un sogno e non di un ricordo reale. Ma perché quel tempo arrivasse ci vollero molti anni ancora.
Tom non ne provò il minimo rimorso, com’è facilmente comprensibile. Immagino già quanti di voi punterebbero la mano contro un ragazzino talmente malvagio e privo di scrupoli, e capisco è sempre più facile giudicare che comprendere. Ma il male è un processo che si sviluppa lentamente e che
quindi non può persistere dalla nascita di un uomo, e penetra molto più a fondo del bene perché si serve del tempo, che è suo compagno. Tom non nacque malvagio, ma furono le condizioni in cui visse a favorire in lui un comportamento simile.
Tom era un ragazzo solitario. In età più tenera aveva schivato la compagnia della gente perché lo faceva sentire a disagio ed inopportuno. Tom era come un alieno spedito a razzo in un mondo estraneo con cui non aveva nulla a che fare. Ma poi, poi con il tempo s’imparano tante cose, e lui aveva realizzato che in quel mondo non sarebbe mai riuscito ad esistere senza sembrare inopportuno, così come avrebbe per sempre covato l'odio e l'incomprensione per una razza estranea a sé.
Tom era considerato all'unanimità un tipo strano. Raramente qualcuno gli rivolgeva la parola, e quelle rare volte che accadeva lui faceva sì che succedesse qualcosa di mostruoso o d’eclatante per terrorizzarli e rientrare nella solitudine che gli era amica.
Tom Riddle si bastava da solo, Tom Riddle aveva avuto paura un tempo di non essere accettato, ma quel tempo era passato, lui era cresciuto in fretta e si era lentamente appassionato all'idea di poter fare a meno di chiunque altro.
La sola volta che provò ad interagire con una persona, accadde quando aveva da poco raggiunta la soglia dei dieci anni, e si trattò di un caso puramente eccezionale.
Era uno di quei sabati mattina in cui la vita sembra un attimo più luminosa, ed il sole batteva forte. Un gabbiano tracciava la scia del suo volo, nel cielo, e non c'era l'ombra di una nuvola. Ma soprattutto c'era un sole quasi accecante, cosa che spiazzò tutti i Londinesi, abituati ad un regime
climatico ben più rigido. Tom vide il gabbiano planare su di lui con la sua ombra leggera per poi oltrepassare il tetto della casa di fronte. Al di là spuntava la grossa ciminiera della discarica, un tubo grigio e sproporzionato che vomitava giorno e notte bolle di fumo fetente.
Al lezzo ci si faceva l'abitudine, vivendo da quelle parti, ma la cosa che era più difficile sopportare era il gracchiare continuo e rasposo dei gabbiani. Gli Invisibili certo davano agli animali del filo da torcere.

In estate si organizzava un torneo, di nascosto, il cui scopo era l'abbattere il maggior numero di quei fastidiosi volatili. Ci si poteva servire di fionde oppure di corde e sassolini, ed al vincitore spettavano cinque centesimi da ogni partecipante.
Tom non si univa agli altri bambini ( né si era mai unito ai loro giochi, tantomeno invitato a partecipare), tutti presi dalla loro missione - d'abbattimento - nemico - alato. Se ne stava in un angolo d'ombra, tutto rannicchiato su sé stesso, intento a seguire come la caduta dei gabbiani assumesse, mentre s'avvicinavano a terra, una pendenza elegante e fulminea. Henry, un ragazzino sui dodici anni con i capelli più lunghi del dovuto, aveva appena puntato su un esemplare particolarmente significativo. Guidava un intero stormo di gabbiani, perciò doveva trattarsi del loro capo. Tutti i bambini seguivano i movimenti di Henry con interesse, immersi in un silenzio innaturale e quasi religioso. Tom derise la loro concentrazione bambinesca mentre osservava Henry lasciare andare la fionda con un movimento perito che gli permise di colpire il volatile dritto all'ala sinistra. Questa, spezzatasi, lo fece precipitare a capofitto.

Quando il gabbiano toccò terra con un suono sinistro come d’ossa rotte, gli Invisibili s'affollarono tutt'intorno al corpo senza vita.
Alcuni di loro presero a punzecchiare il petto macchiato di sangue con rametti e pezzi di ferro raccolti per terra. L'animale era morto, la carcassa molle e immobile, aveva gli occhi spalancati e spaventosamente fissi. Henry lo prese per l'ala senza troppi complimenti e lo gettò nel bidone della spazzatura.
Ma poi tutto d'un tratto il cielo sembrò oscurarsi per un istante, e nessuno si accorse di ciò che stava per succedere prima che Henry lanciasse un acuto strillo infantile. Uno stormo di gabbiani impazziti si diresse a rotta di collo verso il gruppo di bambini; i becchi aguzzi puntati sulle loro testoline.
Marie e Laurie, le due gemelle, si gettarono a terra mano nella mano strillando come ossesse. Qualcuno riuscì a sgattaiolare nella traversa retrostante, mentre Henry s'infilò nel cassonetto dell'immondizia assieme al gabbiano morto.
Ben, Paulie ed Orson si limitarono invece a proteggersi il capo con le braccia ripiegate. I gabbiani infuriarono su di loro, beccandogli braccia e mani fino a farle sanguinare.
Tom scoppiò in una risata fragorosa che tuttavia nessuno riuscì a sentire. Trovò che la scenetta che era riuscito a mettere sù fosse esilarante. Gli pareva d’averla già vista in un qualche film dell'orrore di cui gli sfuggiva il nome, ma gli era sembrata tanto divertente da volerla replicare.
Tuttavia ne fu presto stufo, così lanciò un'altra breve occhiata e lo stormo scomparì volando oltre l'ultimo isolato, com’eseguendo un ordine superiore. Decise che fosse anche l'ora di darsi una mossa, visto che erano ore che stava lì rincantucciato, così prese l'impermeabile e si diresse al parco. L'orfanotrofio era poco lontano dal centro della città, e questa era un'ottima cosa per Tom, sempre pronto a fuggire dall'edificio non appena possibile. In realtà ai bambini era caldamente
raccomandato di non avvicinarsi troppo al parco, che a detta della signora Cole era il porto franco di un certo Jack Lo Squartatore. E che invece, a detta di Miki Shneider, una diciassettenne un po' matta che stava sempre in giro per Londra facendo chissà cosa, era il porto franco d’eroinomani e
spacciatori.
All'ingresso c'era un cancello ampio e cigolante, che, essendo spezzato, restava aperto notte e
giorno. Gli alberi e l'erba erano incolti, c'erano grovigli d'erba e siringhe un po' dappertutto. Tom si
fece spazio sul tappeto di foglie secche e si sedette sulla prima panchina vuota, appena sotto un platano spoglio. A parte una coppia semi distesa per terra, nelle vicinanze non c'era l'ombra di un uomo. Si allungò sulla sua panchina e rimase per un po' a guardare le nuvole viaggiare tra le fronde degli alberi e trasformarsi in personaggi fantastici: cavalli, streghe sulla loro scopa, grifoni, elefanti bardati e donne indiane. Poi, senza pensarci nemmeno, girò la testa sul fianco sinistro e vide, poco lontano, un oggetto che attrasse la sua attenzione.
Si trattava di una scatolina di media grandezza, decorata a mano e smaltata in un colore cangiante. Tom credette, con l’ingenuità di bambino di cui era difficile sbarazzarsi, d’aver appena visto un oggetto d'inestimabile valore, cosicché si avvicinò piano e la prese tra le mani. Era ricoperta di
ghirigori in rilievo talmente belli che non potè resistere alla tentazione d'intascarla, nonostante non sapesse chi l'avesse lasciata lì e perché.
Ma non appena l'ebbe messa da parte, sentì un braccio serrarglisi attorno alla gola ed un colpo al polpaccio talmente forte ed inaspettato che cadde in ginocchio per terra trafitto da un'esplosione di dolore. Prima che potesse anche muovere un muscolo un uomo gli circuì la gola e gli
premette la faccia sul fango. Qualcun altro gli aveva immobilizzato gambe e braccia, così che non ebbe neanche il tempo di voltarsi per vedere chi fosse, anche se dalla brutalità dei colpi aveva potuto capire che si trattava di un uomo.
Quest’ultimo, che lo teneva per la testa, gli sfilò la scatola dalla tasca e gli batté la fronte per terra con tale impeto che Tom sentì il sangue rifluirgli in un’ondata al cervello.
"Che cazzo fai, vuoi rubare, eh? Lo sai che cos'è questa? Eh? Provaci a
farlo un'altra volta, stronzo!" sbraitò l'energumeno battendogli la testa per terra l'ennesima volta.

Ma poi, fortunatamente, dopo avergli mollato un altro potente calcio nel fianco che lo fece contorcere per ben cinque minuti in preda a spasmi di dolore, decise di avergli dato una giusta punizione, e, prima che Tom potesse vederne il viso, sparì nel nulla.
Tom strizzò gli occhi per trattenere le lacrime che combattevano prepotenti per uscire, ma nonostante gli sforzi gli risultò difficile. Strinse i denti per trattenere quel grido che non sarebbe mai nato, mentre alla mente gli tornavano i soli sei oggetti che possedeva: uno spazzolino da denti, un paio di scarpe, un pantalone, una camicia, un maglione ed un impermeabile, e poi tutte le cose che aveva desiderato avere. Ma adesso sentiva di aver perso la sua occasione, chissà se poi ce ne sarebbe mai stata una che l'avrebbe portato via da quel limbo di miseria e anonimato. Si rivide in una fantasia distorta in cui passava il resto della vita a lavorare come operaio all'industria di demolizione.
E fu allora che la vide in fondo al viale alberato, una ragazzina della sua età che camminava strascicandosi sul tappeto di foglie. Aveva un impermeabile rosso fuoco e una folta chioma corvina lunga appena sopra le spalle. Indossava una gonna grigia a pieghe, e sotto non aveva che un paio di parigine di lana e delle scarpe dozzinali.
Aveva dei rami tra i capelli e sembrava piuttosto scompigliata; anche la sua andatura era instabile ed inusuale. Ma quando si avvicinò, con la lentezza di un felino, Tom s'accorse di quanto fosse profondo il vuoto nei suoi occhi e dedusse immediatamente che non doveva essere del tutto in sé.
Tuttavia sorrideva come se il sole le fosse piovuto addosso, e girava su sé stessa come fosse stata una trottola colorata.
Dapprima non sembrò accorgersi della presenza di Tom, ma quando gli fu più vicina notò le lacrime che gli rigavano il viso e che, colto di sorpresa, non aveva fatto in tempo a cacciar via.
La bambina si mise in ginocchio barcollando. Tom si scostò, diffidente.
"Perché stai piangendo?"
I suoi occhi erano innaturalmente grandi e neri, e piantati sulle sue pupille con una fissità incredibile e grottesca.
Vedendo che Tom non rispondeva, gettò la testa indietro e rise. Era una risata innaturale e triste, quasi un verso animale.
"Io sono Amy Senzanome."
"Perché, non ce l'hai un nome?"
"No.. semplicemente perchè non so da chi sono nata. Non è strano?" e di nuovo gettò la testa indietro, ma stavolta senza l'accenno di una risata: la gettò talmente indietro che Tom credette rischiasse di spezzarsi il collo. Ma poi ritornò a fissare lo sguardo sul suo affascinato interlocutore, gli occhi che diventavano sempre più grandi, come una macchia di petrolio in un bicchiere d'acqua limpida.
"Ma io sono la figlia, io sono la figlia del mondo!" "A proposito qual è il tuo nome?"
"Tom Riddle." disse Tom con una smorfia
"Non ti piace?"
"No."
"Quanti anni hai?"
"Undici."
"Io ho un anno in più di te."
Proprio in quel momento cominciò a cadere una pioggerellina così fine che pareva umidità condensata: nessuno avrebbe sperato in una giornata senza pioggia, ma quella si era rivelata un'insperata fortuna. Tom non si era mai sentito tanto curioso nei confronti di un essere umano, ma quella ragazzina, Amy, sembrava così insolitamente ferina in tutti i suoi movimenti!
Lei sollevò il capo ed aprì la bocca per bere un pò di quella nebbiolina fitta, ma poi, quando piegò indietro i gomiti per toccarla, le maniche dell'impermeabile scivolarono lasciando intravedere un braccino sottile e martoriato da piccole croste violacee. Tom non ebbe il tempo di capire di cosa si trattasse, perchè la visione occupò un brevissimo spazio di tempo.
"Devo tornare a casa." constatò Amy come se non fosse di sé stessa che parlava.
"Io vado verso Inn's hill." disse Tom
"Io mi fermo più avanti." disse Amy "Vuol dire che faremo un tratto di strada insieme."
Così in breve furono fuori dal parco. Le strade di quella zona, che in genere erano affollatissime, si rivelarono a Tom per la prima volta come uno scheletro spoglio. Amy esibì ancora quello strano sorriso innaturale.
”Guarda, abbiamo per noi tutta la strada!" esclamò afferrando energica la mano di Tom e affondandogli le unghie nel palmo sottile.
"La strada, abbiamo la strada!" strillò piegandosi sulle ginocchia e cominciando a ballare con piccoli passetti di tip tap. Ma Tom guardò, e la strada gli si apriva davanti come un tappeto di stelle,
ed Amy la ballerina del grande cabaret del parco, e la pioggia gli applausi per lei. Avrebbe ballato fino a che la strada non le avesse divorato le punte dei piedi o sarebbe stata risucchiata dalla traversa successiva?

  
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