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Autore: Slan Soulblaze    02/03/2011    1 recensioni
[Osu! Tatakae! Ōendan] Quando Tanaka rialzò il mento, Dōmeki vide che nei suoi occhi bruciava la viva fiamma della determinazione.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per il geniale contest Gameplay indetto da Crimsontriforce/Laughingpineapple. Le note preliminari che nell'inviarla alla giudice avevo apposto per l'appunto in testa sono qui trasferite in coda, mancando lo schemino esplicativo necessario per la partecipazione. Allons-y!

Kokoro (Cuore)

Cos’è la fiamma
che brucia nel mio cuore?
Il ritmo cresce.

Kai Dōmeki serbava un vivido e caloroso ricordo dell’entrata in squadra di Hajime Tanaka-kun.
    Era accaduto una giornata d’inizio aprile, che aveva deciso di trascorrere all’ombra dei ciliegi in fiore nel giardino di fronte alla sede degli Ōendan di Yūhi. Il tappeto dei petali sull’erba formava infiniti motivi ornamentali; in quel momento stava rimirando quello che la natura aveva disegnato per lui, ma se sgomberava la mente da ogni pensiero riusciva a vederne decine di altri, tutti diversi, che si riunivano a formarne uno solo. Aveva abbassato il boccale di legno in tempo per voltare la testa e osservare la sagoma che avanzava verso di lui nel mezzo del prato. Saitō-kun.
    “Chiedo scusa, Dōmeki-hanshi”, gli si era rivolto una volta avvicinatosi. “C’è un giovane chiamato Hajime Tanaka che ha chiesto di vederla. Dice di voler entrare nella squadra”.
    La sua mente corse alla sera prima, a un incontro che lo aveva colpito per la sua casualità solo apparente. Aveva incrociato il cammino con quello di un ragazzo che indossava la divisa scolastica nera, così simile alla loro, e probabilmente stava rincasando dalle lezioni supplementari; nell’attimo in cui si erano passati accanto, procedendo in direzioni opposte, quello si era voltato tutto a un tratto e con la coda dell’occhio lo aveva visto fermarsi a guardarlo, spingendolo a fare altrettanto. Avevano continuato a osservarsi senza profferire parola per quasi un minuto prima che il ragazzo eseguisse un silenzioso inchino al suo indirizzo per poi ripartire per la sua strada.
    Sulla targhetta che aveva appuntata al petto, e che aveva letto mentre risollevava la schiena, c’era scritto “Tanaka Hajime”. Caratteri semplici, quasi abusati, così curiosamente comuni che non aveva potuto fare a meno di prenderne nota. E ora chiedeva d’incontrarlo. Si era accorto che il suo cuore già sapeva.

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Quando Dōmeki entrò nella sala dei ricevimenti, Tanaka era là ad attenderlo, e non doveva essersi mosso di un solo millimetro nel frattempo. Aveva ruotato la testa solo leggermente al suono del fusuma che scorreva; unici indizi a tradire l’emozione che lo percorreva una mano scostata in modo repentino dalla coscia su cui posava e la bocca che aveva socchiuso, forse inavvertitamente. Sedeva con postura perfetta, la schiena diritta e il mento in su, fiero come chi non contempla la possibilità di cedere di fronte agli ostacoli. Ogni parte del suo atteggiamento sprigionava disciplina, rispetto e grande dignità, le qualità che Dōmeki da sempre ricercava nei membri dell’Ōendan di quartiere e che lo avevano portato ad apprezzare le promesse che il ragazzo recava con sé quando solo poche ore prima lo aveva incontrato. Un secondo dopo il suo ingresso, Tanaka già abbassava la testa con profonda deferenza in segno di saluto.
    “Buongiorno, Dōmeki-sama... mi scuso profondamente per il disturbo che le arreco, ma... ecco...”
    Dōmeki si accomodò di fronte al ragazzo, poggiando anch’egli i palmi sulle cosce con le punte delle dita perfettamente convergenti verso l’interno e fissandolo in volto per invitarlo a continuare. E Tanaka proseguì, distogliendo con delicatezza lo sguardo, andando diretto al punto dopo un solo istante di esitazione:
    “... Mi perdoni ancora per l’insolenza... ma vorrei chiederle formalmente di entrare a far parte della squadra!”
    C’era qualcosa di diverso in Hajime Tanaka rispetto al loro incontro di poche ore prima: non nell’aura che emanava, non nel contegno né tantomeno nel viso e nella sua espressione seria. Dōmeki si concentrò sull’insieme e finalmente comprese.
    Quando un bonzo rinunciava ai beni terreni per darsi alla vita monastica, la sua risoluzione era sancita dal taglio dei capelli: un gesto simboleggiante l’eterno abbandono di ogni legame materiale col mondo per abbracciare un’esistenza fatta di preghiere e sacrifici atti a rinforzare lo spirito.
    “Tanaka-san. Hai rasato il capo, ho ragione?”
    Di nuovo lo stesso palmo della mano, sollevato dalla coscia su cui poggiava; stavolta andò a sfiorare per un istante la nuca in segno di apparente imbarazzo, o forse per esprimere involontario disagio verso una condizione nuova ancora da assimilare appieno. Poi Tanaka tornò ad abbassare la testa ancor più profondamente e già quello sarebbe bastato a Dōmeki per aver ben chiara la sincerità delle sue intenzioni, ma poi aggiunse anche:
    “Signore, se lei me lo permette... le giuro che farò del mio meglio per non essere un peso! La mia missione... la mia missione è apprendere da lei come aiutare gli altri!” Quando rialzò il mento, Dōmeki vide che i suoi occhi si erano accesi di una nuova luce, una luce che veniva da dentro. Un fuoco che divampava, che da piccola scintilla si era fatto incendio.
    Provava sempre più simpatia per il giovane che gli sedeva davanti, ma i suoi doveri di capo non gli consentivano di lasciarla trasparire con troppa leggerezza; ora aveva il preciso dovere di verificare fino a che punto la sua determinazione arrivasse realmente.
    “Ascolta, Tanaka-san”, tuonò allora riportando l’attenzione sul proprio sguardo fiammeggiante, colmo di passione a stento repressa. “Il cuore è tutto”.
    “Il... cuore?”, ripeté Tanaka esitante, tornando ad aprire le labbra mentre gli occhi gli si allargavano in un’espressione di educata ma sincera sorpresa.
    “Il cuore, esatto. È ciò che rende tale un vero uomo. Che ci rende in grado di fare ciò che dobbiamo. Con il cuore noi avvertiamo e tocchiamo l’affanno di un altro essere umano, e unendo gli animi con i nostri compagni danziamo per infondere il coraggio in chi è smarrito e lancia il suo grido di aiuto: lo stesso cuore che ci permette di avvertirlo in primo luogo e di arrivare là dove ce n’è bisogno. Per poter essere un Ōendan devi dunque aprire il tuo cuore e la tua anima, devi scacciare ogni pensiero e ogni traccia d’incertezza; solo così in te fluirà la musica del mondo e saprai esattamente come e quando muoverti. Solo così ti appariranno di fronte le guide che t’indicheranno la via, quando finalmente ascolterai il ritmo che proviene dal cuore degli altri. Esso è il messaggio che dobbiamo cogliere e a cui dobbiamo rispondere”.
    Così parlò lasciando Tanaka a meditare in silenzio, con la bocca ancora leggermente socchiusa e lo sguardo basso, gli occhi che sfrecciavano fulminei da destra a sinistra, chiaramente a corto di modi adatti a esprimere gli interrogativi che gli si affacciavano alla mente. Era giusto così: le parole erano finite, e da quel momento in poi la comprensione avrebbe dovuto risalirgli dal profondo. Se ne era in grado, l’aveva già in sé.
    “Ti lascerò qui a meditare su quanto ho detto”, disse Dōmeki rialzandosi dal tatami. “Quando ti sentirai pronto, chiama Saitō e Suzuki per affrontare la tua prova. Dovrai eseguire una danza in perfetta armonia con la tua squadra”.
    Tanaka lo fissò, poi richiuse le labbra formando con esse una linea retta; il suo sguardo perse ogni incertezza e con un semplice cenno della testa comunicò di aver capito le condizioni che gli si chiedeva di soddisfare.
    Dōmeki uscì dalla stanza senza aggiungere altro né guardarsi indietro.

Da tempo aveva imparato a non mostrare aperta curiosità per gli esiti di un addestramento o per il tempo che un nuovo aspirante impiegava ad assimilare il suo discorso prima di disporsi ad affrontare l’esame unico e decisivo che attendeva tutti i futuri membri del gruppo; lasciato il dōjō si allontanò per tornare a sedersi a gambe incrociate sotto il proprio ciliegio prediletto. Da lì godeva di un’ottima visuale sul punto in cui Saitō e Suzuki, i silenziosi e fedeli compagni destinati ad affiancare ogni leader, sapevano di dover condurre Tanaka.
    Dal canto suo, aveva fatto ciò che doveva: toccare i tasti che avrebbero innescato la realizzazione finale di ciò che il loro compito comportava. Sapeva che, anziché allontanarlo, la cosa non sarebbe servita che a consolidare la sua decisione. In caso contrario avrebbe significato un suo errore di valutazione e allora la faccenda non lo avrebbe più riguardato, ma se Tanaka fosse uscito in giardino si sarebbe curato di spronarlo fino all’ultimo, a costo di risultare brutale e spietatamente severo; lo avrebbe apostrofato con sentenze d’indegnità, riscosso da sequenze di fallimenti insignificanti a suon di parole dure quanto necessario. Quale altro modo esisteva per mostrare fiducia nella capacità di far meglio da parte di chi era dotato del giusto talento, dopotutto?
    No, non si era sbagliato: ecco là Tanaka incedere sul manto erboso a passi sicuri, seguito a breve distanza dai due silenziosi assistenti. Eccolo prendere posizione e irrigidirsi, esitare un istante come a realizzare (Dōmeki conosceva bene il susseguirsi di quelle reazioni) di non aver ricevuto né chiesto lumi o istruzioni sul da farsi. Eccolo tentare timidamente d’imitare le mosse che egli stesso aveva osservato forse compiere, in un tempo lontano e di breve durata, agli Ōendan della sua scuola.
    Sollevò il boccale e tornò a riempirlo di dolce liquore. Sarebbe stato un allenamento magnifico a vedersi.

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Si rimise in piedi dopo aver ripreso fiato, col gomito poggiato sul ginocchio. Lo sguardo gli cadde, senza pensare, sui petali che ricoprivano il cortile. Erano di ciliegi, staccatisi dagli alberi del giardino una volta esaurito il loro scopo; anche così, tuttavia, rapivano chi li guardava in modo nuovo e diverso spingendolo a cercare un senso, un disegno di qualsiasi tipo. Sentiva di non poter fare a meno di una pausa dopo l’ennesimo sbaglio, dopo aver immaginato senza fondamento di aver effettivamente udito qualcosa che non fosse il fruscio del vento tra le fronde; trascorso qualche minuto fu troppo stanco anche solo per pensare alle forme create dai petali e si limitò ad osservarli con la mente vuota ed esausta, mentre Saitō e Suzuki restavano alle sue spalle imperturbabili e sempre con la schiena diritta e le braccia conserte al di dietro. Fu allora che lo vide: un contorno che tracciava uno schema ben preciso davanti ai suoi occhi. Cercò di fissarlo nelle sue pupille, e in quello stesso istante il rosa quasi bianco dei petali di ciliegio diventò accecante; si trasmise, per qualche misteriosa proprietà transitiva, ai suoi timpani in un’armonia di suoni solo all’inizio confusi, ma ben presto strutturati in qualcosa di nitido e riconoscibile.
    C’erano volute dieci ore trascorse in piedi durante le quali la fiamma che lo consumava aveva tremolato e rischiato di spegnersi solo per poi riaccendersi più forte, in cui di minuto in minuto aveva allontanato da sé la ragione e cercato di dare ascolto al cuore sempre sentendo ricomparire in sé l’ombra di un pensiero che gli rimaneva appeso sul fondo della testa, ma finalmente nelle sue orecchie risuonava la sinfonia di cui Dōmeki gli aveva parlato: non una musica che cominciava a lento e cresceva, cresceva sempre più come si era immaginato, ma un’esplosione di suoni e di colori che lo inondava dalla testa ai piedi, riempiendogli gli occhi di lacrime di emozione. Perché, senza ragionare, aveva capito subito ciò che stava ascoltando.
    La sua confusione durò un solo secondo, e quello successivo in qualche modo aveva già capito cosa fare. Trasse un profondo respiro; come guidato da una mano invisibile, il cuore finalmente libero da ogni preoccupazione, iniziò a muoversi per toccare una dopo l’altra le forme sferiche che gli erano apparse all’improvviso dinnanzi e accanto, ferme eppure costantemente animate da qualcosa, come un cerchio, che le cingeva sempre più stretto: e nemmeno uno di quei movimenti sembrava tradire il ritmo che ormai scorreva nel suo sangue in tumulto.
    Senza esitare, come aveva fatto fino a quel momento pur non accorgendosene, distese il braccio sinistro in diagonale verso destra, e quando con le dita unite sfiorò il colore che si trovava lì credé di vedere un lampo e di sentire l’intera sua anima vibrare. E continuò a vederne ancora altri, chiari e brillanti davanti agli occhi: là una scia a spirale giallo vivo da seguire tracciandola col braccio e piegando tutto il busto, là un colpo proprio mentre il cerchio si richiudeva lento e inesorabile sulla sfera che circondava, e ancora due rapidi movimenti in avanti delle braccia con le mani chiuse a pugno per raggiungere due forme affiancate, una dopo l’altra. Avvertiva di star compiendo mosse mai imparate o conosciute in precedenza, che forse aveva avuto sempre dentro di sé senza saperlo.

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Splendida. La danza cui stava assistendo era splendida.
    Lui stesso non avrebbe osato sperare di meglio, né ne aveva mai vista una tanto perfetta sin dall’allenamento di Ippongi-kun; osservando con attenzione riusciva a riconoscere ognuno dei simboli che Tanaka-kun vedeva nel suo cuore. Lì una successione ravvicinata di sfere risplendenti di azzurro cielo; là una lunga striscia continua gialla come il sole, che la mano della giovane recluta (non potevano più esserci dubbi ormai) seguì con lentezza e precisione fino alla sua conclusione naturale. E Saitō e Suzuki, ai quali aveva raccomandato di non fornirgli alcun tipo di aiuto, come lui seguivano il percorso visibile solo a un cuore puro. C’era molto margine di miglioramento, certo, nel tempismo e nella sensibilità che gli avrebbe permesso di percepire ancor più punti del ritmo, ma era pressoché impossibile che qualcuno ci riuscisse senza un esercizio costante e instancabile. Quel che contava, che distingueva un Ōendan dagli altri, era la capacità di vederla e sentirla in primo luogo: la mappa degli snodi dell’anima del ritmo.

Fu raggiunto dal battito furioso del cuore di Tanaka-kun e l’intensità del suo spirito combattivo, e nell’osservare quel ballo fluido e aggraziato si sentì pian piano colmare gli occhi di lacrime. Non le trattenne: da molto tempo ormai sapeva che non c’era migliore omaggio alla bellezza.

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Solo molto più tardi Tanaka, la fronte cinta dalla bandana rossa che portava come fosse la corona di alloro degli antichi saggi d’occidente, si domandò per chi aveva ballato quel giorno, sotto i rami dei ciliegi carichi di fiori nel pieno del rigoglio; per chi o forse per cosa, dal momento che Dōmeki-hanshi e Ippongi-senpai gli avevano insegnato che non solo le persone, ma anche le altre creature e il mondo stesso hanno la capacità di toccare il cuore degli Ōendan. Pur se separati alla nascita, tutti siamo una sola anima e un solo cuore riuniti dal ritmo che scorre nelle viscere del mondo, pensò Tanaka; quello che non aveva mai provato a domandarsi era se fosse possibile incitare se stessi. Un’ipotesi tanto aliena alle sue supposizioni da non spingerlo neppure a considerarla, ma che avrebbe spiegato perché a ogni aspirante venisse richiesta la prova che lui aveva superato.
    Col tempo smise di chiedersi anche quello. Un Ōendan, in fondo, supera la razionalità e così alimenta lo spirito di coloro che vogliono combattere per oltrepassare ogni difficoltà, anche quelle che appaiono insormontabili. È il potere del cuore.

~Oshimai

Eeee... prima parimerito? Ma sul serio? *o* Non son degna, non son degna, ma arrossisco per la recensione adorabile X33333

Note finali, rimandi utili, caramelline omaggio

Poiché posso comprendere (ma non giustificare, ihg ihg ihg) che non tutti i gentili lettori delle storie di questo contest conoscano i due piccoli capolavori che rispondono al nome di Osu! Tatakae! Ōendan (ibid. e Moerō! Nekketsu Rhythm Damashii, ovvero “Brucia! L’anima del ritmo dal sangue ardente”), potete farvi un’idea sul funzionamento del gameplay, essenziale per capire anche il senso di questa fic, sulla preposta pagina di Wikipedia inglese. Con tante scuse per il mio pesoculismo XD

http://en.wikipedia.org/wiki/Osu!_Tatakae!_Ouendan
http://en.wikipedia.org/wiki/Moero!_Nekketsu_Rhythm_Damashii_Osu!_Tatakae!_Ouendan_2
http://en.wikipedia.org/wiki/Ouendan

Altre note sparse: ho considerato l’idea di scrivere proprio di Ōendan perché, punto primo, esalta abbestia e non può che sortire lo stesso effetto su qualsiasi essere umano dotato di un briciolo di cuore. È epico senza rappresentare nient’altro che una quotidianità iperpompata, è un’estremizzazione dei cliché dello shōnen manga che riesce a piacere anche a me, che non potrei essere più lontana dal target in questione, proprio per la sua trattazione semiseria. Punto secondo, il tema del contest è il gameplay e Ōendan, che del gameplay fa il proprio fulcro, lo unisce a un background e dei personaggi che fanno venir voglia di glomparli con occhioni scintillanti.
Punto terzo, si tratta di un omaggio compleannoso a quella che non ho più timore di considerare la mia migliore amica, una fra le più preziose che abbia nonostante i chilometri che ci separano. Letta la lista per il raggiungimento dell’achievement “tanti auguri a te” (e non per ottenere il bannerino, lo giuro) ho selezionato non senza indecisioni il fandom, sempre che possa chiamarsi fandom una roba con zero fanfic italiane, che meglio poteva prestarsi a parer mio a “narrare un gameplay” proprio perché costituisce un punto d’incontro mica da ridere fra due cose che teoricamente poco c’entrano fra loro. Il difficile sta proprio nell’integrarle e giustificarle all’interno di un racconto non fondato sulla parte narrativa, e manco è detto che ci sia riuscita XD

Su fonetica dei nomi giapponesi e suffissi di rispetto: tutte le allungate, che nella traslitterazione in caratteri romani si trovano scritte talvolta ou e uu e talvolta ō e ū sono qui rese in questo secondo modo perché la prima grafia è a parer mio poco bella da veder ripetuta all’interno di un testo. Tutti i suffissi che si appongono dopo un cognome o un nome in giapponese (-san = formale piano, -sama = estremamente rispettoso, -kun = confidenziale maschile, fra amici o da soggetto di età superiore a soggetto di età inferiore, -senpai = suffisso di rispetto nei confronti di uno studente più grande/di un superiore sul lavoro/di una figura mentore, kōhai = suffisso usato per uno studente più piccolo/un subordinato sul lavoro) sono da me mantenuti per conservare il feeling gerarchico e fortemente cameratesco, quasi militaresco, che anima i veri Ōendan (squadre di cheerleader scolastici, sia maschili che femminili) e che non sarebbe riproducibile in alcun modo usando l’italiano. Ciò detto, ovviamente l’intenzione è risultare comprensibile anche a chi non conoscesse affatto il titolo di provenienza pur offrendo un livello di goduria superiore agli edotti (kudos to them) in grado di cogliere ogni riferimento.

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... Giuro che lo stile claudicante è un tentativo di riprodurre le traduzioni italiane ingessate dei racconti di provenienza giapponese. Sì, come no. ._.
... E sì, i punti del ritmo fa molto “ho premuto i tuoi tsubo”. Sarà un cliché degli shōnen pure quello.

Haiku iniziale = Omaggio a una vecchia e spassosissima iniziativa di FFItalia e insieme all’usanza in entrambi gli Ōendan di terminare la schermata di “Game Over” con un haiku (metrica 5-7-5) correlato al livello appena fallito. Solo che in questo caso esprime una sensazione di trionfo e non di sconfitta.
Boccale di legno = Si chiama masu ed è in cipresso; ha una caratteristica forma cubica che forse qualcuno avrà visto nelle vignette dei manga o nei negozi di articoli giapponesi. Un tempo veniva usato per misurare il riso, adesso si vede spesso nei ristoranti che si pregiano di servire una fornita cantina di nihonshu (meglio conosciuto come sake).
Il nome lo aveva riportato alla sera prima = Il manuale d’istruzioni del primo Osu! Tatakae! Ōendan riporta che Tanaka è entrato nella squadra “lo stesso giorno in cui ha incontrato per caso Dōmeki rincasando dalle lezioni supplementari”. Il problema è che le “lezioni supplementari”, meglio conosciute come juku o scuola di approfondimento, terminano in genere la sera tardi. Ammetto che sia in sé deliziosamente assurdo e sopra le righe pensare che Tanaka rincasi, si rasi il capo e in quattro e quattr’otto si ripresenti da Dōmeki, ma dal momento che pur essendo canon la cosa non è così importante ai fini del background è stata da me leggermente modificata per far sì che nel Dōmeki contempli i ciliegi in fiore al mattino. Il fatto è che ce lo vedevo troppo XD
Dōmeki-hanshi = Titolo onorifico usato nelle arti marziali per indicare i più grandi tra i maestri. Dato che non c’è nessuno al di sopra di Dōmeki negli Ōendan di Yūhi Machi, ho fatto usare a Saitō (per chi non lo sapesse, è lui) questo suffisso. All’interno del mondo fittizio lui lo usa seriamente, ma io l’ho scelto ironicamente, dal momento che è molto esagerato e che, beh, trovare una cosa NON sopra le righe in Ōendan è un pelo difficile.
Lezioni supplementari = La scuola di approfondimento che ho citato anche sopra. Hajime Tanaka appartiene a una famiglia che fa vanto dell’intelligenza dei propri membri e dunque prima di entrare negli Ōendan (non so se anche dopo) doveva essere uno studente ai primi posti nella sua classe, immagino.
Caratteri semplici = “Tanaka” è uno dei cognomi giapponesi più comuni che esistano e viene utilizzato a iosa nei libri di lingua per stranieri come “dummy” per le frasi di esempio. Si scrive con i caratteri di “campo” e di “mezzo, interno”, ovvero 田中. Anche un non giapponese penso possa concordare sul fatto che sono addirittura così semplici da spingere a ricordarli molto più vividamente di cognomi più astrusi... XD
Fusuma = Le classiche porte scorrevoli delle case giapponesi tradizionali. Diventate un luogo comune dell’estetica nipponizzante quasi quanto sushi, Fujiyama (lol don’t try this at home), ninja e samurai.

  
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