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Autore: Eos del Tramonto    02/03/2011    3 recensioni
Si può dare senso a una vita di vagabondaggio solo quando si decide di fermarsi. Questo ha capito Laure, la piccola zingarella che ha visto tante cose più grandi di lei. Ma esiste meta per chi è nato senza una terra sotto i piedi?
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa: Questa è una breve one-shot che racconta la morte di un personaggio di una storia che sto scrivendo, leggermente ispirata a un gioco di ruolo, ma da cui se ne distacca profondamente nell'ambientazione. La piccola Laure è una zingara mezzelfa che per tutta la vita ha vagato per il mondo con una compagnia circense, prima di incontrare Raven e il suo drago e cacciarsi in una serie di avventure e peripezie che prima o poi, si spera, porteranno questa ragazzina ad avere il suo drago. Data la natura ibrida del racconto, un po' original e un po' ispirata al gdr, ho dovuto fare una scelta e ho scelto la categoria "Originali", un po' per giustificare la vaghezza dei riferimenti, un po' perchè spero di pubblicare presto qui la storia, che quasi di sicuro dovrà finire nelle "originali". Sono a disposizione per qualunque segnalazione e/o spostamento, nel caso questa mia scelta si rivelasse errata. Nel frattempo, vi auguro una buona lettura. La storiella è ovviamente dedicata a Elos, come moltissimi miei scritti, ma questo in particolar modo.

Ballava.

Danzava, attorniata da un crocchio di gente in cerchio, in estatica ammirazione, come spettatori di una cerimonia sacra e soprannaturale.

Poggiava i piedi nudi sulla nuda terra come se fossero privi di peso, mentre veli di ogni forma e colore si agitavano, seguendo le sue movenze, come fiamme intorno a un ceppo crepitante, come acqua che si increspa al soffio del vento.

I sonagli, le conterie e i monili delineavano la musica semplice che seguiva, scandendo un ritmo ripetitivo, ma non statico, che ad ogni nuovo movimento, sembrava creare una nuova partitura.

Semplice, eppure irripetibile.

Davanti a lei, una piccola scarsella di pelle era poggiata in terra, logora e consunta in più punti, che si riempiva di monetine a ogni giravolta di quel corpo sottile e flessuoso, dalla pelle quasi bruciata dal sole.

Una volta, artifizi di bellezza, avrebbero coperto quel viso giovane, dando l’impressione al suo pubblico di avere a che fare con un’affascinante donna di altre terre, non con una bambina; ora non ve ne era più bisogno: i tratti induriti dall’età erano testimoni muti di un tempo crudele per molti, ma non per lei, che, con l’avanzare dell’età, aveva rivelato un fascino nuovo.

Il fascino dell’innocenza macchiata, dell’ingenuità orribilmente dilaniata dai dolori e dalle vicissitudini che, per un comune essere umano, si delineano in una scala temporale breve, ma che per lei invece doveva essere stata considerevolmente più lunga.

I capelli castani, imprigionati in treccine fitte di nastri e di ornamenti pesanti, non rivelavano ancora le tracce dell’inverno degli uomini, che prima o poi l’avrebbe toccata; ricordavano ancora una foresta e gli occhi il sole, che penetrava tra le foglie.

Nemmeno il legame con una creatura di nembo, fulmine e tempesta aveva potuto modificare quella luce.

I tintinnii dei monili cessarono di colpo, mentre le sue membra si arrestavano: chinò il busto, per riprendere in mano quella scarsella ricolma e cominciò a fare il giro tra i suoi adepti, alla ricerca di offerte.

Alcuni ripeterono per la seconda volta l’atto, altri lo fecero per la prima volta, finchè non si fermò vicino a due figure: fiamme vivide si infransero nei suoi occhi, guardando crini e abiti.

Le due figure, una mezza come lei e un signore alto, allungarono il braccio destro, tenendo le dita della mano chiuse, tranne pollice e indice, stesi a forbice, che vennero scosse più volte.

Un sorriso scosse quelle labbra di mezza danzatrice, una volta forse piene e sensuali, ma che ora conservavano solo il colore delle bucce rosse delle mele. Poggiò di nuovo il contenitore per terra e a loro dedicò una nuova movenza di danza, che si concluse con un salto, una capriola e un inchino.

Come una circense.

Il crocchio di spettatori rimase sorpreso dalla scena e si dileguò poco a poco, forse deluso da quella prodezza inedita, pagata con niente.

I tre rimasero da soli e cominciarono a camminare in silenzio: solo le due mezze si scambiarono saluti veloci e chiacchiere di circostanza, l’uomo rimase in silenzio. Solo ogni tanto guardava la danzatrice, quando coglieva quello sguardo verde fermarsi su di lui con aria furtiva.
Si fermarono presso un muretto, vicino al ciglio della strada che portava verso il centro della città; davanti a loro una locanda, dietro una chiassosa bottega.

La danzatrice si appollaiò sul muretto, con le gambe a penzoloni: i suoi accompagnatori rimasero in silenzio per un poco.

La Rossa poi parlò. “Eri tu ieri,vero?” Così, semplice. Serena. Come sempre, con tutti, nessun rancore, nessun moto di rimprovero.
L’altra sospirò. “Anche fosse?”

Rimasero di nuovo in silenzio

Lei, zingarella, aveva imparato tante cose dai nomadi come lei; una vecchia gentile le aveva insegnato cosa volevano dire i fiori.

“l’erba cimina…” le diceva “è simile al geranio: non far caso all’odore sgradevole dei suoi fiori, ti ci abituerai piano piano e ti rinfrancheranno lo spirito, seppur con durezza. Indica la devozione assoluta, instancabile a un ideale, alle leggi, al rispetto.”

Un mazzo brillava ora, sotto il sole cocente, sulla tomba del vecchio maestro: aveva appena in fatto a dirle che la considerava come una figlia, ma lei, stupidamente, non se ne era accorta prima che le sue energie si esaurissero. Perché lei, stupidamente, aveva tanto tempo, ma non tutti lo avevano.

“Il glicine…Il fiore dei re: i suoi rametti presentano tanti fiori, pomposi forse nel loro numero, ma guarda singolarmente quanto sono semplici e perfetti, degni di ammirazione. Indicano la disponibilità, l’amicizia, il desiderio di aiuto.”

Perché lui l’aveva salvata dalle acque che la stavano per sommergere, per spegnere quella fiamma di vita e testardaggine; le aveva dato amicizia; le aveva dato il modo per chiarirsi con sé stessa; le aveva dato tempo.
Lei, stupidamente, aveva tanto tempo, ma non tutti l’avevano.

“il girasole…Segue il sole con costanza e forza, non se ne allontana mai: è il simbolo di chi è allegro per natura, ma anche chi conserva intatto l’orgoglio di ciò che è, nonostante le avversità e l’ambiente ostile.”

Buffo, l’aveva dato alla volpe della Luna; eppure condividevano la medesima allegria, il medesimo orgoglio per ciò che erano state e ciò che volevano diventare, a prescindere da tutto. Lei in poco tempo aveva dimostrato tutto questo, al contrario di chi aveva portato i fiori, che era emersa con lentezza in quel mondo nuovo.
Lei, stupidamente, aveva tanto tempo, ma non tutti l’avevano.

“la fresia…Un fiore misterioso, senza storia. Pochi comprendono ciò che cela il suo profumo delicato, il suo colore mutevole e cangiante. Non puoi prevedere la colorazione che avranno i semi di fresia, quando li pianti. E’ il fiore dell’arcano, del mistero, dei sogni premonitori.”

La visionaria…La prima che incontrò. Come lei alla ricerca di qualcosa. Anche lei, con poco tempo, per trovarla.
Lei, stupidamente, aveva tanto tempo, ma non tutti l’avevano.

Aveva tanti altri fiori e ne aveva messi su tante altre tombe; di chi non aveva conosciuto, ma comunque ammirato. Chi aveva guardato con sospetto, eppure, nel tempo, aveva condiviso idee, pensieri, sogni.

“Perché sei scappata via?” chiese l’uomo, con aria di noncuranza; la Rossa gli scoccò un’occhiataccia, ma non disse nulla.
“Oh, andiamo…Tanto glielo avresti chiesto tu.”

La zingara ridacchiò leggermente per quella piccola scenetta. “Avevo altro da fare.”

“Nessuno ti avrebbe detto nulla.” Una cosa così gentile, ovviamente, non la disse l’uomo.

Non rispose: si limitò a inarcare la schiena all’indietro, afferrando la punta del piede destro con il braccio sinistro; ogni volta che era nervosa, aveva bisogno di sgranchire quei muscoli, fin troppo sciolti.
“Anche la mamma ha bisogno di fiori.”

Rimasero in silenzio di nuovo. Un cupo silenzio, pesante come il fango, come sabbie mobili che soffocano e non permettono di chiedere aiuto.

“Lei era d’accordo, davvero; anzi, sembrava contenta di non doversi più occupare di una come me.”

Ancora nessuna risposta.

“Mi fermo.”
“Con noi non stavi ferma?”
“No.”

Volare non voleva dire fermarsi. Volare era la quintessenza del muoversi: non avere terra sotto i piedi, come non ne aveva avuta quando sua madre l’aveva partorita, dandole scioccamente tanto tempo, mentre lei non ne avrebbe mai avuto tanto.
Quando atterrava, poteva pure stare ferma con il corpo, ma la mente vagava, verso la prossima meta, verso il prossimo cumulo di nubi da sondare, verso il limite ancora più alto da superare.
Non era ferma.
Vagava, da sola.
Sì, sola, perché anche la sua compagna voleva stare da sola e allora sole volavano, una separata dall’altra, eppure inestricabilmente unite.
Non c’è cosa più brutta della solitudine condivisa.
La stessa solitudine che avrebbe provato di fronte alle tombe con una persona cara, ugualmente sola come lei; per questo, era scappata.

“Voglio fermarmi e penso che questo sia il momento buono. Voglio tornare da qualche parte e trovare il mio sangue, disposto a scaldarmi; un padre che non riconosco, ma che è mio, che è mio punto fermo. Voglio essere utile, non un palliativo di sofferenze altrui, un oggetto bello da esporre. Non una devota di un ideale astratto, ma un aiuto, a prescindere da quel reale astratto. Anche se è dannoso per qualcuno, ma non per chi me lo chiede. Voglio dirigere i miei sentimenti verso qualcosa di vero e sincero, imperfetto, magari, ma autentico; non un’utopia che non mi vorrà mai abbracciare, ricercata solo per illudersi che tutto il resto è qualcosa da trascurare. Voglio semplicemente abbracciare e camminare al fianco di qualcuno, disposto a costruire per me e lui un piccolo rifugio, una patria che possa essere solo nostra, a prescindere dai diritti di nascita. Voglio creare qualcosa di semplice e bello, che non abbia nulla a che fare con le divinità e che pure è atto divino comunque, che possa scegliere liberamente se fermarsi o camminare, senza rimpianti. Questo vuol dire fermarsi.”

“Sono dei bei propositi.”

Lui sorrise solo: con aria ironica, senza affettazione; compiaciuto e al contempo dubbioso, come se avesse espresso un concetto bellissimo, ma impossibile.
Nessuno più disse nulla.
La danzatrice saltò giù dal muretto, con un lieve balzo, atterrando con leggerezza sui piedi nudi.

“Ho la gola secca per tutte queste chiacchiere…Andiamo a berci qualcosa!” Indicò la locanda dall’altra parte della strada, con aria allegra, prendendo già a correre verso questa, attraversando la strada senza guardare.

Gli altri due la seguirono, tranquillamente, quasi rilassati.

Una carrozza di qualche nobile signore arrivò a gran velocità sulla strada.

“Su, muoversi, che festeggiamo il nostro incontro….”
E il segno finale di quella frase non fu un punto, ma uno schianto secco, di quattro cavalli che, come onde su uno scoglio, investirono in pieno la danzatrice, sbalzandone dapprima via il corpicino, poco distanti da loro, infine calpestandola, con sedici zampe e quattro ruote. I puntini di sospensione delle urla che incorniciarono la scena furono gli scricchiolii delle ossa che si spezzavano, di quelle gambe che avevano ballato, di quelle braccia che volevano abbracciare, di quella schiena che stava ritta ad affrontare il mondo, di quel collo delicato che guardava verso l’alto, mentre il sangue si liberava dalla sua prigionia e danzava nella luce, goccia a goccia, riversandosi poi, a punte ed aste, sul ciglio della strada, come la partitura di una musica.

La musica che suonava nelle sue vene.
Di sangue fieramente impuro,portato avanti come vanto
La musica della vita della zingara ibrido, selvaggia, pagana e straniera.

   
 
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