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Autore: Keiko    03/03/2011    8 recensioni
Il problema è che con uno come Brian ti aspetti sempre di vedere una tizia come Michelle: capelli sempre a posto, abiti appariscenti, trucco pesante e chincaglieria da mercato che ti fa apparire addobbata come un albero di Natale anche il quindici di agosto.
D’altra parte non ti aspetti nemmeno che una come me finisca a letto – nel modo più sbagliato del mondo – con un chitarrista da strapazzo che ha deciso all’età di sedici anni che nella sua vita non avrebbe concluso un cazzo senza i suoi amici.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [05/03/2011]
Disclaimer. Gli Avenged Sevenfold(M. Shadows, Zacky Vengeance, Jimmy "The Rev" Sullivan, Synyster Gates e Johnny Christ), Valary e Michelle DiBenedetto, Gena Pahulus sono persone realmente esistenti. I personaggi originali non sono ovviamente persone realmente esistenti, ma semplice frutto della mia immaginazione. La storia è frutto di una narrazione di PURA FANTASIA che mescola la mia visione di fan a eventi storicamente accaduti e rumors spulciati in rete, destinata al diletto e all'intrattenimento di altri fans. Non si persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene dunque intesa.



A Judy, che mi ha dato un nuovo – bellissimo – motivo per sognare.
Never too late



La gente non ha mai capito che Brian e Synyster Gates sono due esseri a sé stanti, ben divisi in quell’anfratto scuro che è l’animo di un ragazzo da sempre contorto, e non le due facce della stessa medaglia.
Brian si è creato un alter ego, una maschera talmente divertente da essere poi difficile da scrollarsi via nei momenti di vita vera, non di quel vortice di emozioni che ti assale quando sei costantemente sotto i riflettori e l’occhio meccanico di telecamere fastidiose.
Nemmeno Michelle ha mai capito Brian o, forse, è sempre stato più semplice ignorare la differenza tra il personaggio e la persona e concedersi il lusso di una mezza via a cui fermarsi e fare capolinea insieme.
Che Brian e Synyster Gates non sono nemmeno la stessa cosa, credo sia stato chiaro a tutti quando è morto Jimmy.
Quando l’ho rivisto, al suo funerale, mi si è aperto un cratere sul cuore come se tutto il passato, il presente e il futuro si fossero dati appuntamento lì sopra per creare una voragine che mi avrebbe inghiottita con la stessa furia con cui si era abbattuto su di me Brian la prima volta che ci siamo conosciuti.
Eravamo solo due ragazzini che frequentavano il liceo, lui troppo strambo e con mille sogni di musica in testa, io con la cieca convinzione che i sogni non potevi inseguirli varcata la soglia delle scuole superiori.
Ero una disillusa, un’adulta imprigionata nel corpo acerbo di un’adolescente che nella vita aveva già deciso cosa fare: la maestra d’asilo.
Con il senno di poi e il trascorrere degli anni, ho compreso di amare i bambini per il modo con il quale osservano il mondo, con sogni troppo grandi come quelli di Brian e una fiducia cieca in una vita fatta di lustrini e felicità.
Mi piace lavorare con loro perché sono tutto ciò che non sono mai stata, mi fanno sentire una divinità in grado di concedergli l’illusione di un Eden in terra e invidio quel loro modo di affrontare ogni caduta con il sorriso.
Sono sempre certi che qualcuno li aiuterà a rialzarsi.
A volte mi rendo conto che sono io a dover imparare da questa collaborazione forzata, e non il contrario, e quando li osservo dormire nella piccola aula A5 dell’asilo privato di Huntigton Beach mi chiedo se mai avrò qualcosa di così tanto mio, un giorno.
E la risposta è un no assoluto, almeno sino a quando non imparerò a essere la donna ufficiale di un uomo normale, non quella che sta dietro alle quinte in attesa di grattare il marcio per far riprendere le redini di un rapporto già naufragato a un idiota qualunque.
Il problema è che con uno come Brian ti aspetti sempre di vedere una tizia come Michelle: capelli sempre a posto, abiti appariscenti, trucco pesante e chincaglieria da mercato che ti fa apparire addobbata come un albero di Natale anche il quindici di agosto.
D’altra parte non ti aspetti nemmeno che una come me finisca a letto – nel modo più sbagliato del mondo – con un chitarrista da strapazzo che ha deciso all’età di sedici anni che nella sua vita non avrebbe concluso un cazzo senza i suoi amici.
Una maestra d’asilo e un musicista californiano.
Una ragazza per bene e uno scapestrato ricoperto di tatuaggi che si trucca come una donna.
Il problema è che la gente ha la tendenza a credere che i californiani siano sempre allegri e dei fancazzisti di prima riga, non comprende mai che anche il giorno più assolato dell’anno produce dei coni d’ombra.
Brian è sempre stato lì, in quelle fessure in cui poteva tranquillamente giocare a uscire e rompere le palle al primo che gli passava davanti oppure rientrare e starsene per i fatti suoi senza essere disturbato.
A lui, quelli che gli stavano addosso, non piacevano proprio.
E’ per quello che è diventato un tutt’uno con un animale selvaggio come Jimmy e che il mondo è diventato un inferno quando se n’è andato.
Da Brian non ti aspetti mai che possa crollare.
D’altra parte non te lo aspetteresti da nessuno di loro, eppure è accaduto, che precipitassero giù in discesa libera, incerti se aggrapparsi al proprio passato o guardare al presente.
Brian, però, ha deciso di fare entrambe le cose: aggrapparsi al passato e cercare di tenere insieme i cocci del suo presente.
 
 
Avevo quindici anni e i ragazzi non mi interessavano particolarmente: erano tutti o troppo stupidi o troppo sicuri di sé e, spesso, le due cose confluivano nello stesso essere insignificante.
Ero nel gruppo delle cheerleader del liceo perché ci ero finita per sbaglio quando la mia vicina di banco, di cui non ricordo il nome, mi aveva supplicata di accompagnarla alle audizioni, trovandomi così nel peggior equivoco della mia esistenza entrando a far parte di quella cerchia di pura apparenza senza desiderarlo minimamente.
Troppo magra e secca per essere notata, troppo semplice per essere cercata, troppo silenziosa per essere presa in considerazione: stavo lì in mezzo a causa di un errore del quale non sapevo capacitarmi e da cui non sapevo come uscire, perché era difficile staccarsi da una cosa che ti dava sicurezza come un gruppo solido di gente che tutti reputavano a posto quando tu – che ci stavi dentro – non avresti desiderato altro che affogarli nell’oceano alla prima occasione utile.
Il fatto è che Brian è arrivato nella mia vita esattamente in quel momento, quando non sapevo come uscire da una cosa talmente stupida in un modo altrettanto semplice, dicendo la verità: che fare la cheerleader mi faceva letteralmente schifo.
“Certo che potresti impegnarti di più, cazzo, sembri una papera.”
C’era questo tizio con i capelli troppo lunghi, il viso tondo e un sorriso da bastardo che mi fissava divertito dall’altro lato della recinzione del campo da rugby, il cappellino da baseball che gli dava un’aria da vero idiota calato in testa.
“Scusa?”
“Si dai, che ci fai con quelle? Si vede lontano un miglio che non c’azzecchi proprio per un cazzo.”
“E tu chi sei, scusa? La personificazione della mia coscienza?”
“Può darsi.”
“Allora fai proprio schifo.”
“Ehi!”
“Fottiti.”
E con quelle parole avevo fatto dietro front e l’avevo lasciato appoggiato alla rete intento ad aspettare non so chi, forse qualche amico o la sua ragazza.
Amico, decisamente era corretta la seconda ipotesi, perché quello era un coglione che nemmeno sapeva cosa fosse una ragazza visto il modo in cui mi aveva appena trattata.
La cosa che mi aveva dato più fastidio era il fatto avesse compreso che lì in mezzo non ero affatto a mio agio, ma credo fosse evidente a chiunque che io – che odiavo anche truccarmi – in mezzo a bionde e more e rosse strizzate in vestiti di pailettes ad ogni festa del sabato sera ero quanto meno fuori luogo.
Ero troppo bambina, immagino, e decisamente meno sognatrice di tutte quelle che aspiravano a sposare il capitano della squadra di rugby, cosa che è riuscita a fare solo la vocalist delle cheerleader grazie a una gravidanza piovuta al momento sbagliato poco prima del diploma.
Quando incontrai per la seconda volta Brian credo fossero passati mesi dalla prima, perché faceva troppo freddo per allenarsi fuori e avevo corso come una pazza per Huntigton Beach gettando nel borsone sciarpa e guanti per il caldo provocato dall’attività fisica, rischiando di trovare il negozio di dischi già chiuso quando l’unico desiderio che mi aveva fatto sopravvivere sino a quel momento era poter fare razzia di buona musica per il week-end.
La fortuna – e la velocità di una pazza – erano riuscite a concedermi uno spiraglio di gioia dopo una settimana infernale.
“Ehi chi si rivede. La papera.”
Avevo alzato lo sguardo dal mio cd sorpresa dall’essere chiamata in causa da una voce sconosciuta ma, soprattutto, per essere stata notata.
“Mi pedini per caso?”
“Veramente dovrebbe essere il contrario. Che ci fai in un posto del genere a quest’ora? Quelle come te non si fermano fuori quando fa buio, a meno che non vadano a qualche festa da fighetti.”
“Prego?”
“Stai con le cheerleader no?”
“E questo cosa c’entra?”
Mi stavo sentendo davvero uno schifo e non perché un perfetto sconosciuto mi stava giudicando dalle apparenze, ma perché io per prima l’avevo etichettato come un bastardo.
Be’, che si chiamava Brian Haner l’avevo scoperto appena ritornata sui miei passi durante il nostro primo incontro, perché qualcuna delle ragazze aveva detto che quello era un poco di buono e se ne stava sempre con Sanders e Sullivan. E Sanders era uno che menava di brutto nel nostro liceo.
Si dice che la prima impressione che ci facciamo di una persona sia quella che conta e forse non è una cosa del tutto sbagliata questa, ma non avevo capito – in quel momento – che l’etichetta di stronzo che gli avevo affibbiato era invece il giocare sporco con me stessa per evitare di fare i conti con la mia banalità.
Trasparenza, sarebbe stato il giudizio sincero di Brian al nostro primo appuntamento ufficiale.
Credo che fu in quel momento – quando non mi fece sentire stupida ma assolutamente normale – che mi innamorai perdutamente di lui.
Non che ci volesse poi molto, nelle mie condizioni, ma eravamo molto più simili di quanto non volessimo far credere l’uno all’altra in quel momento ma questa è una cosa di cui prendemmo coscienza dopo, così oltre che è probabile sia accaduto nel nostro confuso presente.
“Dai, comprati qualche cd di musica del cazzo che ti accompagno a casa.”
“Guarda che a casa so benissimo arrivarci da sola, conosco la strada.”
Lui avevo riso strappandomi con una certa irruenza il cd dalle mani, fissandolo con aria sorpresa.
“Scusa, tu ascolteresti questa roba?”
“Non si addice a una cheerleader per caso?”
“In effetti…”
“Ma tu non sei amico di Sanders?”
“Conosci Matt?”
“Frequenta il mio liceo, lo conoscono tutti per forza.”
“E hai una cotta per lui?”
“No idiota.”
“Ah.”
Sembrava quasi deluso dalla mia affermazione e non mi aveva nemmeno lasciato finire la mia arringa in difesa dell’integrità della mia persona, fatta a pezzi da un’immagine di me che davo al mondo totalmente sbagliata.
E la cosa mi aveva lasciata perplessa perché io volevo essere solo me stessa, non un surrogato di qualche branco di oche starnazzanti in cui non mi rispecchiavo affatto.
Sulla papera, dunque, aveva ragione almeno in parte, dovevo riconoscerglielo.
“Ma che c’entra Matt?”
“C’entra, perché tutti lo considerano un violento e tu cadi nei luoghi comuni proprio come loro. Sei un coglione.”
“Io non ti ho offesa.”
“Lo pensi tu di non avermi offesa.”
“Fanno venticinque dollari.”
Il cassiere ci fissava incuriosito dalla mescolanza stramba di generi adolescenziali a cui appartenevamo, due mondi talmente distanti che se fossero entrati in collisione avrebbero probabilmente causato lo scoppio del Big Bang e l’estinzione subitanea del genere umano.
“Grazie.”
“No senti dico sul serio, ti sei offesa?”
“Mi hai dato della papera, no? E della cheerleader.”
“Ma la sei.”
“Si ma posso non essere come tutte le altre, così come Sanders potrebbe avere le sue buone ragioni per menare il capitano.”
“Lo pensi davvero?”
“Cosa?”
“Che Matt abbia avuto una buona causa?”
“Che cavolo ne so? Io non c’ero, ma potrebbe benissimo essere lui dalla parte della ragione. Perché è stato sospeso non significa che sia per forza quello dalla parte del torto. La giustizia non è infallibile.”
“Sei figa lo sai?”
“Scusa?”
“No cioè, nel senso che si, sei quella che non sembri di essere.”
Era talmente buffo e sincero che non poteva non farti sorridere mentre si calava il cappellino sul viso nonostante fosse già calato il sole da un pezzo.
Per me sembrava solo figo, a dire il vero.
“Guarda che fa buio, perché continui a tenere il cappello? Sei ridicolo.”
“Mi va, quindi lo tengo. E poi piantala con questi cazzo di luoghi comuni! Anzi, facciamo così: quando siamo insieme evitiamoli, che tanto si è già visto che tu li distruggi tutti con tre parole ben assestate, un sorriso e un sacco di sarcasmo.”
Brian in quel momento aveva avuto la linearità genuina del pensiero di Jimmy, quella trasparenza che aveva poi iniziato a perdere negli anni perché crescendo si diventa contorti e si prendono strade strane, per poter diventare adulti.
Lui odiava le cose lineari e semplici che poteva tenere sotto controllo e che risultavano essere una costante nella sua vita: per quello, alla fine, gli sono venuta a noia.
Io non ero adrenalinica, ero una certezza, ero la cosa esatta che si aspettava io fossi nella sua vita.
Non ero una botta di adrenalina come quando avevamo quindici anni, come quando tutto il mondo si rivoltava come una serpe contro di lui e ridendo se ne fregava di chi lo accusava di essere un teppista per avere un braccio tatuato mentre frequentava ancora il liceo.
In quei momenti mi stringeva la mano come a voler dimostrare che anche una testa di cazzo poteva avere accanto una persona del tutto normale ma fuori dall’ordinario perché io, a differenza di tutti gli altri, comprendevo il suo mondo senza per forza riempirmi di piercing e truccarmi come una cretina.
Il fatto è che quando è arrivata davvero la musica ha preso il posto di tutto il resto e non potevo competere con lei perché era un’ossessione costante, un demone che si impossessava di lui costringendolo a suonare o comporre anche nel cuore della notte, quando tutto taceva e la sua testa correva veloce lungo spartiti immaginari.
Non ci avrei nemmeno provato a farlo allontanare dalla musica, per questo è stato naturale lasciarlo andare via.
Io e Brian ci siamo lasciati quando gli Avenged Sevenfold sono diventati un gruppo di adolescenti con una marcia in più rispetto alle decine di band che nascono ogni giorno negli Stati Uniti. Non erano riusciti a spezzarci gli anni del conservatorio e la distanza, ma il suo sogno più grande.
Non gliene ho fatto una colpa, era il corso naturale delle cose, probabilmente, e io ero la prima a non volermi innestare in un sistema da cui ero uscita cinque anni prima, fatto di sola apparenza e privo di sostanza.
Il fatto è che Brian non era un involucro vuoto, era persino troppo ricco, per quello doveva rigettare fuori quello che aveva dentro o sarebbe imploso nel tentativo infantile di inseguire curve su curve di strade che non l’avrebbero portato mai a nulla: quelle dei suoi mille pensieri contorti e dei suoi dubbi strambi.
Era il suo sogno contro un amore adolescenziale, era l’adrenalina di un bagno di folla contro un corpo spigoloso che lo accoglieva la notte, era scegliere tra l’essere uomo o personaggio.
E lui ha scelto Synyster Gates.
 
 
Troppo.
Tutti dicevano che ero troppo per Brian, ma era Brian che era troppo per me.
Quando una persona riesce a farti capire chi sei veramente, a tirare fuori la tua vera natura senza violentarti, allora gli devi tutto ciò che sei.
E’ questo che devo a Brian: la donna che sono oggi.
La nostra separazione è stata un bene per Brian perché non ero io quella che sarebbe riuscita a farlo diventare l’uomo di oggi: il nostro non sarebbe mai stato uno scambio alla pari. Non so come siano nate le cose tra lui e Michelle, ma penso sia stata l’ennesima scelta obbligata di un circolo vizioso di tentativi incerti alla ricerca di una vita normale.
Quando sei sotto i riflettori costantemente ti aggrappi a qualsiasi cosa possa farti credere di avere la situazione sotto controllo: una famiglia che ti aspetta a casa, cuccioli di cane da accudire, la famosa villetta con steccato bianco in periferia – prontamente sostituita da Brian con una villa da megalomane nel cuore della città – e, soprattutto, Huntigton Beach.
Qualsiasi legame con Huntigton sarebbe andato bene, qualsiasi cosa gli potesse ricordare sempre le proprie origini: nella foga della sua euforia, Brian ha sempre avuto la tendenza a rischiare di perdere di vista le cose davvero importanti per questo motivo tutto doveva, prima o poi, ritornare qui.
La gente crede che noi californiani siamo tutti pazzi, surfisti, amanti del sole e bevitori di birra: io mi sono ritrovata a dover combattere questi stereotipi sin dall’odio per la birra a quello per il sole e per l’oceano.
A Brian questa cosa faceva ridere, diceva che ero troppo lontana da Huntigton Beach per essere realmente californiana.
”Magari sei una folletta del nord Europa. Svedese magari.”
“Non sono né bionda né con gli occhi azzurri.”
“Sono solo stereotipi.”
“Anche quello del californiano che beve birra e rutta sulla spiaggia, se per quello, e tu invece ti incastri perfettamente lì sopra come l’ultimo pezzo di un puzzle scontatissimo. Sai, tipo quelli per i bambini, con i pezzi grossi venti centimetri?”
“Dai, hai anche il nome europeo.”
“Guarda che Natalie è un nome americano, anche. E poi non si pronuncia alla francese. Ti diverti, vero?”
“Io?”
Sorriso da angelo e sguardo da diavolo, in una parola: tipicamente Brian.
“Prima o poi ti stancherai di prendermi in giro o continuerai in eterno, Haner?”
“L’eterno contempla che staremo insieme tutta la vita?”, aveva ammiccato lui con la spavalderia di un’adolescenza da ribelle.
“Scordatelo. Piuttosto di sopportarti da qui sino alla mia morte preferisco schiattare ora. Un problema in meno da gestire.”
Non sono mai stata brava a raccontare bugie, per quel motivo mio padre scoprì che uscivo con un poco di buono nell’arco di due mesi e più sperava la cosa finisse e fosse una stupida cotta adolescenziale, più invece il tutto assumeva connotati imprevisti durati cinque anni.
Tutto era iniziato nel modo più stupido del mondo quando mi aveva riaccompagnata a casa quella sera, dopo il tramonto, dal negozio di dischi in centro.
Comunque dicevo: non ero brava a mentire e Brian lo sapeva benissimo, per quel motivo mi aveva osservato attentamente scoppiando a ridere, interrotto solo dalle mie labbra appoggiate sulle sue.
“Almeno la pianti di ridere come un coglione ogni volta che mi prendi in giro.”
Occhi negli occhi, un sorriso che era sbocciato sulle labbra di entrambi per trasformarsi in una risata complice.
“Sei troppo divertente.”
“Sei troppo stupido. Però ti voglio bene Brian.”
Però ti voglio bene.
 
 
Di ricordi di noi ne ho milioni e sono sempre riusciti a stemperare il dolore del distacco. Quando ho lasciato Brian era una giornata di sole tra le più calde, avevamo finito il liceo da un sacco di tempo e gli Avenged Sevenfold avevano appena firmato il loro contratto con la Goodlife Recording.
“Non ho capito il motivo, Nat.”
“Il motivo è che io voglio restare ad Huntigton e tu vuoi girare il mondo e fare la rock star. Non possiamo coesistere nel medesimo istante sotto lo stesso cielo.”
“Tu non vuoi fare la maestra, è una cazzata di quelle che ti sei messa in testa negli anni per illuderti di essere perfettamente aderente al tuo cazzo di mondo.”
“Guarda che c’eri pure tu nel mio mondo, Brian.”
“C’ero?”
“Si, c’eri. Perché non puoi davvero credere di sapere cosa voglio o non voglio fare. Non sono capace di trovare la mia strada come te, okay? Ma forse con gli altri sarò più brava.”
“Quindi vuoi davvero finire l’università?”
“Secondo te?”
“Fa’ quello che vuoi.”
“Certo che faccio quello che voglio, l’hai fatto anche tu. Te ne vai in tour tra un mese, cosa ti aspetti da me? Che resti qui ad attendere il tuo ritorno dal giro del mondo in ottanta giorni? Quella vita non è fatta per quelle come me ma per quelli come te e Zack. Anche uno come Matt è fuori luogo in mezzo a quel casino.”
“Non l’hai mai capita questa cosa della musica, Nat.”
“Io l’ho capita benissimo invece. E’ proprio per questo motivo che ti sto dicendo di andare e non voltarti a guardare Huntigton Beach quando salirai per la prima volta sul tour bus.”
Lui si era portato la mano in tasca tirando fuori un pacchetto di Marlboro e accendendosi una sigaretta, il sole terso d’estate a cui l’autunno stava già dando la caccia che ci sovrastava fastidioso.
“Okay, senti: non mi va di fare la figura dello sfigato, per cui fai davvero quello che vuoi. Ma non tornare sui tuoi passi quando saremo famosi e scaleremo le classifiche, capito? Se esci ora dalla mia vita ci resti anche.”
Che coglione.
L’avevo pensato davvero in quel momento, lui e quell’aria da duro che aveva deciso di sbattersi in faccia per non mostrare agli altri quello che aveva dentro. Ero stata fortunata ad averlo conosciuto per ciò che era in realtà ed era per quel motivo che non potevo fare a meno di sorridere alla me stessa che cinque anni prima si era lasciata fregare da un bacio rubato davanti all’entrata della scuola.
L’ultima parola doveva sempre essere la sua ed è stato così in ogni momento della nostra vita ma non mi ha mai dato fastidio questo comportamento perché sapevo che doveva essere lui il protagonista di ogni discussione per sentirsi quello che aveva la situazione sotto controllo: io ero quella che lo lasciava parlare e scazzarsi con il mondo, quella che alla fine cedeva sempre e gli concedeva la vittoria di ogni battaglia.
Le poche amiche che avevo dicevano che ero vittima della prepotenza di Brian ma le cose non stavano in quei termini: io da Brian apprendevo come mascherarsi dal mondo e crescevo con il nostro diventare adulti insieme. Stando con Brian ho capito che non serve alzare la voce per avere ragione, che occorre credere in ciò che si fa sino all’ultimo alito di vita e che non te ne deve fregare un cazzo di quello che dice il mondo. A me bastava quello che diceva Brian per trovare il coraggio per affrontare ciò che stava fuori e alla fine, anche senza di lui, sono riuscita a camminare da sola ma sono convinta che non ci sarei riuscita senza prima averlo amato con tutta me stessa.
“Spaccherete il mondo, ne sono certa. Buona fortuna Brian.”
Nei film le coppie che si lasciano a quel modo sulla spiaggia finiscono con l’odiarsi e cercare di distruggersi, ma noi avevamo preferito ignorarci nelle rare occasioni future in cui ci era capitato di incontrarci ad Huntigton. Funzionava così nella nostra coppia: eravamo troppo orgogliosi per cedere alle lacrime e alle scene da film romantico, e se anche Hollywood distava poco più di mezz’ora dalla città in cui eravamo cresciuti, non ci eravamo mai lasciati fregare dalla sua atmosfera idilliaca.
A me faceva schifo tutto quello che era finto e anche Synyster Gates lo era.
Negli anni – lentamente – avevo smesso anche di ascoltare la loro musica: vederlo trasformato nell’ombra di sé stesso mi dava la nausea ma io non avevo più voce in capitolo da un pezzo e Brian era ormai abbastanza grande da potersi gettare nella bocca dell’Inferno risalendone senza troppi problemi.
Solo che non c’ero io ad attenderlo a casa quando la sbronza era colossale.
 
 
Quando Brian si è presentato davanti all’asilo ubriaco come quando aveva diciassette anni iniziando a fare un casino pazzesco e spaventando i bambini, qualche giorno dopo il funerale di Jimmy, ho capito che Huntigton non ci avrebbe accolti per sempre perché se noi non potevamo coesistere sotto lo stesso cielo quando avevamo vent’anni, arrivati alla soglia dei trenta non potevamo illuderci ci fosse un posto tanto ampio da poterci contenere entrambi.
“Che diavolo fai, Brian? Spaventi i bambini.”
Avevo cercato di fermarlo mentre barcollava a passi incerti sul prato del cortile, mentre uno dei bambini si era nascosto dietro di me tenendomi la mano.
“E’ tuo?”, e aveva puntato il dito della mano in una direzione imprecisa che doveva però essere la mia. Era davvero solo ubriaco o era anche fatto?
“Brian sto lavorando… ti sembra che possa essere mio figlio?”
“Si, perché te la fai con quel tizio tutto ingellato adesso. Dunque avrai la casetta con la staccionata bianca, un figlio, una famiglia felice… erano tutte le cose che volevi da me, no?”
“Okay, adesso basta.”
Avevo sollevato di peso il bambino tra le braccia per portarlo dentro all’edificio, ma Brian non aveva la minima intenzione di lasciar perdere e sembrava più deciso che mai a colpirmi e trascinarmi nell’abisso con lui.
“Hai paura, Nat? Eh?”
Aveva preso a gridare il mio nome al cielo plumbeo come un pazzo, e riuscivamo a sentirlo anche dall’interno della scuola.
“Natalie fallo smettere, è completamente pazzo. Sta spaventando a morte i bambini.”
Non c’era bisogno di spiegare a Johanna – e a nessuno qui ad Huntigton – chi era Brian e perché fosse ridotto in quello stato. Semmai l’unico interrogativo era perché fosse venuto proprio a cercare me.
“Okay, io esco prima. Metti tu a letto i bambini? Domani sto io tutto il giorno, promesso.”
“Tranquilla e stai attenta. Mi sembra davvero fuori di sé.”
“Se l’è sempre cavata, non è una novità per lui.”
Una sbronza non era nulla, una sbronza con il cuore spezzato invece era semplicemente devastante.
“Si può sapere che cazzo ti prende? Come hai fatto a trovarmi?”
“Sei uscita allora.”
“Va’ all’Inferno Brian.”
“Ci sono già”, aveva biasciato lui barcollando pericolosamente sui propri piedi.
“Dio quanto sei coglione. Non cambi mai, vero?”
Aveva sorriso, mentre gli passavo il braccio attorno al mio collo, cercando di sorreggerlo.
“Dio se pesi. Ma non puoi evitare di fare tutta quella palestra? Ti riporto da Michelle.”
A quelle parole si era arrestato bruscamente rischiando di farci cadere entrambi, cingendomi le spalle in un abbraccio goffo che puzzava di Jack Daniel’s, gli occhi castani arrossati dal pianto e liquidi, dannatamente tristi.
“Ehi… Ti porto da me, okay?”
Non so perché lo feci, ma gli passai una mano sulla nuca come ero solita fare con i bambini per farli addormentare: forse era per quello che avevo deciso di fare la maestra, per sapere come consolare Brian.
“Mi sei mancata, Nat.”
Non gli risposi, limitandomi a scivolare via da quell’abbraccio incerto per portarlo alla sua auto, farlo salire dal lato del passeggero e guidare verso casa mia.
Non sapevo che sarebbe stato l’inizio di un doppio tradimento – triplo, se consideriamo ciò che Brian mi disse quando ci lasciammo – ma avevo l’assoluta certezza che se era tornato da me era per non andarsene mai più.
Quando conosci una persona come Brian tutti gli uomini ti sembrano vuoti e stupidi, è normale e fisiologico immagino.
Si era addormentato sul divano di casa mia stringendomi la mano nella propria e a quel punto ero io che non volevo più lasciarla, come se ritrovarlo mi avesse fatto capire all’improvviso quanto fosse solo e quanto del Brian che avevo amato c’era ancora dietro il Synyster Gates che la stanchezza aveva messo a tacere.
La verità è che non l’avevo mai dimenticato perché era bastato davvero poco per cancellare tutto il mondo che avevo intorno per stargli accanto.
Di Brian ho capito che anche nel sesso uno come lui finisce per metterci qualcosa che somiglia all’amore e che non basta un pugno contro il muro e una nottata passata al pronto soccorso per risolvere i problemi.
E’ stato proprio in quel momento che ho mollato tutto e ho capito che noi due, da soli, non saremmo andati da nessuna parte.
 
 
“Cazzo Nat, cazzo!”
Il pugno si era schiantato contro la parete, a pochi centimetri dal mio viso. Brian non era ubriaco, era solo atterrito e stanco, spaccato in due dal dolore e dai mesi invernali più freddi che avessero colpito Huntington Beach negli ultimi anni, e quel gelo ce lo portavamo tutti dentro.
“Che diavolo ti prende ora?”
“Mi stai dicendo che ti vuoi sposare, Cristo santissimo!”
“Ho una vita Brian. Venire a letto con te non implica che non abbia obblighi verso una persona che mi vuole bene.”
“Sono obblighi, cazzo, non sai ancora scegliere cosa fare della tua vita da sola? E non è amore, Nat. Non lo è.”
“Questo cosa sarebbe invece? Spiegamelo Brian. Venire qui nel cuore della notte e andartene via prima che faccia giorno ti fa credere sia amore? Perché non apri gli occhi e ti rendi conto che stiamo rincorrendo un passato che non esiste? Devi guardare avanti, non puoi fermarti ad aggrapparti a quello che hai lasciato. Non sarà stare con me che riporterà indietro Jimmy.”
“Non nominarlo, Nat. Non osare…”
Aveva puntato l’indice a pochi centimetri dal mio naso, il pugno ancora posato contro il muro e il suo sguardo incatenato al mio.
“Non mi fai paura, Brian. Puoi anche prendermi a schiaffi se ti fa stare meglio ma quello che ti sto dicendo è la verità. Finiamola con questa farsa, torna da Michelle e costruisci una famiglia. La famiglia degli Avenged Sevenfold non potrà mai darti il calore di una cosa totalmente tua.”
“Non me ne faccio un cazzo. Lo vedi come sei, Nat? Non sei mai cambiata. Non hai mai pianto, non hai mai chiesto nulla per te stessa, non hai mai fatto nulla per trattenermi. Sai quanto avrei pagato perché tu mi fermassi, anche solo una volta? Se mi avessi detto di non andare a suonare con gli altri un qualsiasi venerdì sera ti avrei mandata a fanculo, certo, ma avrei avuto la certezza di quello che provavi. Sei sempre stata uno schifo con i sentimenti. Non sai esprimerli.”
“Senti da che pulpito. Cosa dovrei fare ora? Mmh? Spiegamelo, cosa cazzo dovrei fare? Cancellare gli ultimi otto anni della mia vita per te?”
“Fallo. Se hai le palle fallo. Perché non mi chiedi di lasciare Michelle?”
“Sei uno stronzo. Vattene”, e gli avevo indicato la porta di casa guardandolo negli occhi, perché erano l’unica cosa in cui potevo specchiarmi in quel momento per ricordarmi che tipo di persona fossi.
“Non te n’è mai fregato un cazzo, vero?”
“Sei completamente impazzito. Torna a casa tua e restaci, per l’amor di Dio. Esci dalla mi vita, Brian. Non complicare tutto, non rendere anche la mia vita un inferno. E’ scorretto e ingiusto.”
So benissimo perché a quel punto Brian era uscito sbattendo la porta, senza aggiungere altro o voltarsi verso di me: eravamo arrivati ad un punto morto, io e lui, e tutto quello che potevamo fare era precipitare insieme toccando il fondo per ritrovare la spinta per tornare a volare.
Avevo esitato qualche secondo prima di lasciarmi cadere a terra, le gambe nude a contatto con il pavimento gelido e una camicia di Brian malamente indossata prima che se ne andasse di nuovo, e quella volta per sempre.
Era finito tutto quanto nel medesimo istante in cui se n’era andato da casa mia.
Con la testa tra le gambe ho iniziato a piangere come una cretina, come quando l’avevo lasciato otto anni prima sulla spiaggia ed ero riuscita a trovare il coraggio di crollare solo quando ero rientrata a casa, tra le pareti sicure della mia stanza.
La verità è che Brian non sa quanto ho pianto per lui, non l’ha mai saputo e ha ragione quando dice che faccio schifo con i sentimenti: non so né gestirli, né manifestarli al momento giusto.
 
 
“Dillo.”
Quando ho aperto la porta al bussare insistente che arrivava dall’altra parte, alle tre del mattino, al posto di Brian c’era la persona a cui dovevo mille spiegazioni.
“Mark?”
“Aspettavi qualcun altro?”
“No. Ho smesso di aspettare otto anni fa.”
Al capolinea ci saremmo arrivati comunque, noi due, a un passo dall’altare e le partecipazioni di nozze nel primo cassetto del mio comodino da settimane. Non le ho mai spedite perché sono una codarda, ecco perché, ma forse sono solo una persona che non può essere domata né tenuta al guinzaglio.
“Non le hai spedite, vero? Mi hanno detto di Haner, del fatto che è venuto all’asilo un paio di mesi fa completamente fatto… sono degli sbandati Naty, che cosa ci fai con persone come loro?”
“Non giudicare ciò che non conosci, Mark. Tu fai parte di un altro mondo e…”
“Del tuo mondo. Il tuo amore adolescenziale non ti farà sentire meglio, sei una maestra d’asilo che è diventata il passatempo per una rock star del cazzo.”
“Brian prima di essere un musicista è soltanto Brian.”
“Sei una sentimentale.”
“Figurati che lui sostiene il contrario.”
Siamo già vecchi, io e Mark insieme, non riesce nemmeno ad arrabbiarsi sapendo che un altro uomo si porta a letto la sua donna. E’ quello che non funziona: sono io a predominare, Mark è una vittima, è stato solo l’illusione di poter essere serena durante gli anni in cui Brian era lontano e si costruiva una vita che a me non piaceva e a cui avevo persino smesso di interessarmi.
Ma non è felicità questa, non ci passa nemmeno lontanamente vicino a quello che provo quando a bussare alla porta è Brian.
“Davvero sei ancora innamorata di lui dopo otto anni?”
“E’ difficile dimenticare. Il tempo sistema tutto quanto e prima o poi passerà anche Brian, ma di una cosa sono sicura: non posso sposarti.”
“Me l’avresti detto se non fossi arrivato qui nel cuore della notte a chiederti spiegazioni scontate?”
“Si, non so mentire. L’avevi già capito, no?”
“Sei troppo trasparente e forse vai meglio nel mondo del tuo chitarrista tatuato che non conosce regole piuttosto che in quello in cui vivi ora. Non sei capace di abbassare la testa ed essere ipocrita. E’ per questo che mi sono innamorato di te.”
“Mark…”
“Okay, niente drammi da soap opera giusto? Sembro io la donna tra noi due.”
“No, sei quello più innamorato e sincero.”
“Sei davvero sicura?”
“Sicurissima.”
“Lui sta con un’altra. Potrebbe non lasciarla.”
“Non gli ho chiesto di farlo ma mi va bene così. Io non so vivere senza di lui, ho scoperto che ci sono troppe cose che non ci siamo detti e troppe che ci siamo marchiati addosso. Non ti liberi di un profumo che è uguale a quello della tua pelle.”
“Da quanto tempo è che…”
“Sono due settimane che non lo vedo e non lo sento. Non ha senso andare avanti a questo modo. Te l’avrei detto e stavo cercando le parole adatte per farlo, in realtà, ma non mi trovavo niente di delicato e corretto da dirti. Perché semplicemente io ho sbagliato e non ti chiedo di perdonarmi. Io al tuo posto non lo farei..”
“In verità speravo di trovarlo qui stanotte, così, per vederlo di persona e capire che razza di tipo sia questo Brian. Persino a tuo padre piaceva, alla fine.”
“Forse si è già stancato e hai ragione tu, io sono solo un passatempo tra un tour e l’altro.”
“Non ci si stanca di una come te. Dovrò trovare il modo di dire a mia madre che non vuoi più sposarmi, eviterò il ritorno della rock star nella tua vita anche se potrei giocare sul fatto che con uno così non puoi competere, no?”
“Nemmeno Dio potrebbe competere con Brian.”
“Colpito e affondato.”
“Credevo potessi sentirti meno… triste?”
“Be’, almeno posso dire di essere stato sconfitto da dio in carne e ossa.”
“E non uno qualsiasi. Un dio della musica.”
 
 
Due settimane di silenzio e nulla, e ora sono qui davanti al cancello dell’abitazione di Brian e Michelle. Mi sto comportando esattamente come vorrei si comportasse lui se fosse al mio posto – il problema è che crescendo siamo diventati decisamente più simili di quando eravamo adolescenti – e riesco a vederlo, oltre la cancellata, caricare borsoni e cazzate in auto.
Dove sta andando?
“Ehi.”
Alzo la mano nella sua direzione quando casualmente solleva lo sguardo su ciò che lo circonda e mi vede fissarlo come una scema da questa parte del cancello, e credo persino che non mi abbia riconosciuta o faccia finta che sia così, come se fossi una di quelle fans che li aspettano per ore davanti all’uscita secondaria dei locali in cui suonano.
Lo so che è così perché quando sono tornati ad Huntigton a suonare, durante il primo anno degli Avenged Sevenfold, le ho viste restare lì a gridare loro quanto fossero fantastici sino a perdere la voce.
Li ho visti suonare dal vivo una sola volta, comunque, poi ho chiuso tutto quanto in un cassetto o non mi sarei mai più liberata di Brian, anche se come terapia non credo sia stata di grande aiuto. 
Chiude la portiera dell'auto, vi fa un giro attorno e poi si dirige in casa, uscendo dieci minuti dopo lanciandomi un'occhiata fugace.
“Non mi avevi detto di sparire dalla tua vita?”
“Dove stai andando?”
“Ci facciamo un giro in Messico, con gli altri, giusto per cercare di pensare il meno possibile. Tu non dovresti essere all'asilo?”
“La domenica le famiglie si tengono stretti i propri figli. Come ti senti?”
“Secondo te?”
Abbasso lo sguardo mordendomi il labbro inferiore, sospirando rassegnata all’evidenza che questa sarà l’ennesima battaglia da quando ci siamo ritrovati.
“Sei passata solo per chiedermi come stavo? Potevi evitarti la fatica Nat.”
“Davvero credi che non me ne sia mai importato nulla di noi?”
“Non l'ho mai pensato.”
“Ma l'hai detto.”
“Dico sempre un sacco di stronzate, dovresti saperlo.”
“Mi fai entrare un attimo?”
“Devo partire o gli altri mi ammazzano se arrivo in ritardo.”
“Potresti non partire”, gli faccio io sollevando lo sguardo su di lui, tenendo le mani nelle tasche della giacca: non sa che sto torturando la stoffa dell’imbottitura in pile cercando di scaricare la tensione che ho addosso.
“Non ho motivi per restare.”
Esita un istante, poi apre il cancello con il telecomando che tiene in mano iniziando a lanciarlo in aria riprendendolo al volo un secondo più tardi seguendolo con lo sguardo, senza così dovermi affrontare direttamente.
“Tu cosa faresti al mio posto?”
“Non capisco la domanda.”
“Tu molleresti tutto Brian?”
“Ho già mollato tutto.”
“Io non ti restituirò nulla di quello che siamo stati, siamo diversi, abbiamo una vita differente e per te Huntigton è solo un punto di ritorno pieno di certezze e sicurezza. Io non posso cambiare la tua vita e ti giuro su Dio che lo farei se ne avessi il potere. Quando sei arrivato all'asilo hai cancellato otto anni di certezze Brian, e sai perché? Io non ti ho mai lasciato davvero.”
“Me lo ricordo benissimo che mi hai scaricato in spiaggia in piena estate, io. Zacky a spassarsela con le turiste e io a fare il cazzone in giro da solo.”
Non è più arrabbiato e chiuso nel suo mondo dalle pareti di rancore: è curioso di sapere quanto è lontana da questo istante la sua completa vittoria.
“Io sarei stata un problema, e lo sarei anche ora. Mi avevi detto che la porta da cui sono uscita sarebbe stata chiusa per sempre e dopo otto anni l'hai praticamente sfondata a calci per rientrare. A te di quello che vogliono gli altri non te ne fregherà mai nulla, vero?”
“Sinceramente, no.”
“Perché sei venuto a cercare proprio me?”
“Non lo so, è stato normale, istintivo ecco. Stavo da schifo e mi sei venuta in mente tu... boh, l'unica volta in cui mi ero sbronzato allo stesso modo è stato quando mi hai mollato, forse è per quello.”
“Ed è per quel motivo che siamo finiti a letto insieme?”
“E' stato un incidente di percorso.”
“Non mi sposo.”
Lui lascia cadere a terra il telecomando senza riprenderlo dal suo volo nell’aria gelida del primo mattino, fissandomi senza capire.
“Eh?”
“Ho avuto le palle che tu non hai, Brian. Ho mollato tutto.”
“Sbagliato.”
Ammicca concedendomi uno di quei suoi sorrisi bastardi che mille volte mi hanno fatta sorridere quando stavamo insieme e anche ora l’effetto non è cambiato.
“Io le ho eccome.”
Lo guardo sorridendo perché non c’è null’altro da dire quando mi strattona bruscamente per la manica della giacca facendomi sbattere con il viso contro di lui, le sue labbra si posano sulle mie cercandole con un’arrendevolezza che non abbiamo mai avuto.
Crescendo abbiamo smesso di essere solo fiere impossibili da ammansire e poco alla volta ci siamo addomesticati senza nemmeno condividere la stessa gabbia.
Il mondo e Huntigton Beach sono stati troppo piccoli, comunque, per poterci rinchiudere ma a questo punto siamo stati noi a decidere di restare con la catena alla caviglia legati a questo luogo.
Brian è fatto così, Brian, vince sempre ogni battaglia.
“Ehi non devi partire?”
“Gli altri possono aspettare.”
“Sicuro?”
“Il Messico non si sposta e tu rischi di scappare.”
“Secondo me non hai capito quello che ti ho detto, Brian.”
“Sarò coglione allora.”
“Si, lo sei.”
“Non mi chiedi di Michelle?”
“Non mi interessa. Io ho già scelto.”
Gli passo la mano dietro la nuca e mi sollevo in punta di piedi sfiorandogli le labbra con le mie, cingendogli poi il collo con entrambe le braccia mentre lui lascia scivolare le sue attorno alla mia vita, occhi negli occhi che non vogliono perdersi di vista.
A questo punto non mi importa più nulla, di chi ci può vedere, se è tutto sbagliato, se sono solo la sua amante o se tutto finirà non appena Michelle uscirà di casa e ci vedrà nel suo giardino abbracciati come se fosse l’ennesimo addio, aggrappati l’uno all’altra con la disperazione di due condannati a morte.
“Tu non puoi essere la ruota di scorta, Nat. Quando ci sei tu, sei l’unica.”
“Cosa…”
Lo fisso sorpresa, totalmente spiazzata e felice. Mi sembra quasi di poterlo sentire, il cuore che mi esplode nel petto dalla gioia e ho paura di morire qui, davanti a lui, perché una cosa tanto immensa non può essere sopportata da un muscolo così piccolo e fragile, già spaccato in mille pezzi una volta dalla stessa persona che ora lo sta facendo esplodere di emozione e felicità assoluta e inebriante.
Deflagrante come una bomba scagliata su una cittadina di periferia in un sonnolento giorno di arsura estiva.
“Ti amo.”
“Non ricordavo lo sapessi dire così bene.”
“Cazzo Nat.”
“Ti amo Brian, e credo di non avere mai smesso di farlo.”
Gli sfioro il naso con la punta del mio, sorridendo a quello sguardo triste che ancora non si è perso del tutto, che cerca nel suo passato la forza per affrontare il presente.
Le cose possono sempre cambiare: non è mai troppo tardi per farlo.




Note dell'autrice.
Dopo avervi offerto la mia ultima produzione in via direttissima, vi lascio anche il piccolo blend che l'ha ispirata. Era stato infatti creato originariamente per Little Piece of Heaven, prima che Judy cambiasse idea sull'identità di Lily. Quindi, visto che Nina Dobrev mi sembrava adatta per essere utilizzata, ecco qui il volto di Natalie!
   
 
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