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Autore: La Mutaforma    09/03/2011    3 recensioni
“Esistono cose a cui non possiamo assolutamente rinunciare. Per abitudine, per analogia ai nostri giorni precedenti. Per debolezza.
Perché per cambiare e, soprattutto, per accettare il cambiamento, bisogna essere forti. Fare una grande forza su se stessi.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tidus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Esistono cose a cui non possiamo assolutamente rinunciare. Per abitudine, per analogia ai nostri giorni precedenti. Per debolezza.

Perché per cambiare e, soprattutto, per accettare il cambiamento, bisogna essere forti. Fare una grande forza su se stessi.

Lo stesso mondo di Yevon, che accettava liberamente la morte decennale di un uomo, di un invocatore, senza cercare una soluzione radicale alla rinascita di Sin, ne era una conferma.

Anche alcuni sentimenti a volte, pur essendo stati dissipati dal nostro cuore, restano nelle nostre abitudini, come le antiche rivalità che senza un motivo continuano a persistere. Per abitudine. Per analogia. Per debolezza.

Perché l’uomo è abitudinario e debole di natura. Anche lui lo era. Accettava con un sorriso le sue debolezze e non chiedeva di migliorarsi. La natura non si cambia.

La natura, è.

Per abitudine. Per analogia. Per debolezza.

Perché a certi sentimenti, non possiamo proprio dir di no, perché ne sentiamo un vivo, un profondo, grandissimo bisogno. Per abitudine. Per analogia. Per debolezza. Forse necessità…”

 

Per abitudine. Per analogia. Per debolezza. Forse necessità…

 

Tidus si chiese come si fosse sentito suo padre quando arrivò a Zanarkand. Lui si sentiva vuoto. Morto. Anzi no: inesistente.

Aveva sentito il nome della sua città troppo a lungo prima di vedere con i suoi occhi le millenarie rovine della città automatizzata.

La sua città automatizzata.

Si chiese se fosse possibile che lo splendore di una città autonoma, rigogliosa e luminosa come Zanarkand potesse essere così nella realtà. Perché in fondo, era quella la realtà. Una realtà in cui lui non esisteva. Pensò che suo padre doveva essere stato non indifferente alla vista di quella che doveva essere la sua città natale.

Sospirò: era la prima volta che pensava a Jecht senza sentirsi furioso. Oppure irritato. Solitamente il pensiero di suo padre gli dava un brivido di una furia incontrollabile, di rabbia repressa. Sì, repressa, era il termine adatto: perché non aveva mai avuto la possibilità di dirgli quanto lo odiasse. E più ci pensava più sentiva il sangue diventare olio bollente nelle sue vene, sentiva il bisogno di…gridare, come aveva dimostrato anche a Kilika con Yuna.

Si chiese come avesse reagito suo padre alla vista di quelle rovine che per lui erano state simbolo di casa. Un insieme di pietre millenarie era tutto quel che restava di casa loro, almeno nello scorrere parallelo di entrambi i mondi. Non gli era ancora chiara infatti la scissione tra il mondo suo, con la Zanarkand di mille anni prima e il mondo di Yuna, Spira, con le sue rovine.

Con Sin.

Auron gli aveva detto che suo padre era sempre stato pieno di speranze. Non riusciva a figurarselo nel ruolo di guardiano. Non era mai stato una persona responsabile. Forse aveva ragione Auron quando diceva che combinava un sacco di guai. Lo riconosceva di più nel mettere nei guai Braska e Auron.

E poi, incredibilmente, gli sfuggì una risata che echeggiò attraverso le antiche rovine di Zanarkand, che non sembrarono disturbate dalla sua straordinaria allegria. Si sorprese di se stesso, perché non aveva mai avuto una reazione così positiva al pensiero di suo padre, di Jecht. Era confuso. Frastornato. La dichiarazione dell’intercessore in cima al Gagazet lo aveva spiazzato, forse era ancora sotto shock.

Forse.

 

Era rimasto per tutta la notte a fissare il cielo di Zanarkand. In quell’angolo di Spira, il cielo sembrava più tetro così illuminato dalle stelle e dai lunioli che vi abitavano come silenti cittadini di una città fantasma.

Si era nascosto sotto un mucchio di rovine, per stare da solo, per non essere visto in caso fosse scoppiato a piangere.

Approfittando della sua solitudine, trasse dalla tasca dei pantaloni la sfera che aveva reperito nel bosco di Macalania, alla fonte sacra. Se la rigirò tra le mani con aria alquanto pensierosa, chiedendosi se fosse davvero il caso di rivedere la sequenza video registrata da Jecht in quella sfera azzurra. Decise con un silenzio di assenso che sì, era il caso. Il caso di rivederla.

La guardò una volta. Poi un’altra. Poi un’altra ancora. Intanto passavano i minuti, e ad ogni minuto sentiva le sue emozioni ondeggiare, tra l’irritato e il malinconico.

 

“…ah, non sono portato per questo genere di cose…”

 

Forse Jecht non era il solo. Forse aveva ereditato proprio da lui quella sua maledetta incapacità di esprimersi, di dimostrare i suoi sentimenti.

Si era bloccato nel mezzo del discorso, come se avesse voluto dirglielo, una volta per tutte. E non l’aveva fatto.

 

“…comunque, ho fiducia in te. Sei mio figlio…”

 

Bloccò più volte la sequenza video in quel momento. Riascoltò tante di quelle volte quelle parole che ebbe l’impressione che gliele avesse dette di persona. E più quelle parole gli si conficcavano nell’inconscio, più sentiva gli occhi che gli pungevano, che bruciavano. Sulle prime cercò di convincersi che doveva essergli finita della sabbia negli occhi, ma imbrogliare se stesso non era mai stata una sua abilità, anche perché di sabbia a Zanarkand non ve n’era un solo granello.

Le sue scusanti traballavano.

Piangere non era un atteggiamento nuovo della sua personalità: era sempre stato un po’ bambino, un po’ piagnucolone, per così dire. Ma non aveva mai e mai pianto di malinconia per lui.

Per suo padre.

Piangendo e riascoltando mentalmente quelle parole, guardò con gli occhi pieni di lacrime la Zanarkand che li aveva visti padre e figlio, che li aveva visti combattere su fronti opposti.

Non era la stessa, ma non aveva granché di importanza.

Avrebbe preferito che nella sfera Jecht lo avesse criticato. Così anche lui gli avrebbe lanciato qualche insulto che suo padre non avrebbe mai sentito e le cose sarebbero rimaste così com’erano.

La sorpresa era che le parole, gli scongiuri di sua madre…fossero veri.

Ricordava di quando lei gli ripeteva che tutto era nell’incapacità di esprimere i suoi sentimenti. Era solo un bambino: e aveva ancora molti dubbi riguardo all’esistenza materiale di amore paterno da parte di Jecht.

Nella mente dei bambini esistono quelli che Tidus chiamava “i fronti opposti”. L’esercito bianco e l’esercito nero, come in una partita a dama.

Gli amici erano pedine bianche;

La mamma era una pedina bianca;

Jecht era una pedina nera.

Entrando in contatto con Spira, con il mondo di Yevon, aveva compreso che i fronti in battaglia sono tantissimi, molteplici, e mai dello stesso colore.

Nemici che diventano alleati, come nel caso dei ribelli Albhed.

Alleati che si trasformano in nemici, come nel caso di Seymour e tutto il clero. Purtroppo, era l’umanità stessa la piaga di Spira. E Sin non era il suo unico nemico. Più procedeva con il pellegrinaggio, più scopriva che i nemici erano di più, che si moltiplicavano, riempiendo quello spazio rimasto vuoto dopo la scomparsa della sua unica pedina nera.

 

Si asciugò gli occhi con il dorso della mano, pensando a quanto suo padre avesse ragione sul suo conto. Quasi ebbe il desiderio di sentire la sua voce mentre lo rimproverava, lo prendeva in giro.

Il suo sguardo si estese su tutta Zanarkand, avvolta dalle tenebre notturne. I suoi occhi azzurri brillarono sotto la luce fosforescente dei lunioli e sul viso di Tidus comparve una nota di malinconia.

Rivangando la sua infanzia a colpi di pala, si sentì stupidamente distratto e insignificante. Provò una buffa tristezza per suo padre: dopotutto, erano così simili che non erano mai riusciti ad andare d’accordo. Ognuno di loro due era in perenne lotta con se stesso per dimostrare qualcosa all’altro.

Jecht aveva provato, seppur inutilmente, a dimostrargli che nutriva per lui una profonda fiducia.

Tidus aveva cercato da quando era piccolo di confessargli quanto lo odiasse. E la sua era rimasta una battaglia aperta. Forse vinta, ma non conclusa. Ma l’avrebbe conclusa. Oh, certo che l’avrebbe conclusa.

 

In certe occasioni, non si può chiedere semplicemente perdono: una sola parola non può cancellare anni di ostilità, non può certo spazzare via le ultime ragnatele di odio nel proprio cuore.

Sarebbe stato sciocco, oltre ad essere poco virile.

Sentiva che Jecht meritava di sapere quello che lui aveva pensato di lui per anni e anni, prima e dopo la sua fantomatica scomparsa.

Doveva dirglielo. Doveva dirgli che lo odiava. Se lo meritava. E non era più per cattiveria, ma per rispetto nei suoi confronti. Meritava di sapere la verità, per quanto sgradevole fosse quest’ultima.

Meritava di sapere che lo odiava. Lo odiava per averlo ridicolizzato quando era piccolo. Lo odiava per essere sparito senza dire nulla. Lo odiava ancora di più per quello che era successo a sua madre.

Ma, più di tutte, lo odiava perché si era sbagliato su ogni cosa. Sui sentimenti che entrambi provavano nei confronti dell’altro, sull’odio che provava ancora per lui, anche se era un odio umano, sfumato, non più ramificato e conciso come lo era un tempo.

Ed era un dilemma. Quell’odio, gli serviva. Avrebbe dovuto ricercarlo dentro di sé a lungo. Avrebbe dovuto persistere nel sentimento di irritabilità che nel suo cuore si nascondeva tra le ombre della sua infanzia. La sfera di Jecht era solo una finestra aperta a metà: l’odio aveva tutte le possibilità di fare la sua tana negli angoli della sua storia. Quando gli sarebbe stato più utile, avrebbe afferrato a due mani quell’odio misterioso e lo avrebbe usato per combattere contro di lui.

Perché lo scontro, lo sapeva, era inevitabile.

 

Il primo raggio dell’alba richiamò al viaggio il gruppo di guardiani. E Tidus era ancora lì, sulla collinetta di rovine, con la sua spada azzurra tra le mani, alta e così retta verticalmente tra le sue mani, diretta verso l’est, riflettendo sulla sua lama azzurrognola il primo raggio del sole albeggiante. L’espressione così corrucciata dipinta sul suo volto era sinistramente spiegata dai cocchi azzurri di vetro ai suoi piedi: i resti di una sfera video.

–“Ti odio, papà. È per sempre, anche se poi tutto questo finirà…”–

Si voltò, cingendo la spada al fianco, come se avesse solo voluto catturare un raggio di sole con la sua arma. Si allontanò in silenzio, con gli occhi chiusi e una lacrima asciutta su una guancia.

Suo padre lo aspettava lì, alla fine del suo viaggio.

 

 

 

 

 

 

Nota dell’Autrice:

Dedicato a tutti i figli che come me hanno sempre avuto un rapporto un po’ burrascoso con il padre, in particolare a Daniela, a Jenny e Tonino.

La finalità della storia non è di parlare dell’odio di Tidus nei confronti di suo padre, ma di dire come certe cose possano restare nel nostro cuore anche dopo essere passate e soprattutto, di descrivere l’incapacità di certa gente di esprimersi.

Perché, sembra strano, ma saper esprimersi a volte è la cosa più importante e difficile di tutte.

 

 

 

   
 
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