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Autore: Mikaeru    12/03/2011    5 recensioni
{vampire!AU} “Non provare a mordermi. Ne abbiamo già abbondantemente parlato, mi sembra. Potresti rispettare la mia opinione, per una diavolo di volta? Non è così difficile.”
“Ma è un’opinione stupida. Se diventassi un vampiro anche tu potremmo stare insieme per sempre, tu non moriresti né invecchieresti mai.”
“In quanto opinione può essere stupida quanto vuoi, ma è mia. Non ho intenzione di diventare come te.”
“Lo dici come se fosse una cosa brutta.”
“Sherlock, finiamola qua, okay? Tu stai lontano dal mio collo e io continuerò a fare il tuo pazientissimo tutore. Ora siediti sul water o non riesco ad asciugarti bene i capelli. Dobbiamo uscire presto, Lestrade ha bisogno di te. Un giorno spero imparerai a rispondere al telefono, è fastidioso doverti pure fare da segretaria.”
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Messo in allarme da tutto il tempo che ci stava mettendo, scese le scale di fretta per vedere cosa stava combinando. Lo trovò esattamente come immaginava, chino sul cadavere del povero malcapitato, a cibarsene senza rispetto alcuno.
“Smettila di fare il bambino.”
John, appoggiato allo stipite della porta, teneva le braccia incrociate e lo sguardo mai fermo in un unico punto; nonostante il tempo passato, non era comunque facile vederlo (o sentire, perché se non voleva vederlo ci pensava l’udito a fornirgli le immagini di quello spettacolo abominevole) banchettare con degli esseri umani.
“Il bambino? Non sto assolutamente facendo il bambino, John.”, replicò Sherlock offeso, coi canini luccicanti di sangue e le pupille ridotte a spilli ardenti. Riusciva ancora a fargli paura, ogni tanto.
John sbuffò; per un attimo gli occhi gli caddero sulla vittima, ancora capace di sentire dolore – sapeva riconoscere, ormai, quando Sherlock aveva la pietà di ucciderli del tutto o meno – e decise che non era necessario che andasse oltre. Si avvicinò rapidamente e lo prese per un braccio, trascinandolo via dallo stanzino insonorizzato sottostante al loro appartamento, quello che aveva dovuto spacciare per il nuovo laboratorio di Holmes, tanto per evitare che la signora Hudson o chi per lei ficcasse il naso, pena una sfuriata di Sherlock, una di quelle calamità naturali di cui il mondo solitamente fa volentieri a meno.
Avrebbe dovuto pulire lui, l’indomani, come al solito. Sbuffò ancora, facendolo salire a forza su per le scale, cercando di impedire che decidesse di non dargli retta all’ultimo.
“Giochi con loro e li fai soffrire, sai che non dovresti farlo.”
“Non stavo giocando, stavo finendo la mia cena.”
Quanta voglia di spaccargli quella detestabile espressione di sufficienza che gli si apriva in faccia quando sembrava che dovesse rispondere ad un deficiente. Almeno gli occhi erano tornati normali e non rischiava più la vita.
“Sherlock, non credere di potermi imbrogliare. Anche se non ti guardo, le sento le loro urla e i rumori che fai mentre li scortichi. So benissimo quando sei sazio. Dio, guarda come ti sei sporcato ovunque! Un giorno la mia pazienza finirà e ti troverai un altro che ti copra le spalle quando decidi cosa prendere dal menu.”
John rabbrividì, sentendosi per l’ennesima volta allo stesso livello di Sherlock a definire mero cibo le intere comunità di senzatetto che prima Holmes nutriva, vestiva, lavava, di cui alla fine esauriva completamente il sangue appena fossero ritornati ad uno stato decente e, quando aveva la luna particolarmente buona – ossia aveva fame, e da un certo punto di vista per John era una notizia abbastanza positiva – si nutriva delle loro carni, sfigurandone i corpi quando ancora il cuore pulsava, caldo. Si divertiva, diceva lui, ed era fondamentale che si divertisse – nessuno avrebbe mai voluto avere niente a che fare con un vampiro annoiato, ribadiva, e John non poteva che dargli ragione. Avrebbe preferito che, almeno, evitasse di lacerarne i cadaveri, che li uccidesse e poi si comportasse in maniera decente. Ma la decenza e Sherlock Holmes non stavano sullo stesso pianeta da tempi immemori.
“Mi basterà lavare i vestiti e me.”      
Roteò gli occhi mentre apriva la porta del bagno e lo faceva entrare. “Mi diverte sempre il tuo tono di parlare, come se riuscissi a fare una sola di queste cose da solo.”, sibilò contrariato mentre gli slacciava la camicia, entrambi dritti in piedi davanti alla vasca che si stava riempiendo, spandendo per la stanza un leggerissimo vapore tiepido.
“Le so fare, ma non è divertente come quando le fai tu.”, sogghignò Sherlock guardandolo buttare con un gesto stanco, ma ancora vagamente, testardamente irritato, la camicia nel cesto dei panni sporchi. Faceva uno strano contrasto con quelle sporche solo per l’uso.
“Per riuscire difatti intendevo che ti passasse la dipendenza da sfruttamento della mia persona.”, sbuffò levandogli pantaloni e boxer. “Infilati nella vasca, muoviti.”
Sherlock ubbidì, sempre mantenendo il suo sorriso sottile. Distese le gambe e appoggiò le braccia ai lati della vasca, attendendo.
“… cosa c’è?”
Si sdraiò sulla pancia, appoggiando le braccia incrociate sul bordo della vasca, mettendovi sopra la testa. Sembrava vagamente contrariato dall’attesa, dall’ottusità di John che non comprendeva qualcosa di così semplice e basilare.
“Mi lavi i capelli?”
“Assolutamente no, Sherlock, mi sembra che tu sia abbastanza grande per farlo da solo.”
“Ma lo hai detto tu che non so fare queste cose da solo.”
“Sì, ma io—”
“Accontentami per una volta.”, insistette, prendendo lo shampoo e porgendoglielo. John lo prese, in realtà già arreso alla prima domanda.
“… per una volta, eh? Mi offendi. Io ti accontento sempre.”
“Non è vero, posso anche dirti quando non lo fai. Lo sai che memoria ho. Ad esempio, due mesi e tre giorni fa, alle undici e venti…”
“Oh, sì, sì, stai zitto e girati.”
Ubbidì, soddisfatto di se stesso. Chiuse gli occhi quando sentì le dita dell’altro grattargli la testa, sbuffando.
“Hai macchie ovunque, sembra tu ci abbia fatto il bagno, nel sangue.”
“Smetti di brontolare.”
John non ribatté ma gli sciacquò i capelli con l’acqua gelata.
Al secondo shampoo ubbidì e tacque e cominciò a rilassarsi a sua volta; in fondo c’era qualcosa di bello in quella tranquillità, in quei minimi e rari sprazzi di normalità. Sciacquò ancora e gli mise il balsamo, lasciandolo agire per qualche attimo per prendere accappatoio e asciugamano per la testa. Tornando a prestargli attenzione, lo trovò fuori dalla vasca, che gocciolava per terra. John sospirò di nuovo.
“L’acqua stava diventando gelata.”, si giustificò Sherlock. Avrebbe voluto dirgli che poteva aspettare dieci secondi che non sarebbe cambiato nulla, ma anche così non sarebbe cambiato nulla.
“Ti sei sciacquato i capelli?”
“Certo.”
“Ti sei lavato?”
“Certo, è ovvio.”
“Mi dimentico sempre della tua velocità. Vieni qui, che prendi un raffreddore.”
Sherlock si limitò a fare un mezzo giro su se stesso per farsi infilare l’accappatoio.
“Sai che non posso prenderlo.”
“Mi viene d’abitudine preoccuparmi.”
Si voltò sorridendogli. “Grazie per la tua inutile e vana preoccupazione.”
“Dio, saresti quasi parso gentile. Abbassati.”
Ubbidendogli per farsi mettere l’asciugamano in testa, Sherlock si ritrovò con le labbra vicinissima al suo collo. Gli scoccò un’occhiata rapidissima di cui John non diede a vedere di essersi accorto e spalancò la bocca, ma a quel punto John gli pestò un piede, non con troppa forza perché aveva ancora le scarpe, ma fu abbastanza perché Sherlock si lamentasse. John replicò che era quello che si meritava, e che era stato fin troppo gentile.
“Non provare a mordermi.”, gli ordinò duramente, tirando il viso per un ricciolo il più vicino possibile a sé, “Ne abbiamo già abbondantemente parlato, mi sembra. Potresti rispettare la mia opinione, per una diavolo di volta? Non è così difficile.”
“Ma è un’opinione stupida. Se diventassi un vampiro anche tu potremmo stare insieme per sempre, tu non moriresti né invecchieresti mai.”
“In quanto opinione può essere stupida quanto vuoi, ma è mia. Non ho intenzione di diventare come te.”
“Lo dici come se fosse una cosa brutta.”
“Sherlock, finiamola qua, okay? Tu stai lontano dal mio collo e io continuerò a fare il tuo pazientissimo tutore. Ci tengo alla mia vita così com’è, e l’idea di invecchiare non turba tutti così tanto come credi, sai? Io ne sono abbastanza contento, non vedo l’ora che i figli di mia sorella diventino abbastanza grandi per comprarmi una casa in cui sedermi sulla mia bella sedia a dondolo a vedere telefilm orrendi. Ora siediti sul water o non riesco ad asciugarti bene i capelli. Dobbiamo uscire presto, Lestrade ha bisogno di te. Un giorno spero imparerai a rispondere al telefono, è fastidioso doverti pure fare da segretaria.”
Sherlock lo guardò storto, arricciando le labbra e assottigliando gli occhi da gatto.
“Non mi va di uscire.”
“Invece lo farai, hai bisogno di farlo, non ti fai vedere da un mese oramai, non mi importa se non ti va. Se dovessimo sempre stare dietro ai tuoi capricci…”
“Smettila di parlare come se avessi cinque anni, mi irrita.”
“A me irritano moltissime cose che tu non smetti di fare, quindi siamo pari.”
“Non lo siamo assolutamente, io non ti tratto da moccioso.”
“Vogliamo ricordare chi si è appena fatto lavare i capelli da un altro uomo, eh?”
Borbottò, e John sorrise, strigliandogli i capelli senza particolare delicatezza, orgoglioso della propria vittoria.

Lestrade guardava impaziente e vagamente irritato la lancetta dei secondi muoversi e ticchettava con le dita sul vetro quando, per l’arrivo improvviso di Sherlock, perse circa tre anni di vita. Sotto la luce fioca che penetrava nel vicolo sembrava ancora più… finto. Anche la condensa del suo respiro lo sembrava, come fosse di una plastica sottilissima capace di creare arabeschi nell’atmosfera. O vetro, forse.
Dietro di lui, il dottor Watson sembrava oltremodo divertito dall’espressione di terrore che doveva aver avuto in faccia. Uno più simpatico dell’altro, non c’era che dire.
“Ti spiacerebbe avvisare, ogni tanto, e smetterla di sbucarmi alle spalle? Soprattutto non di notte e non in un quartiere del genere. Avrei potuto spararti.”
“Non è divertente. E lo sai che non avresti ottenuto nulla.”
“Non è divertente neppure cercare di farmi morire d’infarto.”
“Sì, quello lo è, invece.”
Lestrade, sofferente, si limitò ad inspirare a pieni polmoni sperando che nell’aria ci fosse una qualche traccia di spirito santo che lo avrebbe aiutato a sopportare quel bambino di un metro e ottanta e passa.
“Perché sono stato chiamato?”
“Sospettiamo che il nostro Jack lo Squartatore colpisca qua. Te ne ho parlato, no?”
“Sì, e ho fatto qualche ricerca per conto mio.”
“Bene, ottimo. Ha ucciso tre prostitute a pochi giorni di distanza, considerando i –”
“Lo so, non c’è bisogno di ripetermelo.”
“… considerando i posti dove ha colpito questo dovrebbe essere il prossimo. Questo non lo sapevi.”
“E se non lo è?”
“Se non lo è sto rischiando di morire assiderato per nulla, Sherlock.”
“Non ho comunque capito io a che servo.”
“Devi prenderlo. Abbiamo già tentato di farlo noi, ma è troppo veloce, suppongo sia uno come te.”
“Vampiro. È facile, Lestrade. Sono un vampiro.”
“Sì, sì, quello che diavolo sei.”, tagliò corto Lestrade infastidito. “Tieniti pronto, dovrebbe arrivare tra poco.”
“… quella è Donovan?”
“Sì, è lei sotto copertura.”
“Sta malissimo.”
“Anche tu staresti male vestito da puttana!”
“Non quanto lei.”
“Ottimo, la prossima volta facciamo la prova. Se oggi ci sfugge, la prossima volta fai tu finta di battere, così sei contento. Anche la prostituzione maschile ha il suo discreto pubblico.”
“D’accordo.”
“Finché stai zitto sei anche accettabile.”
“Non sono solo –”
“Sherlock, faresti il piacere di stare zitto, adesso?”, lo ammonì John alzando la voce appena più di loro; fino a quel momento si era goduto i loro battibecchi, contento che per una volta non ci fosse lui in mezzo.
“Guarda che è lui che—”
“Non mi interessa, taci.”
“Non ne ho—”
“Sherlock, John, tacete entrambi, ho sentito un rumore.”
Quello che Lestrade aveva definito semplicemente un rumore, Sherlock riuscì ad isolarlo completamente per capire che erano passi di uomo, che aveva urtato una lattina camminando: alto un metro e ottanta, peso ottantacinque chili, quarantacinque di scarpe, sarebbe parso un qualsiasi cliente in cerca della propria notte a pagamento se non fosse stato per il battito accelerato del cuore e per il fatto che un passo pesava più dell’altro; probabilmente in tasca aveva una pistola, o un coltello. Fortunatamente il giorno prima aveva nevicato, cosicché la differenza nel camminare fosse abbastanza palese per lui.
“È a duecento metri da noi e cinquanta da Donovan. Io vado.”
John e Lestrade lo videro sparire come un soffio di vento.
“Mi chiedo ancora come riesci a viverci assieme e chi te lo fa fare di seguirlo sempre.”, sussurrò l’ispettore voltandosi verso John.
“Chissà. Suppongo perché altrimenti senza di me sarebbe perso.”, sospirò alzando le spalle, ma con una nota di superiorità nella voce.

L’assassino aveva bevuto; Sherlock non riusciva a capire cosa e quanto a causa della neve che, maledizione, stava cominciando a cadere di nuovo. Quando Jack lo Squartatore fu troppo vicino a Sally, intervenne calciandolo lontano da lei. La donna, pronta a fare fuoco, fu malamente cacciata dal vampiro che, evidentemente, aveva diverse intenzioni sul carnefice.
“Non puoi fare sempre di testa tua, folle che non sei altro!”
“Oh, certo che posso. Vuoi un mio succhiotto sul collo o mi fai il favore di raggiungere Lestrade, eh?”
Sally, spaventata ma ancor più irritata, dovette ubbidirgli, dirigendosi verso la propria macchina per cambiarsi ed essere utile successivamente.
Sherlock ghignò, leccandosi i canini. “Carne ammorbidita con vino,” disse ghignando all’uomo per terra, finalmente captandone l’odore, “non la mia preferita, ma si può fare. Non sei neppure ubriaco, sei ancora mangiabile.”
Lestrade, in fondo, non aveva dato nessuna indicazione su cosa farne; aveva dato per scontato che glielo offrisse in cambio del lavoro, e per una volta avrebbe potuto mangiare lontano da John che lo rimproverava per i modi. Sperò di riuscire a spillargli anche una cena per John, visto che non era riuscito a mangiare ancora, quella sera. Nel mentre che lo pensava, l’uomo si rialzò e cercò di colpirlo, fallendo miseramente. Sherlock afferrò il braccio e glielo torse dietro la schiena.
“Forse non hai idea di chi io sia.”
L’assassino si limitò a ringhiare in risposta e, all’improvviso, afferrò il pugnale che aveva in tasca e lo conficcò nella coscia di Sherlock, il quale, preso alla sprovvista, lo lasciò andare. Jack saltò sul palazzo di fronte, rivelandosi per quello che era. Gli occhi di Holmes si illuminarono; finalmente qualcuno aveva avuto il buon cuore di spezzare la sua aberrante noia.
“Fantastico!”
Saltò a sua volta sul palazzo dove l’assassino lo aspettava.
“So benissimo chi sei, Sherlock Holmes. Non c’è vampiro o umano o qualsiasi altra creatura a Londra che non ti conosca.”, gli disse col fiatone, evidentemente lo sforzo con alcool in circolo non era dei più semplici.
“Ovviamente.”
Jack si esibì in una serie di mosse che avrebbero potuto ingannare un umano, o un vampiro estremamente sciocco ed inesperto, ma non lui; velocissimo si mosse verso di lui per cercare di colpirlo alla nuca, ma Sherlock lo anticipò nuovamente, così per due volte. Nonostante tutto aveva una capacità di sgusciare via dalla sua presa non da poco. Cominciò a saltare da un palazzo all’altro e Sherlock si lanciò al suo inseguimento col cuore che batteva ad un ritmo forsennato per l’eccitazione.
Dalle urla che udiva sotto di loro, la gente sembrava non essersi ancora abituata a due vampiri che combattono sopra i loro tetti. Se non fosse stato occupato avrebbe urlato loro di smetterla di essere così rumorosi o noiosi e di rinchiudersi in casa se proprio non volevano vedere certi spettacoli. Certo che se ne salvavano davvero pochi di esseri umani.
Dopo essersi largamente allontanato dalla zona iniziale, Jack lo Squartatore tornò sui suoi passi senza che Sherlock se ne rendesse conto; d’improvviso scese in un vicolo, quello che Lestrade e John non avevano abbandonato.
“Imbecilli, cosa diavolo ci fate ancora qui?! Andate via!” ringhiò Sherlock scendendo a sua volta. Cadde davanti a loro, mentre l’altro vampiro rimaneva fermo a cento metri più in là; forse l’alcool aveva fatto effetto ed era troppo intontito per fare qualsiasi altra cosa.
“Aspettavamo un tuo segno, idiota!”, rispose John tirando fuori la pistola, così come Lestrade. Sherlock fece loro segno di mettere vie le armi, con una vena che pulsava ingrossata sul collo. Di nuovo, le pupille sottili come spilli incandescenti.
“È un vampiro, non potete farci niente, andatevene!” urlò ancora, irritato e appena spaventato – John non aveva mai dovuto affrontare un vampiro così da vicino, si era sempre limitato alla teoria, il più delle volte, e quando li aveva vicino Sherlock li sbranava prima che potessero fare alcunché.
Lestrade, odiandosi per essere così poco d’aiuto in certe situazioni – e per la grave mancanza di aver dimenticato la pistola coi proiettili d’argento – dovette ubbidirgli, ma John rimase al suo posto.
“Cosa fai?”
“Non ho preso la pistola ma ho del calmante per vampiri”, gli sussurrò pianissimo, appena dietro le sue spalle, “quello che mi hai dato tu. Lo porto sempre con me nel caso impazzissi. Questo significa che no, non puoi mangiarlo, ordini di Scotland Yard.”
Sherlock ringhiò visibilmente contrariato. “La cena di oggi non mi era piaciuta, volevo rifarmi la bocca.”
“Oh, per l’amor del cielo, signorino.”
Fu, per Sherlock, un errore che lo avrebbe tormentato per sempre: si era distratto e aveva permesso che Jack afferrasse John da dietro con un braccio intorno al collo così forte che Sherlock ebbe paura che volesse rompergli l’osso; lo stringeva così forte a sé da impedire che qualsiasi azione non avesse una ripercussione anche su di lui.
“Naturalmente so chi sei, Sherlock Holmes, e so quanto tu sia naturalmente attirato dal sangue, molto più di noi. È per questo che ho ucciso, per poterti sfidare e uccidere. Hai messo naso in troppe faccende, per i nostri gusti.”
Tirò fuori una pistola con i proiettili d’argento, puntandola in mezzo agli occhi del vampiro; Sherlock e John ne avevano viste troppe per non riconoscerne una. Spalancarono gli occhi per la sorpresa, perché nessuno dei due si sarebbe immaginato un risvolto del genere: ma, fortunatamente per entrambi, John aveva fatto la guerra e Jack lo Squartatore aveva bevuto.
Inspirò profondamente e guardò Sherlock negli occhi, in quale annuì con la testa, impercettibilmente. Lentamente, mentre l’assassino continuava a delirare (“Adesso, adesso ammazzo te e il tuo amichetto, anzi lui lo ammazzo per primo così ti godrai bene lo spettacolo!”), si infilò la mano in tasca e, presa la siringa, la conficcò nella coscia del vampiro, facendolo urlare. Avrebbe mantenuto il suo effetto calmante per un paio d’ore, il tempo necessario per portarlo a Scotland Yard ed interrogarlo in quello stato di semi incoscienza che avrebbe dato tutte le prove necessarie per il suo arresto. Mentre il sorriso ferino di Sherlock si allargava e John si liberava dalla presa, chiedendo a gran voce i meritati riconoscimenti per la sua bravura, Jack ebbe modo, cadendo, di premere comunque il grilletto verso Holmes. Sfortunatamente per lui, era per metà ubriaco e per l’altra metà drogato; sparò ma ottenne solo di colpire il dottor Watson, che si era appena voltato verso di lui, per assicurarsi che fosse realmente svenuto.
Sherlock lo vide cadere, e per un attimo il mondo si spaccò in due.
“JOHN!”
Il suo grido rimbombò per tutta Londra.

Sentì e vide lo sparo al rallentatore, mentre lo trapassava. Non gli passò tutta la vita davanti, ma quella di Sherlock, quella futura, l’eternità che avrebbe passato senza di lui, tutto il male che si sarebbe fatto da solo. Insopportabile.
Non lo avrebbe permesso.

“John, John! Mi senti, John?! LESTRADE, CHIAMA UNA DIAVOLO DI AMBULANZA! John, John, mi senti? Respiri ancora, lo sento! Riesci a dirmi qualcosa? Non preoccuparti, nessuno potrà più farti niente, l’ho ucciso, il bastardo, l’ho ammazzato, adesso arriva l’ambulanza e starai meglio, te lo giuro, John mi senti? Per l’amor del cielo dammi un segno, ti prego John sto morendo dimmi che sei vivo…”

Quando si svegliò, inspirò ed espirò come se fosse uscito da una lunghissima apnea – ma probabilmente, a chi fosse uscito dall’acqua, non avrebbe fatto così male. Si guardò le mani e se ne pizzicò una; era vivo. Come diavolo poteva essere vivo? Sherlock lo aveva morso?
Si portò una mano al collo, preoccupato, ma trovò la pelle come sempre, perfettamente intatta. Aveva rispettato il suo volere. Si alzò la maglia del pigiama e trovò una fasciatura enorme sul petto (per un attimo fu felice di averlo preso lui, quel dannato proiettile, perché lui almeno se l’era cavata, per così dire, con poco, ma per Sherlock non ci sarebbe stata via di scampo) e, abbassandosi a guardare la pancia, vide Sherlock con le braccia incrociate e la testa appoggiata vicino alle sue gambe, addormentato. Alzò gli occhi e vide, sulle mura solitamente bianche, dipingersi i colori del tramonto. Di lì a poco Sherlock si sarebbe svegliato. Guardò meglio e si rese conto di essere in ospedale; attorno a lui nessun letto, nessun paziente. Doveva avergli pagato una camera privata.
Lo osservò dormire: se fosse morto, sarebbe sparito tutto. Se fosse morto lo avrebbe lasciato solo, e Sherlock Holmes, da quando aveva permesso che entrasse nella sua vita, non sarebbe riuscito a proseguire. Non sarebbe più stato capace di vivere una vita vagamente normale, di certo più regolare di quella precedente.
Poteva sacrificare tutto per lui? Era arrivato ad un tale livello, ad una tale profondità di affezione per quell’essere così terribilmente strano? O era solo un servitore, qualcuno alle sue dipendenze, come era arrivato a credere tante volte?
Ripensò a tutte le volte che sarebbe voluto fuggire, a quando aveva scoperto chi era in realtà quell’uomo, a tutti i pericoli che aveva affrontato per lui e con lui, ripensò alla sua vita da un anno a quella parte; ripensò a tutte le volte che avrebbe avuto la possibilità di scappare e non l’aveva fatto, tutte quelle volte in cui Sherlock sembrava sul punto di dirgli che avrebbe fatto meglio ad allontanarsi ma lui lo aveva preceduto promettendogli che non si sarebbe allontanato, tutte le volte che rimanere al suo fianco diventava estremamente più importante di tutto il resto, a quanto lo uccideva la possibilità di prendere una strada diversa. Passò in rassegna tutte le volte in cui si era ritrovato di fronte ad una biforcazione e aveva preso il sentiero meno battuto, quello in cui si allungava l’ombra di Sherlock.
Stava davvero pensando di mandare tutto al diavolo per rimanervi accanto?
Si ributtò sdraiato e il balzo del suo corpo svegliò il coinquilino appena prima del previsto. Sherlock sbadigliò e si stiracchiò.
“Sei-sei sveglio da tanto?”, domandò con la voce incerta del sonno, sbattendo gli occhi più volte.
“No, no, due minuti. Scusa se ti ho svegliato.”
“Mi sarei svegliato comunque.”
“Quanto ho dormito?”
“Tre giorni..”
“Credevo di più…”
Sherlock sospirò profondamente senza rispondere; cercò di abbandonarsi sulla sedia ma era troppo teso per poter stare seduto. Si alzò, tenendo le gambe dritte come pezzi di legno. Muoveva appena le mani dentro le tasche dei pantaloni; lo fissava dondolandosi appena sui talloni.
“Va tutto bene? Ti fa molto male?”
“Beh, sì, non è esattamente come se fossi caduto mentre correvo.”, sorrise appena stancamente, tirandosi su a sedere con grande fatica. “Mi farà male per un bel po’, suppongo. Sarai tu la mia infermiera, questa volta, spero tu sia all’altezza del compito.”
“No, non lo sono, per questo ho assunto un’infermiera professionista. Verrà a casa con noi il giorno stesso in cui ti dimetteranno.”
“Ottimo, perché avevo già paura a mettermi nelle tue mani. Spero sia carina.”
“So solo che ha sessantacinque anni e che è molto brava nel suo mestiere. Non ho fatto in tempo a vederla, ho solo lasciato detto a Mycroft di occuparsene. Volevo stare qui con te.”
“Allora spero si mantenga bene.”
“Magari è un vampiro anche lei.”
“Sì, magari sì…”
Cadde il silenzio. John tormentava l’orlo della coperta e il labbro inferiore, mordicchiandosi pezzi di pelle secca che si staccarono (sanguinarono appena, il vampiro dovette stringere forte i pugni per non fiondarsi su di lui) e Sherlock accese la luce, ora che si era fatto così buio fuori. Non riusciva a rimanere fermo.
“Sei ancora della tua opinione?”, cominciò all’improvviso, rompendo il silenzio come si romperebbe un vetro con un vaso di porcellana, tormentandosi appena le mani, “Che vuoi invecchiare, che vuoi rimanere così, vuoi rimanere un semplice essere umano?”
Non lo aveva mai visto così spaventato e preoccupato.
“Non sono sicuro di nulla.”
Di nuovo un lunghissimo silenzio vuoto.
“Vuoi che ti faccia portare qualcosa dalla signora Hudson? È lunedì, è andata a fare la spesa.”, gli domandò; forse cambiare argomento avrebbe alleggerito l’atmosfera.
“No, Sherlock, non voglio niente. Grazie.”, aggiunse frettolosamente. “Non ti preoccupare.”
“Oddio, come farei a non preoccuparmi? Hai rischiato di morire davvero questa volta, come diavolo faccio –”
“Lo so che rischiavo di morire, io c’ero, sai?”
Sherlock avrebbe potuto dirgli che aveva due possibilità, andarsene o farsi mordere; ma non voleva contemplare la prima, né John voleva pensare alla seconda.
Sentiva la testa andargli a fuoco, sciogliersi velocemente.
“Non voglio diventare un vampiro.”, disse il dottore all’improvviso.
John parlava lento, con gli occhi chiusi, con le mani giunte in grembo. Sherlock gli dava le spalle, tenendo le proprie strette dietro la schiena.
“Lo so.”, rispose gravemente, stringendole appena di più.
“Quando sono tornato dalla guerra credevo che sarei riuscito ad avere una vita normale. Una ragazza. Forse dei bambini. Mi sarebbe piaciuto avere dei bambini. Dei nipoti che mi avrebbero pagato una casetta sul mare e una bella infermiera, con meno di sessantacinque anni. Poi ho incontrato te.”
Nessuna traccia di accusa, di risentimento. Sherlock si voltò appena a guardarlo, con la coda dell’occhio.
“Che mi hai totalmente scombinato ogni piano. E a questo punto è inutile che io provi solo a sperarci, ad avere una vita normale. E anche che è inutile che mi ostini a rimanere qua in queste condizioni.”
Lo aveva pensato molte volte, ma era la prima che lo diceva ad alta voce; era la prima volta che acquistava un significato reale, palpabile, quasi pulsante come un cuore.
“Per la vita che fai sono troppo vulnerabile, ti sarei solo di peso. E andarmene non è un’opzione contemplata, non posso farlo sapendo che vita ti ritroveresti a condurre senza di me. E neppure io riuscirei a fare una vita normale, dopo tutto questo.”
Tirò un lungo sospiro, consapevole a metà di ciò che stava facendo; ma quella era una sensazione tipica da quando viveva al 221b di Baker Street. Sherlock si avvicinò a lui, tornando a sedersi. Avvicinò la sedia facendo strusciare le gambe per terra, e John poteva distintamente vedere la sua gioia all’idea di renderlo come lui, come gli proponeva da un anno a quella parte.
“Visto che era stupida la tua opinione?”, gli disse ghignando, forse ancora più contento di aver avuto ragione per l’ennesima volta.
“Sì, sì, era stupida, ma finché non mi riprendo tieni i tuoi accidenti di denti lontani dal mio collo.”
“Guarirai appena ti mordo.”
John sospirò esasperato, non c’era fine a quanto Sherlock potesse essere insistente e fastidioso.
“Cerca solo di farmi il meno male possibile.”
“Lo sai che non posso, vero? Sono pur sempre denti che ti si infilano nella carne.”
“Lo so, non sono cretino fino a questo punto, ma tu provaci.”
“L’avrei fatto comunque, idiota.”
“Con te è sempre meglio specificare.”
John chiuse gli occhi ancor prima che Sherlock si alzasse dalla sedia: sentì il suo fiato sul collo, il suo respirare divenire più calmo e profondo; lo sentì esitare un attimo, come se per la prima volta in vita sua si stesse facendo un esame di coscienza. Si ritirò appena quando sentì i suoi riccioli sfiorargli la pelle. Strinse più forte le palpebre e ritornò all’origine. L’ultimo sospiro di Sherlock sulla sua pelle fu lungo e sentito. Gli leccò la pelle come per prepararla.
Quando i denti gli spaccarono la pelle – fu in quel momento che capì completamente di essere arrivato al punto finale di non ritorno.

  
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