Bloody moon
Luna. Luna pulsante di vita, luna che illumina i sentieri della notte. Luna che
mi parla, che mi ascolta, che guarda nei più remoti recessi della mia mente.
Luna che mi conosce, unica e sola. Luna che mi accompagna nei miei solitari
viaggi notturni, che mi guida mentre rivelo il mio vero io. Semplicemente lei.
Luna.
La luce della luna era l'unica a rischiarare quella notte. Il cielo nuvoloso
impediva di vedere le stelle, e i rassicuranti lumi dei lampioni erano lontani
miglia. Come un predatore, creatura della notte quale sono, ero nascosto,
silenzioso, ad aspettare. Sapevo che la mia vittima si recava tutte le
settimane, ogni venerdì alla stessa ora, nei pressi del lago. In mezzo alle
sterpaglie consumava i suoi sordidi rapporti con ragazzine – o ragazzini –
minorenni, spesso senza una casa o una famiglia, poi li uccideva, dilaniava i
loro corpi, rendendoli irriconoscibili. Ne aveva già uccisi otto, ed era ora
che questa storia finisse.
In genere agivo quando la vittima era da sola, e non lasciavo nessun testimone.
Ma questa volta avrei fatto un'eccezione: dovevo salvare la creatura innocente
che quel lurido essere aveva portato con sé. Non che mi importasse realmente di
qualcun altro al di fuori del sottoscritto: se avessi avuto una coscienza, o
dei sentimenti, allora forse avrei provato un minimo di empatia per loro. Ma
non essendo umano, non potevo averne. Di sicuro, però, avevo un forte senso
della giustizia, trasmessomi dal mio padre adottivo. Per questo non volevo e
non potevo lasciare che un altro innocente
morisse.
Sentii dei lamenti in lontananza. e mi misi sull'attenti. Era vicino. Ascoltai
con attenzione il rumore di ogni passo, il fruscio dei pantaloni contro i
lunghi steli di erba, il movimento delle foglie e dei rami scansati brutalmente.
Osservai ogni gesto compiuto dall'uomo, che credendosi al sicuro lì, nascosto
dalle tenebre, aveva perso ogni traccia di circospezione, e del ragazzino,
probabilmente sugli undici anni, che si guardava attorno spaurito. Attesi che
si avvicinasse, immobile. Poi, appena fu a meno di dieci metri da me, lanciai
una pietra contro il sottile albero alle sue spalle, che vibrò cogliendolo di
sorpresa.
Si voltò di scatto, con gli occhi sgranati.
«Chi è là?» domandò impaurito. «C'è nessuno? »
Il bambino rimase a fissare il punto contro cui la pietra aveva sbattuto. Poi
venne richiamato all'ordine dall'uomo.
«Tranquillo, è tutto a posto.» Gli sussurrò con tono mellifluo l’uomo,
accarezzandogli la testa.
Scagliai un’altra pietra, che finì poco distante da lì. Poi un’altra ancora.
«Se è uno stupido scherzo, farai meglio a uscir fuori, chiunque tu sia!» Si
alterò.
Lasciò la presa sul bambino, e si guardò intorno. Io mi avvicinai furtivamente.
«Allora? Chi è là?» Continuò a domandare l’uomo, troppo preso a guardare
attorno a sé per notarmi davvero.
Riuscii ad afferrare il bambino, e a coprirgli la bocca. «Shhh… Sta buono.» Gli
sussurrai all’orecchio, e lui annuì.
Se fosse stato poco più grande, o poco più perspicace, non sarebbe stato così
tranquillo in mia presenza. Dopotutto, ero l’unico predatore naturale
dell’uomo. Ma per fortuna era ancora troppo giovane e innocente.
«Ora chiudi gli occhi, ok? Chiudi gli occhi e tappati le orecchie: non ti
accorgerai di nulla finché non ti dirò io di farlo.» Continuai a sussurrare,
usando la persuasione. Annuì di nuovo, e seppi che non
avrebbe disobbedito.
Aspettai che chiudesse gli occhi come gli avevo detto, e che posasse le mani
sulle orecchie, prima di avvicinarmi alla mia preda. Mi passai la lingua sulle
labbra, pregustando il pasto: era un uomo piuttosto in carne, di quelli che non
badavano a spese pur di comprare il cibo più buono. Sarebbe stato sicuramente
delizioso.
Mi alzai in piedi, rendendomi visibile. Ci volle un po’ perché si rendesse
conto della mia presenza. Certo, avrei potuto attaccarlo di spalle: sarebbe
stato tutto più facile. Ma non sarebbe stato piacevole, non mi avrebbe dato quel brivido.
Lo vidi voltarsi, conscio della mia presenza, e sgranare gli occhi – più di
quanto già non lo fossero – come se avesse visto un mostro. Ehi, ero davvero
così brutto?
«Chi… chi sei?» Domandò, balbettando.
Oh, quanto avrei voluto rispondere “il tuo peggiore incubo,” per una volta. Avrebbe fatto
molto film horror di serie B, ma sarebbe stato così cool!
Invece di assecondare le mie smanie di protagonismo – per quanto potesse così
dire un essere intento a succhiare il sangue di qualcun altro fino a farlo
morire – decisi di rispondere semplicemente, come da copione:
«Solo uno di passaggio. Temo di essermi perso, potete gentilmente indicarmi la
strada per il ritorno?»
L’uomo non sembrava convinto. Beh, nemmeno io lo sarei stato, al suo posto, e
questo dimostrava che in fondo ce l’aveva, un cervello.
«No, scusi ma ora ho da fare.» Si guardò intorno, poi si accigliò. «Ehi, Steve,
dove sei? Vieni fuori!»
«Steve? Chi è Steve?»
«Oh. Ehm…» Tergiversò, ed io sorrisi internamente, compiaciuto. Adoravo mettere
le mie vittime un po’ in difficoltà. «Steve è mio figlio.» Mentì. «Stavamo
facendo una scampagnata nel bosco, ma non… dove sarà andato?»
Alzai le spalle. Lui mi ignorò.
«Sa,» dissi, «Venendo qui mi è parso di vedere un bambino correre.» Dissi
innocentemente, facendo finta di non vedere il bambino con gli occhi chiusi e
la mani sulle orecchie accucciato ai miei piedi. Certo che l’erba lì era
davvero alta.
«Davvero?» Si incupì. «Quel marmocchio!» Si guardò ancora intorno. «In che
direzione è andato?»
Con aria innocente, indicai un punto alle sue spalle, di fronte a me. Lì dove
sapevo esserci una costruzione abbandonata, e dove avevo preparato tutto
appositamente per lui.
L’uomo si affrettò nella direzione che gli avevo indicato; quasi non sembrò far
caso al fatto che lo stessi seguendo, rapido e silenzioso.
«Steve! Ehi, piccolo, dove sei finito?» Chiamava a gran voce, mentre camminava.
«Steveee! Su, non aver paura, prometto che non mi arrabbierò perché sei
scappato!»
Già, come no. Sicuramente il piccolo ne sarebbe stato enormemente rassicurato,
se solo avesse potuto sentirlo.
Quasi senza accorgersene, raggiunse il punto da me prestabilito. Vide la
baracca abbandonata, e si fermò. Poi si avvicinò cautamente. Ghignai. Oh sì,
come sono prevedibili gli umani: dagli un fuggitivo, un luogo circondato da
quattro mura, e subito penseranno “Tana per te!” sentendosi grandi cime, senza
rendersi conto di quanto fosse scontato il loro processo mentale. Buon per me.
Le foglie dei rampicanti coprivano gran parte delle pareti, e le finestre erano
coperte da uno spesso strato di sporcizia e polvere. Era praticamente vedere
ciò che vi era all’interno, da fuori – non che una volta entrati la situazione
sarebbe stata automaticamente migliore, questo lo sapevo. Era per questo che
avevo collocato delle candele all’interno della costruzione. Al di là
dell’incredibile effetti scenico che creavano, così commoventemente carico di
inquietudine e di angoscia, c’era davvero bisogno di un po’ di luce là dentro.
L’uomo si avvicinò furtivo, ed altrettanto furtivamente aprì la porta.
“Suvvia, davvero pensi che il moccioso stia lì ad aspettarti mentre entri,
quando è pieno di finestre semiaperte e vetri rotti?” Avrei voluto dirglielo e
ridere della faccia che sicuramente avrebbe fatto, ma mi trattenni,
risparmiando tutta la mia incredibile verve per dopo. L’esuberante Dexter
avrebbe avuto modo di esibirsi a tempo debito, senza alcun dubbio.
Entrò dentro, circospetto, e si fermò. Le luci erano davvero inquietanti come
pensavo… bene. Si guardò intorno, e percepii un brivido lungo la sua schiena.
«Che razza di posto è mai questo?» Domandò, accigliato.
Mi trattenni dall’esibirmi nella mia più folle risata da mostro quale sono, e
gli saltai al collo in un istante. Gli affondai i canini nella carne, lasciai
che il suo sangue mi riempisse la bocca con il suo sapore metallico e intenso. Oh, sì… Dio, bere quel nettare era
meglio del sesso –
o almeno così credevo, non avendo sperimentato il secondo termine di paragone,
dovevo basarmi sulle sensazioni di seconda mano ottenute grazie ai racconti non
richiesti di amici e conoscenti – comunque, per quanto ciucciarsi via il sangue
di qualcuno fosse piacevole, non era quello il momento di ucciderlo. Non
ancora.
Gliene succhiai abbastanza per fargli perdere le forze e far sì che farlo
sottostare al mio volere fosse un giochetto da ragazzini, poi gli dissi, con
una voce carica di persuasione, «Adesso vai a sederti su quella
sedia laggiù.»
Lui non si fece pregare, eseguendo immediatamente ciò che gli era stato
chiesto. Era in mio potere.
Lo legai saldamente alla sedia con del nastro adesivo – so che della corda
sarebbe andata ugualmente bene, ma lo scotch aveva il suo fascino che nessun
altro strumento avrebbe mai potuto imitare, senza contare che comprarlo al
supermercato dava di gran lunga meno nell’occhio che non comprare metri di
cordame – e sistemai le foto dei ragazzini che aveva ucciso. Lui continuava a
guardare nel vuoto, come ipnotizzato. All’inizio mi stupivo sempre di come le
mie vittime andassero in brodo gi giuggiole ogni volta che gli succhiavo il
sangue e cedessero al mio volere come se nulla fosse, ignorando il pericolo.
Era come se gli piacesse. Poi avevo scoperto che effettivamente è questo che fa
il morso dei vampiri – oltre che a nutrirci, ovviamente, – rende le vittime
arrendevoli. Tutto di noi è studiato per confondere il nemico.
Non appena finito di preparare la scena, gli dissi con decisione «Adesso
svegliati!» E lui fece un sobbalzo, come se davvero si fosse svegliato solo ora e
fosse stato addormentato fino a pochi minuti prima.
Si guardò attorno spaesato, con paura crescente.
«Dove sono?» Domandò con un filo di voce.
«Non ha importanza dove sei. Ma conta quello che hai fatto.» Sogghignai.
Lui mi vide, finalmente, e fece un sussulto. La mia faccia alla luce delle
candele doveva essere particolarmente spaventosa, in effetti, come quelle dei
film horror. La parte più infantile di me si fece un applauso mentale per
l’ottima scenografia, mentre il terribile Dexter si avvicinava all’uomo con
passi misurati.
«Che cosa vuoi da me?» Domandò ancora, titubante.
Non risposi, ma mi avvicinai alle foto, che fino a quel momento erano state bellamente
ignorate.
«Riconosci questi volti?» Domandai, indicandone alcune. «Questi sono tutti i
bambini che hai ucciso.»
L’uomo sembrava essere ammutolito. Gli occhi sgranati, il sudore che colava
lungo la fronte. Aspettando una qualunque reazione, girai attorno le foto,
indicando ogni nome con assoluta certezza, ogni età, ogni giorno e luogo di
decesso. Ma lui non fece nulla, non disse nulla.
«Ed ora, è giunto il tempo che tu paghi.» Conclusi semplicemente, prima di
azzannargli nuovamente il collo. Questa volta, lasciando che il suo sangue
scorresse a fiotti nella mia bocca, nutrendomi di lui finché non morì
dissanguato.
Il mio nome è Dexter Morgan, e lavoro per la polizia scientifica di Miami.
Mi occupo di analizzare le macchie di sangue, e modestamente sono piuttosto
bravo nel mio lavoro. Beh, dopotutto, chi meglio di me può comprendere i più
remoti misteri nascosti in quel dolce nettare rosso? Comunque. Era una mattina
piuttosto tranquilla, quella, ed io mi sentivo piuttosto soddisfatto. Cosa
c’era di meglio di un buon pasto serale? E quello della sera prima era stato
davvero eccellente. Succulento e gustoso come mi
aspettavo. Oh, che bella vita che conducevo!
Era questo quello che pensavo, quando Deborah – mia sorella, dipendente della
polizia anche lei – bussò alla mia porta.
«Qual buon vento?» Domandai allegramente.
Lei non sembrava altrettanto allegra, e questo mi sciupò un po’ l’umore.
Pazienza.
«C’è un ragazzino che dice di conoscerti»
Sollevai un sopracciglio. «Sarà Cody o Astor, no?»
«Ehi, guarda che li so i nomi dei figli di Rita. E no, non è nessuno di loro
due.» Ribatté con convinzione.
«Ok.» La assecondai – avevo imparato con il tempo che contraddire Deb non era affatto una buona mossa, quindi cercavo
di farlo il meno possibile – e cercai di far assumere alla mia faccia
un’espressione che fosse il meno perplessa possibile. «Allora, che vuole da me
questo ragazzino?»
«Credo che sia mezzo ubriaco. O si sia fumato qualcosa. In effetti dovei
portarlo alla narcotici, invece che venire davvero qui da te.» Sembrava quasi
parlare a se stessa, più che a me.
«Deb, vuoi spiegarmi?»
«Beh, sostiene che tu sei un eroico vampiro pronto a combattere il male, e che
l’hai salvato.»
Oh. Oh. Merda.
Sfoderai il mio miglior sorriso di circostanza.
«Avrà visto troppi cartoni animati. Però sono curioso di vederlo… portamelo
qui.»
Non feci in tempo a finire la frase, che una testa mora fece capolino da dietro
la porta. Come avevo immaginato, era Steve, il ragazzo che avevo salvato la
sera prima.
Dopo aver seppellito il corpo dell’uomo, avevo ricondotto il ragazzino a casa
sua, lasciandolo davanti la porta, non senza averlo condizionato in modo che
non ricordasse nulla di quanto accaduto. Forse questo voleva dire che stavo
perdendo colpi? Forse anche per un vampiro giunge il momento della vecchiaia?
Oh, quanta crudeltà in tutto ciò…
Ma non potevo passare il mio prezioso tempo ad autocommiserarmi. Dovevo
scoprire che cosa voleva.
«Vieni, entra.» Dissi il più gentilmente possibile.
Lui lo fece, e poi si fermò a fissarmi. Io lo fissai a mia volta.
«Ehm… volete che vi lasci soli?» Domandò Deb, imbarazzata.
“Oh sì, lo vorrei
proprio tanto” pensai.
Ma non sarebbe stata una mossa intelligente, dirglielo. La guardai con un
sorriso angelico. «Non serve. Adesso accompagno questo ragazzino… come hai
detto che ti chiami?» Feci finta di non ricordare.
«Steve.» Rispose lui.
«Steve. Accompagno Steve a casa, e magari gli offro un gelato. Se qualcuno mi
cerca, digli che sarò qui tra una mezz’oretta al massimo.»
«Ok.» Rispose lei, per nulla convinta, ed uscì.
Mi infilai il cappotto, gli occhiali e il cappello. Certo, per quanto mi
conferisse un’indubbia aria di mistero e di fascino, non era un abbigliamento
molto adatto a Miami, e qualcuno a causa di questo pensava che il seducente
Dexter fosse in realtà lo strambo Dexter, cosa che mi infastidiva un po’.
D’altra parte, anche se il sole non era davvero letale per noi vampiri – al
contrario di quello che dicono le leggende sole e aglio sono più un fastidio
che altro, e le croci servono solo alle vittime che vogliano dire le loro
ultime preghiere – causava delle fastidiose escoriazioni sulla nostra pelle, e
un altrettanto intenso e fastidioso bruciore agli occhi. Per fortuna quando
dicevo di essere fotosensibile, la maggior parte della gente invece di
continuare a trattarmi come lo strano essere che ero (e che sembravo),
mi dava una pacca sulla spalla e mi diceva poverino. Che idioti. Buon per me, ovviamente.
«Allora… è così che convinci la gente a fare quello che vuoi? Solo parlandogli?»
Disse Steve, con il tono di chi ha capito tutto della vita.
Io mi accigliai. «Non proprio. Deborah in genere fa quello che le chiedo senza
che ci sia bisogno di metodi coercitivi, sai?»
«Ehm… coerchi – che?»
«Lascia perdere. Comunque, che cosa sei venuto a fare qui?» Domandai mentre
cercavo le chiavi del mio ufficio. Le trovai nella tasca del cappotto.
«Beh, volevo sapere perché mi hai salvato, tanto per cominciare.»
«Mi spiace, ma non
so di cosa tu stia parlando.
Io sono solo un topo da biblioteca, sempre chiuso qui dentro. Non sarei capace di salvare proprio
nessuno.» Gli dissi
cercando di essere convincente, caricando la mia voce di più persuasione che
potevo. Non funzionò granché.
«Non sta funzionando granché.» Mi confermò lui, divertito.
Grazie tante, me ne ero accorto.
Lo condussi fuori, e lui mi seguì fuori dall’edificio, fino in strada.
«Allora, dove abiti?»
«Lo sai già dove abito!» Rispose lui, come se gli avessi chiesto di che colore
è il cielo o se sapeva che la Terra gira attorno al sole. Bah, ragazzini. Il
mio amore per loro stava decisamente diminuendo, in quel momento.
«No che non lo so.»
«E invece sì!»
Sbuffai.
«Facciamo così: intanto andiamo a prendere un gelato. Poi mi dirai dove devo
portarti, e se non lo fai ti lascerò alla stazione di polizia.»
«Ok. Così potrò dire ai poliziotti dov’è il corpo di quel tipo, e che lo hai
ucciso tu.» Disse con aria divertita.
Cercai di convincermi che non costituiva un problema: non aveva prove per
dimostrare che ero davvero stato io. Però avrebbe sollevato un bel polverone,
questo sì. Dannazione.
«Non troverebbero nessun corpo perché non c’è nessun corpo.» Provai.
«E invece c’è, ne sono sicuro. Allora, è lontana questa gelateria?»
Sbuffai, e per un momento desiderai di averlo lasciato lì dov’era e di aver
ammazzato quell’uomo al successivo “incontro galante”. Non dissi nulla per
tutto il resto del tragitto, troppo immerso nei miei pensieri per parlare.
Quando ci trovammo davanti al “Paradiso del Gelato” lasciai che Steve si
prendesse un megacono mille gusti, e ci sedemmo su una panchina.
Stavo ancora pensando a cosa dire, quando il ragazzino iniziò a parlare.
«Voglio essere il tuo aiutante.» Esordì convinto.
Mi voltai di scatto, convinto definitivamente che il moccioso avesse qualche
rotella fuori posto.
«Tu vuoi che
COSA?!»
«Essere il tuo aiutante!» Ripeté. «Come Batman e Robin! Sarebbe fighissimo!»
«Certo, come no. E come faresti ad essermi d’aiuto, tu, ammesso che io davvero
sia quello che tu pensi e che davvero abbia bisogno d’aiuto?»
«Beh, ci ho pensato. A lungo.» Affermò, chiaramente gongolante. «E così non
posso esserti d’aiuto.»
Beh, se non altro era in grado di ragionare.
«Quindi… devi mordermi.» Concluse, pienamente soddisfatto.
…Eh?
Lo guardai spaesato. «Non sono sicuro di aver capito.»
«Devi mordermi. Vampirizzarmi. Rendermi come te.»
«Ehi, io non sono…»
«Lo so, lo so, tu non sei, tu non hai fatto, tu non capisci. Come no.» Sospirò,
ed io strinsi i pugni per la rabbia. «Sei davvero così triste e solo, ad
andartene in giro di notte senza un aiutante… pensi che nessuno possa capirti.
Un po’ come Batman, che se ne va in giro a salvare la gente ma in realtà ha
tanta rabbia dentro. E come Spiderman hai capito che da grandi poteri derivano
grandi responsabilità.» Terminò estasiato
Ora non lo seguivo davvero.
«Non sento nessuna responsabilità perché non ho nessun potere. Mi dispiace, ma
hai sbagliato persona. Ora dimmi dove devo riaccompagnarti.»
«Uffaaa! Ma io voglio combattere il male, come te!»
«Mi dispiace, ma il tono lagnoso non attacca. Andiamo?»
Lui si alzò, sbuffando, mentre finiva il suo gelato. «Ok, per il momento
lascerò perdere. E non lo dirò alla polizia. Ma ti farò cambiare idea!»
«Cero, certo. Come no.» Lo scimmiottai. Cominciavo ad essere davvero irritato.
Lo condussi alla mia macchina.
«Ora dimmi dove abiti.» Domandai perentorio, mentre gli aprivo lo sportello
posteriore.
«La mamma mi fa sempre sedere davanti!» Si lamentò lui.
«Quando sei con la tua mamma fai ciò che vuole la tua mamma. Ora fai ciò che
dico io.»
Mi scansai dall’abitacolo, e gli feci cenno di entrare. Per fortuna non mi fece
altre storie.
Ok, ammetto che avrei dovuto insospettirmi per quell’improvvisa docilità, e
invece stupidamente non lo feci: ero talmente sollevato dal fatto che
finalmente mi stesse dando retta da non pormi nemmeno il problema. E invece
avrei dovuto.
Comunque, arrivare a casa sua fu relativamente facile: già conoscevo la strada,
anche se mi sforzai di fingere che non fosse così. Mica potevo dargliela vinta
tanto facilmente, no?
Spiegare alla madre preoccupata che cosa ci facessi io con suo figlio senza
dover parlare di vampirismo e sanità mentale fu leggermente più difficile, ma
in qualche modo riuscii a cavarmela. Quando lei mi domandò chi fossi
esattamente, sfoggia il mio tesserino – pensando per l’ennesima volta che
davvero, dovrebbero darci un distintivo, sarebbe mille volte più convincente –
e le spiegai che lavoravo per la polizia di Miami, dunque non aveva niente di
cui preoccuparsi. Poi inventai su due piedi una storia in cui suo figlio aveva
visto degli avvenimenti che potevano risultarci utili e che quindi avevo avuto
bisogno di fargli qualche domanda, ma che no, assolutamente non era coinvolto,
per cui non doveva nemmeno pensarci ad assumere un avvocato e non c’era nulla
di cui preoccuparsi. Aggiunsi di tenere d’occhio suo figlio perché il quartiere
non era sicuro finché non avremmo acciuffato quel delinquente che girava
indisturbato. Lei mi ascoltò sempre più convinta delle mie parole, e mi rispose
ringraziandomi e dicendomi che avrebbe fatto qualunque cosa per collaborare.
Perfetto. Un punto per il geniale Dexter.
Così salutai il marmocchio e la madre e ritornai al lavoro con un grosso peso
in meno sullo stomaco.
Deborah non mi chiese nulla, ma mi guardò sospettosa. Non avevo nessuna scusa
pronta da raccontarle e in quel momento non mi sentivo granché creativo, quindi
la evitai con nonchalance.
Cercando di non pensare più al ragazzino, mi rimisi al lavoro.
Era notte inoltrata, e la luna era più piena che mai. Sembrava quasi stare per
esplodere, da quanto era piena. La mia vittima, questa volta, era una donna.
Aveva fatto fuori una ragazza del quartiere, suo marito e l’intera famiglia di
quest’ultimo. Ok, lui l’aveva tradita con una diciottenne, e posso capire il
fastidio. Però non era stato carino da parte della donna mettere in mezzo i
genitori dell’uomo, che avevano l’unica colpa di averlo ospitato quando lei
l’aveva buttato fuori di casa, soprattutto considerando il fatto che neppure
lei era esattamente una santa.
Normalmente avrei lasciato correre, ma avevo fame. Una fame incredibile, che se fossi
stato umano avrei saziato con un cheeseburger, ma non lo ero e quindi dovevo
adattarmi.
Avevo preparato tutto, e mi ero appostato fuori da casa sua.
Aveva una villa isolata, con alte mura poste a protezione. Se anche non mi
fossi premurato di controllare che davvero non ci fosse nessuno nei paraggi
quella sera, non avrei avuto certo problemi con vicini curiosi.
Tesi le orecchie, e cercai di vedere dentro casa. Avere una vista che funziona
anche al buio è davvero di un’indubbia utilità, ma anche con la supervista, le
distanze rimanevano un problema, quindi dovetti avvicinarmi. Sapevo che sarebbe
dovuta uscire a breve con il suo amante, che l’avrebbe attesa in un locale lì
vicino. Ma se tutto fosse andato bene, non ci sarebbe mai arrivata.
La vidi entrare nel salotto già vestita di tutto punto, guardare l’orologio,
prendere la borsa e infilarci dentro delle chiavi. Mancava poco.
Alle mie spalle sentii un fruscio.
Non mi voltai: doveva essere il solito fastidioso gatto randagio.
La donna si infilò delle scarpe con il tacco alto. Mi preparai ad agire.
Alle mie spalle sentii un altro fruscio.
Sperai che quel maledetto animale se ne sarebbe stato buono al suo posto finché
non avessi finito il mio lavoro.
Vidi la donna infilare le chiavi nella toppa, e un ramoscello si spezzò alle mie
spalle. Imprecai a bassa voce.
«Ehi, non si dicono queste parole!» Esclamò a bassissima voce qualcuno alle mie
spalle.
«Non rompere.» Risposi istintivamente, preparandomi all’attacco.
Poi mi resi conto di quello che stava succedendo. Mi si gelò il sangue nelle
vene. Stetti immobile per qualche istante, con gli occhi sgranati, cercando di
convincermi che non fosse davvero così, ma non funzionò molto. Poi girai, e lo
vidi.
Steve.
Maledizione.
Mi sorrise con aria innocente. «Te l’avevo detto che ero bravo, come aiutante!»
Ripeto: maledizione. Che cosa avrei dovuto fare? Nutrirmi davanti a lui era
fuori discussione. Lasciar andare la donna… anche. Avrei potuto bere prima il
sangue del moccioso e poi quello della gentil pulzella… ma il codice di Harry
me lo impediva. Argh!
Optai per la diplomazia.
«Che diavolo ci fai tu qui?»
«Ti ho tenuto d’occhio!» Ribatté lui con aria angelica.
«E venendo qui che cosa speravi di dimostrare?»
«È ovvio, no? Che sono in grado di aiutarti, di fare quello che fai tu!»
Avevo voglia di urlare e di squartarlo in mille modi, ma mi trattenni.
«Tu non sai quello che faccio io.» Esordii apparentemente calmo.
«Sì invece che – »
«NO!» Lo interruppi. «Non lo sai. E comunque, qualunque cosa sia quello che
faccio io… tu
NON – PUOI – FARLA.
Sono stato abbastanza chiaro?»
«Ma io – »
«Ho detto, sono stato chiaro?»
«Io… sì.»
Sembrava triste, e un po’ mi dispiacque. Ma quando vidi la donna uscire e il
ragazzino ancora lì presente ad impedirmi di nutrirmi, tutta la mia compassione
svanì in un istante.
Non potevo riportarlo a casa, non a quell’ora. Così optai per il portarmelo
appresso, sperando che non avrebbe combinato troppi guai.
«Wow, che casa grande che hai!» Esclamò lui entusiasta quando aprì la porta di
ingresso.
«Per mangiarti meglio, piccolo mio.»
«… Cosa?»
«Niente, niente. Allora, tu dormi su quel divano.» Gli spiegai, sperando che
non facesse troppe storie. E infatti.
«Sul divano? Ma come? Non lo sai che l’ospitalità è sacra?»
«Tu non sei un mio ospite. Sei mio prigioniero, e i prigionieri stanno scomodi
e al freddo.»
«Oh. Figo. Non sono mai stato un prigioniero!»
Sbuffai. Quel ragazzino era davvero irritante.
Ma al di là del suo fastidio, c’era un altro problema: che cosa avrei
raccontato alla madre la mattina dopo? E se mi avesse accusato di rapimento? Mi
sorse un dubbio.
«Scusa, ma tu quanti anni hai?» Chiesi.
«Undici e mezzo! Sono grande ormai, e posso seguirti in tutte le tue
avventure!»
Mi portai una mano sulla faccia. Era decisamente sotto la soglia della maggiore
età.
«Solo i marmocchi aggiungono il mezzo anno per sembrare più grandi.» Borbottai,
irritato.
Lui non rispose, troppo intento a sbirciare la casa. Aprì il frigo.
«Che cosa cerchi? Hai fame?»
«No, ero solo curioso di vedere come vive un vampiro. Tu non ce l’hai il true
blood?»
«Il true che?» Domandai, perplesso.
«Ma dai, quella roba che si bevono i vampiri nel telefilm!»
Un telefilm. Perfetto.
«Ehi, ragazzino.»
«Mi chiamo Steve!» Protestò lui.
«Ok, Steve. Guarda che questo non è un telefilm, non è un gioco. E i ragazzini qui possono farsi molto,
molto male. Hai capito?» Cercai di essere convincente.
«Quindi tu mi farai del male?»
«No, non io. Ma c’è un sacco di gente là fuori che te ne farà se non stai
attento.»
«Quindi fuori ci sono altri vampiri come te?»
Eh, bella domanda. Per quel che ne sapevo ero l’unico nei paraggi ad essere
così. Ma la verità era che non ne avevo idea: avevo letto della letteratura
sull’argomento, avevo guardato siti internet, cercato informazioni ovunque.
Tutta la storia pullulava di vampiri, quindi sicuramente ce n’erano stati e ce
n’erano anche allora, e molti. Ma non ero mai riuscito a scovarne alcuno.
Però dirlo al moccioso non era una buona idea: ero abbastanza sicuro che l’idea
di un mondo popolato di vampiri pronto a sbranarlo fosse ben più terrificante
della semplice ammissione del fatto che, per quanto ne sapevo, potevo pure
essere l’unico. Così decisi di bluffare.
«Sì, esatto. Fuori è pieno di vampiri. E sono vampiri malvagi. Molto, molto, molto malvagi!» esclamai, cercando di
essere più convincente possibile. Eppure, Steve non sembrò spaventarsi, anzi:
sembrava decisamente soddisfatto. «Beh, ora che c’è? Che hai da gongolare
tanto?» Domandai, fissando con astio la sua faccia sorridente.
«Lo hai ammesso: sei un vampiro!»
Cambiai colore. Merda. Quel ragazzino era fin troppo sveglio per i miei gusti.
«Ehi, io non ho ammesso proprio nulla!»
«E invece sì! Lo hai ammesso, lo hai ammesso!»
Sbuffai, e cercai aiuto nella mia ineccepibile logica. «Ok, facciamo finta che
io l’abbia ammesso. Ora piantala di fare il moccioso idiota e cerca di
ragionare: se io fossi davvero un vampiro, tu questa notte mi avresti impedito
di nutrirmi, giusto? Quindi sarei terribilmente arrabbiato con te e
terribilmente affamato, e non mi farei problemi a succhiarti tutto il sangue
che hai nelle vene.» Dunque poteva scegliere tra la paura di essere ucciso e
l’abbandonare le sue convinzioni. Sperai vivamente nella seconda.
Il moccioso batté le mani. «Esatto! Ora sarai molto affamato e ti dovrai
nutrire di me… trasformandomi in un supereroe vampiro!»
«Non c’è proprio verso di convincerti del contrario, vero?»
«No.» Rispose semplicemente, con un sorriso a mille denti.
«Ok, domani parliamo con la tua mamma di queste turbe, ok? Intanto vai a
dormire.»
«Devo davvero dormire sul divano?» Piagnucolò.
Tentennai. «Beh… potrei lasciarti il mio letto… se tu mi prometti che lascerai
perdere questa fissazione.» Provai a negoziare.
«Evvai!» Esclamò felice lui. «Dormirò nel letto di uno strafighissimo supereroe
vampiro. Yu-huuu!»
Avrei voluto dire qualcosa per renderlo un po’ meno fomentato, ma ero davvero
stremato e non mi venne in mente nulla. Così mi limitai a portarlo nella mia camera
da letto e a prestargli un pigiama pulito, che ovviamente gli stava enorme.
Poi mi recai sconsolato a dormire sul divano, riflettendo su come le calamità
si abbattessero tutte sul povero Dexter.
La mattina dopo mi rifiutai categoricamente di riportarlo a casa. Lui
piagnucolò, urlò e minacciò di dire a tutti il mio sporco segreto – e forse
avrei dovuto dirgli di farlo, davvero: sarebbe stato divertente vedere un
moccioso dire a tutti che i vampiri esistevano e che lui ne conosceva uno, e
che aveva scoperto che non ce l’avevano davvero il true-coso nel frigo – ma
riuscii a comprarlo con un altro gelato e la promessa che se non avesse fatto
il bravo sarei andato a cercarlo e lo avrei fatto a tanti pezzettini minuscoli.
Dal mio punto di vista era una terribile minaccia, ma sono abbastanza sicuro
che lui l’avesse vista come un premio.
Comunque sia, mi aiutò a liberarmi di lui, per cui qualunque cosa avesse
pensato mi stava bene.
Era circa mezzogiorno quando la vidi di nuovo.
Dopo una mattinata di stancante lavoro da topo di laboratorio, ero abbastanza
affamato. Mangiai per davvero un cheeseburger, sperando che potesse essermi
d’aiuto. Ma non lo fu granché.
Nonostante le credenze popolari, i vampiri non possono nutrirsi per davvero
solo di sangue. Ovviamente il sangue è incomparabile, perché è l’unica cosa in
grado di rimetterci in forze: un panino può mettere a tacere lo stomaco e farci
andare avanti per un po’ in caso di necessità, ma è come se un essere umano a
digiuno da giorni bevesse un bicchiere d’acqua. Praticamente inutile. Inoltre
c’è da mettere in conto il sapore del cibo degli esseri umani:
semplicemente disgustoso. Davvero, è come mangiare escremento di bue. Se c’è
una cosa che la Meyer con i suoi strampalati libri ha azzeccato, è proprio questa:
il cibo umano per noi è come immondizia, e per quanto sia possibile per tutti
mangiare immondizia, non è certo la cosa più auspicabile del mondo.
Così, quando quella donna mi passò davanti, con la sua scia di profumo di
sangue fresco, non potei non notarla. Era la stessa donna che mi era sfuggita
la sera prima, per questo avevo notato subito il suo odore.
La seguii, cercando di capire dove stesse andando. “Fermati, Dexter, è una
follia!” Mi diceva il lato più razionale e “codice di Harry dipendente” di me.
Ma l’altra parte, quella affamata e più istintiva, continuava a ripetere
“Fallo, Dexter, fallo!”
Mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma alla fine la parte più istintiva di me
vinse, ignorando bellamente gli insegnamenti che Harry con tanta costanza mi
aveva impartito. Così non riuscii ad impedirmi di pedinarla, fino ad una
stradina isolata dove probabilmente aveva appuntamento con il suo amante. La
fortuna doveva decisamente girare dalla mia parte, quel giorno. Mi guardai
attorno: non c’era nessuno. Perfetto.
Mi avvicinai cautamente, e le sussurrai «Vieni con me… » con voce intrisa di
fascino.
Come prevedibile, i suoi occhi si fecero vacui, e lei annuì senza proferire
parola, seguendomi. Era fin troppo facile.
La portai ad una stradina senza uscita, traversa del vicolo che aveva
imboccato. E lì, la aggredii.
Le infilai i denti appuntiti nel collo, e succhiai avidamente. Era come
rinascere. Finalmente.
Poi un rumore in lontananza mi fece sobbalzare, e mi resi conto della
situazione in cui mi trovavo. “Maledizione, Dexter, che cosa stai facendo?” Mi
dissi.
Cercai di convincere il suo subconscio del fatto che avesse subito una semplice
aggressione da un animale, e fuggii di soppiatto, mentre un uomo accorreva per
soccorrere la signora.
Quello che era successo mi preoccupò e non poco. Non riuscivo più a controllare
i miei istinti, e questo poteva essere un grosso problema.
Così, quando un paio di giorni dopo un ragazzino mi si parò davanti alla strada
mentre stavo uscendo di casa, ero talmente immerso nei miei pensieri da non
rendermi conto della sua presenza. Sussultai nel rendermi conto della sua
presenza.
«E tu cosa ci fai qui?» Domandai, turbato. Eppure speravo che mi avrebbe
lasciato in pace.
«Devo dirti una cosa beeeeeellissima!» Mi disse Steve, saltellando e agitando
le braccia. Ci mancava solo questa.
«Che cosa è successo?» Chiesi, più per assecondarlo che non per vera curiosità.
Lui saltellò ancora, e se avesse avuto una coda probabilmente avrebbe
cominciato a scodinzolare. «Ne ho trovato un altro. Un altro come te!» Disse
felice.
Credo che la mia mascella abbia toccato il terreno, o quasi. «Tu cosa?»
«Ho trovato un altro come te!» Ripeté, con il tono di chi spiega ad un bambino
di quattro anni quanto fa uno più uno. «Un altro vampiro! Non è bellissimo? Ora
potremo formare una squadra!»
“Ok, calma Dexter. Conta fino a dieci prima di rispondere. Uno, due…”
Non arrivai neppure a tre, prima di esplodere.
Lo presi da parte, e praticamente gli urlai contro, forse, in effetti, il
diplomatico Dexter non fu poi così diplomatico. E pensare che era solo un
umano, la mia preda naturale. Non avrei dovuto preoccuparmi tanto per lui…
«Sei impazzito?!» Sbottai. «Ti sei davvero messo a cercare altri vampiri? Ma ti
rendi conto del pericolo che stai correndo? E se ti uccidesse e ti mangiasse?
Che cosa direbbe tua madre? Ci pensi? Sarebbe distrutta dal dolore!»
Lui sembrò dispiaciuto. «Ma io… pensavo che sarebbe stato bello. Fare assieme
gli eroi e tutto il resto… »
«Ma i vampiri non
sono eroi! Noi siamo
cattivi, e voi siete le nostre prede!»
«Ma tu… tu mi hai salvato…» Protestò debolmente. Dovevo averlo intimorito.
«Sì, perché io ho un codice etico… a differenza dei miei simili. È una storia
lunga, ma ad ogni modo non devi assolutamente pensare che siano tutti come me.»
«Ma lui lo è! È buono e gentile, e mi ha detto che posso essere suo amico. Tu
invece vuoi solo liberarti di me, l’ho capito!» Mi disse, appallottolando un foglio
di carta e lanciandomelo addosso.
Sì, era quello che volevo. Ma perché in quel momento mi faceva così male
sentirmelo sbattere in faccia?
Avrei dovuto fermarlo, e davvero, avrei voluto farlo. Ma per qualche
motivo non ci riuscii, ero pietrificato, come impossibilitato a muovermi.
Che stupido.
Il giorno dopo, una donna entrò nell’ufficio come una furia. La vidi sbraitare
contro Debra, e domandare di me a gran voce. All’inizio pensai di far finta di
niente e di evitare l’uragano, ma poi la riconobbi.
Era la madre di Steve.
Feci un respiro profondo, prima di palesarmi.
«Signora, cercava me?» Domandai, cercando di mantenere un contegno.
«Sì, cercavo proprio te! Figlio di puttana, che fine hai fatto fare a mio
figlio?!»
Ah, com’è ingiusto il mondo. Io avevo cercato in tutti i modi di proteggere il
moccioso da se stesso, e questo era il ringraziamento: ritrovarmi accusato
della sua scomparsa. Ok, un po’ c’entravo: se gli fossi stato più appresso,
forse… ma ehi, mica era compito mio! Certo sarebbe stato difficile far
comprendere alla madre in questione che il povero Dexter non aveva nessuna
colpa in questa storia.
«Non so di cosa stia parlando.» Tentai. «Mi ricordo di suo figlio, era
piuttosto vivace. Forse è semplicemente scappato di casa?»
«No che non è scappato! Continuava a parlare di lei che salvava la gente, e
diceva di volerla aiutare.» Cercò di darsi un contegno e di parlare più
tranquillamente, ma la faccia rigata di lacrime e i continui singhiozzi non le
venivano granché d’aiuto. «La prego, mi dica dov’è mio figlio!»
«Signora… mi dispiace. Io non lo so. Glielo giuro. Non salvo la gente, mi
limito ad analizzare le macchie di sangue.» Tentai di spiegarle, con la faccia
più commiserabile che riuscii a sfoggiare. «Sono certo che tornerà a casa
presto, e che si tratta di una ragazzata. Mi creda, sono tanti i bambini che
oggigiorno fanno sciocchezze come scappare di casa, ma poi tornano. Nel
frattempo, se vuole, possiamo cercarlo assieme.» Mi offrii.
Lei strinse le labbra, e pensai che stesse per tirarmi addosso qualcosa. Per
fortuna, non fu così, e si limitò a rispondere con un semplice «Va bene, faremo
come dice lei.»
Fu difficile spiegare a Deb e agli altri la situazione, e dovetti inventarmi
scuse complicate su come avevo conosciuto il moccioso. Non sono sicuro che mi
cedettero, ma cercare un ragazzino che probabilmente era solo scappato di casa
non rientrava esattamente tra le loro priorità del momento, e così decisero di
aspettare che tornasse, come avevo auspicato.
Solo quando riuscii ad uscire dal lavoro mi ricordai del foglio che Steve mi
aveva lanciato addosso e che io avevo messo in tasca senza riflettere. Lì,
trovai scritto un indirizzo.
Caesar street, 42°
Per fortuna, il nostro sfortunato Dexter non era poi così sfortunato. Mi
precipitai subito nella via indicata, trovando un locale fatiscente. Non avevo
molti indizi per sapere se fosse quello o meno il posto in cui andare, ma i
miei sensi mi indicavano che era quello giusto. Bingo.
Mi avvicinai cautamente, e udii delle risate. Sbirciai da una fessura nel muro,
e vidi Steve legato al muro con una corda lamentarsi e cercare di liberarsi,
inutilmente. Sentii una rabbia crescente farsi strada dentro di me. Non sapevo
se fosse più per il fatto che di quel ragazzino forse un po’ iniziava ad importarmi,
o per il fatto di trovarmi davanti ad un essere come me che non si faceva
scrupoli a torturare esseri umani. E pensare che ero il caso strano: lui
rientrava perfettamente nella norma.
Mi domandai cosa avrei dovuto fare, cosa mi avrebbe detto Harry di fare. Ma
prima di rendermi conto di ciò che accadeva, ero già all’interno.
«Oh, che bello… abbiamo ospiti!» Disse allegramente il mio “collega”.
«Già. Credo che tu abbia preso qualcosa di mio. Restituiscimelo, e saremo a
posto.»
Lui sghignazzò. «Non ci penso nemmeno: ragazzi come questo sono merce rara, al
giorno d’oggi. Possono diventare vampiri stupendi, giovani menti plasmabili da
un master come me… »
Strabuzzai gli occhi. Di che diavolo stava parlando?
«Oh, ma non mi dirai che non te ne sei accorto?» Mi domandò mellifluo, come se
mi avesse letto nel pensiero. «Lui è un ragazzo speciale. Come quelli di cui
parlano le leggende, bambini nati in festività come il Natale, o con i capelli
rossi, o come nel suo caso… la cui madre incinta sia stata visitata da un
vampiro e sia sopravvissuta… » Lo guardò con un misto di fascino e di disprezzo
negli occhi, e non riuscii a capire se davvero lo desiderasse per lui o fosse…
cosa? Invidioso del fatto che fosse un predestinato? Ma poi, esistevano davvero
i predestinati? Era ridicolo. «Sono persone immuni ai nostri poteri, te ne
sarai accorto da solo, immagino.» In effetti, questo era vero. Avevo notato che
il ragazzino non reagiva come doveva alla persuasione nella mia voce, e mi
aveva irritato moltissimo. Ma questo? Essere destinato ad essere un vampiro…
quando poteva avere una vita normale. Ma in fondo, era un po’ la stessa cosa
che era successa a me. Forse eravamo più simili di quanto non credessi.
«Dunque…» Esordii io, senza sapere realmente che cosa dire, «Vuoi
vampirizzarlo? Renderlo come te?»
Per qualche motivo, le mie parole sembravano intrise di paura. Eppure a me non
doveva interessare nulla di altri all’infuori del magnifico Dexter… o no?
Lui rise di gusto. «Oh, no, non ancora. Non è pronto. Ma lo farò crescere bene,
e gli farò seguire le mie orme. Solo quando sarà pronto, solo allora lo renderò
come me.»
Già, come se fosse un grande onore.
«E tu mi sei di impiccio.» Continuò. «Mi dispiace, ma proprio non posso
lasciartelo!»
Non saprei dire cosa accadde in seguito. So solo che sentii una grande forza
provenirmi da dentro, e spingermi a combattere. Come se tutto il mio corpo
fosse teso alla distruzione di quell’essere malvagio ed orribile che mi trovavo
davanti. Sapevo di essere più forte del normale, ma non credevo di essere così forte. Lo scagliai contro il
muro, e lottammo, fino allo stremo delle forza. Sfoderai tutta la mia abilità –
non molta, a dire il vero, in confronto a quello che dava l’idea di essere un
vampiro molto più anziano di me – e lo colpii più e più volte. Mi stupii di
quanta potenza potesse dare la forza della disperazione. “Non mollare Dex”
continuavo a pensare, ma sapevo che era quasi impossibile che rimanessi vivo.
Invece, in qualche modo, ne uscii vincitore.
Non lo uccisi, anche se lo avrebbe meritato. Ma sapevo che Harry non avrebbe
approvato che io facessi fuori un essere che non aveva ancora ucciso nessuno,
sebbene ne avesse le intenzioni.
Ma feci in modo di renderlo inoffensivo, almeno per un po’. Sapevo che noi
vampiri soffriamo particolarmente il contatto con l’aglio per esperienza
diretta, e con l’acqua santa per sentito dire. Ed in macchina avevo entrambe le
cose, nel caso mi fossi davvero imbattuto in un mio simile durante una delle
mie ricerche, cosa che mi affascinava e intimoriva allo stesso tempo. Così lo
circondai di aglio e di acqua santa, intrappolandolo per un po’.
Poi caricai Steve in macchina, e lo riaccompagnai da sua madre.
Le mostrai il bigliettino che mi aveva lanciato il giorno prima, dicendole che
probabilmente voleva essere trovato, che forse aveva bisogno solo di un po’ di
attenzioni. La donna era talmente contenta che non mi fece ulteriori domande –
né notò che me ne andavo in giro a maniche lunghe e coperto come se fossimo in
alta montagna, nonostante il caldo sole primaverile di Miami.
Quando si svegliò, chiesi a sua madre di lasciarci soli, per permettermi di
fargli qualche domanda. Lei acconsentì, e così avrei potuto domandargli ciò che
mi premeva sapere: Steve sapeva qual era il suo destino, o lo sentiva solo
inconsciamente? E chi era quel vampiro? Come aveva fatto a scovarlo? Forse il
suo istinto lo guidava anche in quello?
Quando aprì gli occhi, però, mi guardò confuso, e mi domandò solamente «Chi sei
tu?»
Devo ammettere che restai shockato. Dopo tutto quello che il devoto Dexter
aveva fatto per salvarlo, come poteva quell’ingrato non ricordarsi di me?
Glielo domandai. Beh, non proprio così ovviamente.
«Non ricordi nulla di quello che è accaduto?»
Lui scosse la testa.
Non sapevo se sentirmi triste o sollevato. Dopotutto, non era forse un bene che
avesse rimosso quell’evento traumatico? Forse il suo subconscio aveva
semplicemente deciso che era troppo pericoloso o spaventoso per lui. Oppure,
semplicemente non era ancora giunta l’ora.
Mi sentii un po’ triste per quest’improvvisa perdita di memoria: stavo quasi
cominciando ad abituarmi ad avere quel mocciosetto attorno. Ma forse, era
meglio così.
Un giorno si sarebbe svegliato, svegliato davvero. E sarebbe stato compito mio
occuparmi di lui.
Fino ad allora avrei atteso.
E lo avrei vegliato per assicurami che stesse bene e al sicuro.
Per la prima volta in vita mia, mi sentivo in dovere di proteggere qualcuno che
non fosse un membro della mia famiglia o il semplice innocente da salvare
numero quattromilatrecentosei. E forse era un cambiamento abbastanza
sconvolgente… ma in qualche modo era anche eccitante. E sentivo che era giusto
che fosse così.