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Autore: Eclair    14/03/2011    8 recensioni
L'acerbo quindicenne che si voltava a sorridermi di quel sorriso stupefatto che è durato fin troppo poco sul suo viso, i riccioli scomposti dal vento, mostrandomi nel suo dolce dialetto jonico come le ninfee stessero richiudendosi all'avvento della notte.
A lui stesso ho consacrato quei fiori rossi che dimorano le torbide acque del Nilo, teatro di quella che è stata la sua agonia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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NinfeaRossa

Antinous, vultus pone deum.


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A me pare uguale agli Dei;


Leggevo i dispacci portatimi quel mattino dal corriere di Roma. Al mio fianco e con il capo sulle mie ginocchia giaceva il mio fanciullo, intorpidito sulla sua pelle di leone, una mano a coprire il volto dalla luce dorata del pomeriggio che filtrava da uno spiffero nella tenda di porpora, facendo risplendere i bracciali sul polso tuttavia candido e delicato. Tra una missiva e l'altra, la mia mano gli scivolava sulla nuca, tra i capelli.

Sonnecchiava dopo la battuta di caccia del mattino, a cui gli avevo consentito di accompagnarmi. Non era più tempo di trattarlo da bambino, quando gli impedivo di prendere parte alle imprese particolarmente impegnative, preoccupato per la sua inesperienza. Al divieto la creatura si rattristava, tenendomi il broncio e allontanandosi solitario. Gli bastava un rifiuto, un rimprovero, una malalingua o che qualcuno lo canzonasse per chiudersi in sé stesso, in quel mondo i cui meandri, ahimè, per quanto pensassi di essere il padrone di quell'animo malinconico, mi sarebbero sempre rimasti oscuri.

Nel torpore di quel caldo pomeriggio delle calende di Epiphi, Antinoo andava per i diciassette anni. Avevo già avvertito i cambiamenti di quel corpo, notato la prima chiara peluria sul suo viso. L'avevo visto abbandonare il colore candido dell'infanzia per il miele delle mattine sotto il sole cocente, avevo notato le rotondità infantili tramutarsi nelle solidità scattanti dell'atleta.

Negli ultimi tempi, il suo fare si era arricchito di una certa alterigia che aveva sostituito l'antica acquiescenza, mentre la voce perdeva quella cadenza fanciullesca e si faceva più fonda, acquistava quel tono imperativo nel rivolgersi ai capicaccia e ai battellieri. Iniziava a vestirsi di tuniche di pregio tenui e coperte di ricami, a condividere i miei gusti ed appassionarsi di opere piuttosto lascive ma non per questo meno raffinate; diventava indipendente: a volte ricusava di seguirmi e quando un impegno mi tratteneva in senato aveva imparato a farsi portare nei posti che più lo aggradavano, per tornare puntuale al tramonto.

Notavo che lo sguardo del piccolo selvatico della Bitinia diveniva più maturo e consapevole, i silenzi meno sommessi ma più indifferenti, le labbra si piegavano d'un'amarezza ardente. Non faceva più notare di quanto lo urtassero certe mie asprezze, certe mie diffidenze o esagerazioni di sincerità nei suoi confronti, si limitava a far finta di nulla consapevole che questo mi facesse rendere conto dei miei falli, e non a torto. Il fanciullo mutava in giovane uomo giorno dopo giorno e notte dopo notte, al mio fianco e sotto le mie pupille.

Eppure, all'immagine dell'efebo che riposava si sovrapponeva ancora una volta quella del giovinetto che vidi per la prima volta quella notte tra le sorgenti e i giardini di Nicomedia, dolce e riflessivo che arrossiva nel sentirsi osservato. L'acerbo quindicenne che si voltava a sorridermi di quel sorriso stupefatto che è durato fin troppo poco sul suo viso, i riccioli scomposti dal vento, mostrandomi nel suo dolce dialetto jonico come le ninfee stessero richiudendosi all'avvento della notte.

A lui stesso ho consacrato quei fiori rossi che dimorano le torbide acque del Nilo, teatro di quella che è stata la sua agonia.

Inizialmente, stimavo il fanciullo essere la massima espressione della mia passione per il bello; pensavo che la possessione di una creatura così sublime, fiore dei ginnasii e indomita, soave progenie di quella Grecia che mi estasiava, non fosse poi così dissimile da quella di un vaso prezioso che mi arrivava da Corinto. Fui felice di sbagliarmi.

La sua infinita pazienza e quella sua dolcezza così torva mi conquistarono, la sua compagnia silenziosa divenne a me indispensabile, quel giovinetto si legò alla mia anima come un'edera tenace. Amava della devozione del fedele al suo Dio; non c'era vizio che non mi facesse passare, non c'era delizia che mi risparmiasse: ricordo ancora i suoi occhi gonfi di sonno, quando nel cuore della notte insisteva per finire di leggere i versi che gli avevo chiesto di leggere per me; le sue dolci labbra che si poggiavano sulla mia coppa di vino prima di passarmela, per assicurarsi che fosse buono, le sue mani intente a disporre con zelo le pieghe della mia toga. Dirò, a scapito mio per le chiacchere dei moralisti, che non respinse mai i baci forse fin troppo licenziosi che gli rivolgevo.

Si sa come delle volte la gioia puerile, la gelosia, le dolci lacrime ingiustificate e i piccoli immaturi capricci d' un giovinetto possano tediare: mi capitò di riprenderlo. In quei momenti sollevava quel capo fiero e fissava i suoi occhi atterriti nei miei: ecco che si stagliava la sua selvatichezza. Quel sangue asiatico, acre e misterioso scorreva audace e indomito come i bei cavalli dell'Arcadia dei suoi avi; vani i miei tentativi di domarlo con la forza.

Direi che sono stato padrone assoluto una volta sola, e di un solo essere. Ma in realtà, lui finì per possedere me. Altrimenti, non mi sarei circondato del suo viso in quelle sculture che mi faccio sempre portare ovunque io vada, che non faranno mai giustizia a quella perfezione divina; non sarei su questi lidi adesso, fissando le acque calme e profonde del Nilo dove mi sembrano ancora riflettersi e susseguirsi quelle scene quotidiane.

Queste acque fangose sono quelle dove ho perso l'unico essere mai amato, il mio prediletto, il mio Genio: le acque dove Antinoo è uscito dalla mia vita, silenzioso come vi è entrato. Quel pomeriggio Adriano il dacico, il partico, il germanico, l'Imperatore del Tutto, il Pater Patriae, l'Evergete, l'Olimpico e l'Epifane scomparve: rimase solo quel vecchio singhiozzante, dilaniato dal dolore, il ricciolo reciso tra le dita. Ora che il suo corpo non è più, confinato nella sua tomba da Faraone, non mi rimangono che i ricordi a testimoniare la sua vita.

Quella giovane testa tanto adorata è raffigurata nelle monete, nelle statue dei templi, nelle case, donata ai neonati, inchiodata alle tombe premature. Ormai ognuno crede di conoscere Antinoo, il giovinetto austero e malinconico, il profilo di falco giovinetto ora Ermes delle ombre, ora Bacco dei misteri, altrove principe della giuntura tra i sensi e l'anima, Pan e Aristeo delle api.

Vedo chi mi sta intorno dimenticare lentamente il suo volto da vivo; io stesso a volte mi chiedo se quegli anni non si trattino di sfoghi dell'immaginazione di un vecchio, il Dio che si incarna nei sogni del fedele... Segretamente temo che anche per me sbiadirà il volto che risiede dietro al dio, il fanciullo con i suoi difetti e le sue debolezze, le sue bugie e le sue gelosie, il Bitino che non trovai istruito quasi per nulla e che mai, nonostante quanto si affannasse, riuscì ad imparare il mio latino; la creatura che si ingelosiva della compagnia che trovavo in Lucio e che fingeva di appisolarsi quando si sentiva esclusa dalle conversazioni.

Nell'ansia di perder tutto, aveva trovato un modo per legarmi per sempre a lui; quel fanciullo che tremava appeso al mio braccio durante i sacrifici, che tanto aveva orrore della morte aveva deciso di votarsi a me, a neanche vent'anni. Non sentì che perderlo sarebbe stato per me il dolore peggiore.

Sollevo il capo per scrollarmi il torpore di dosso; l'aurora appare nelle sue sfumature rosate all'orizzonte, riflettendosi sulla superficie del fiume d'Egitto. Mi sembra quasi di esser solo, ma voltandomi scorgo gli sguardi deferenti della mia scorta, a una rispettosa distanza da me, che lungi dal farmi fretta mi ricordavano comunque che era ora di partire da queste terre per sempre; a Roma, infatti, mi aspettava l'importante affare della mia morte.
Spesso il giovinetto, quando mi sentiva lagnarmi a causa di qualche impegno oltremodo indesiderato, mi diceva giocosamente con aria ingenua, fingendosi austero: 
« Non sai forse come bisogna obbedire all'ordine del cielo, Adriano? »

Abbandono la ninfea rossa sulla superficie dell'acqua, increspandola. Il vento freddo del mattino si ingolfa nelle pieghe del mantello, mi sembra di udire la sua risata sommessa. La dolce risata del mio Antinoo.
Adesso, la sua tomba porta incise dai sacerdoti Egizi queste parole: « Ha obbedito all'ordine del cielo. »




«...E l'ombra di Patroclo apparve al fianco di Achille... »






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Ad Antinoo.

  
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