Ad personam Cara
Atlantis Lux, innanzitutto un grande grazie per la tua graditissima
recensione. Qualche parola di presentazione a questo lungo episodio. Come preannunciato, c'è un salto temporale di sei mesi tra il capitolo precedente e questo. Cos'è successo nel frattempo? La situazione a Meridian è stata pilotata per peggiorare sempre più, fino ad arrivare al quadro offerto da questo capitolo, che in una collezione di scenette incentrate su tutte le nostre anti-eroine descrive la situazione un mese prima della svolta programmata da Vera, cioè dopo un anno terrestre di dodici mesi. Il dubbio onore di trarre le conclusioni su come il popolo di Meridian viva tutto ciò spetterà a Caleb e Vathek. Per questo capitolo non ho preparato alcun disegno, nonostante che gli spunti fossero numerosi e tutti splendidi. Ho avuto problemi di tempo, e mi sarebbe dispiaciuto procrastinare di un'altra settimana, visto che mancano più di venti puntate alla conclusione. Forse recupererò i disegni arretrati quando mi deciderò a riprendere in mano la tavoletta grafica. Buona lettura
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PROFEZIE
Riassunto delle puntate
precedenti
Dopo un incontro misterioso con la Luce di Meridian, Vera ha convinto le Gocce a sostituirsi a Elyon a Meridian, impersonando la regina e le guardiane. A Meridian, la controfigura di Elyon e le finte guardiane esiliano Miriadel e Alborn, mentre Caleb sfugge alla cattura; pur avendo assunto il potere, si rendono conto di non essere convincenti, e inventano la storia che le guardiane sono a palazzo per proteggere la Luce di Meridian da un complotto. A Heatherfield, Elyon spiega che quella che si sta realizzando è una sua profezia, che prevede che la tirannia duri un anno, che a Meridian dura diciotto mesi. Elyon è decisa a non tentare niente prima di questa scadenza. Il nuovo piano di Vera prende rapidamente forma, basandosi sull'ambiguità del termine di un anno: prima simuleranno che Elyon diventi sempre più tirannica, screditandola, poi Vera, che ha comunque il rango di una principessa Escanor, la spodesterà dopo un anno terrestre di dodici mesi, facendo finire apparentemente la tirannia e realizzare la profezia; poi, dopo aver guadagnato il consenso della gente, si prepareranno per affrontare Elyon e le Guardiane al loro ritorno dopo diciotto mesi, un anno di Meridian. Vera crea venti copie di Wanda, dette Nemesis, che avranno l'incarico di impersonare le guardiane, sollevando le gocce dal compito, e di sorvegliare la città restando invisibili o sotto falsa identità, o con l'aspetto di aquile. Come dal piano di Vera, le false Guardiane imprigionano Galgheitha e altri personaggi importanti, che potrebbero rendersi conto che la sempre più tirannica Regina e le Guardiane sono state impersonate da controfigure; la principessa Vera fa la parte della buona, facendo fuggire questi prigionieri dalla città. Vera affida a Theresion, che gode della sua massima fiducia ed ha già preso in mano gli incantesimi del sistema d'allarme del palazzo, anche l'incarico di realizzare un sistema di sorveglianza del sotterraneo basato sul contatto mentale con gli insetti che lo popolano, incarico che però le crea una resistenza psicologica dovuta alla sua aracnofobia. Alla fine, Vera è costretta a influenzare Theresion per eliminare la sua aracnofobia, e permetterle di svolgere l'incarico che ha pensato per lei. |
Meridian, cucina del palazzo reale, undicesimo mese
Nella
grande cucina affollata, tra i rumori d'acqua e di stoviglie si fa
strada gradualmente il cigolio ritmico di una ruota difettosa, che
rimarca l'ingresso di un grande carrello colmo degli avanzi della
mensa.
“Uff...
Anche oggi, l'ora del pranzo è finita”, sbuffa la giovane
inserviente che l'ha spinto fin lì.
Il
capocuoco Kurkus si avvicina osservando gli avanzi con occhio
critico. 'Questi potrebbero essere riciclati nel pasticcio di
stasera', sembra dire mentre si passa la grossa mano verdina sul
viso, anche se in realtà non ha aperto bocca.
L'inserviente,
nel frattempo, si è fermata a riprendere fiato accanto alla
finestra, nell'unico punto libero della grande cucina. Dopo lo
sforzo, quest'atmosfera calda, umida e piena di odori la fa sudare.
Si scosta una sottile treccia castana che le è scappata dalla
cuffietta e le penzola davanti al viso azzurrino, poi osserva le
macchie di sugo sulla sua tunica. E' impresentabile, constata; dovrà
andare a cambiarsi prima del turno serale.
Si
appoggia, al davanzale,
stanca; affronterà le sette rampe di scale fino alla sua
cameretta solo dopo aver lavato le pile di piatti che la stanno
aspettando.
Il
suo sguardo distratto vaga oltre la finestra, nel giardino. Lì
fuori c'è la Regina, seduta sull'erba soffice costellata di
fiorellini gialli, intenta a sfogliare un voluminoso tomo nero dalla
copertina rigida ornata di borchie d'ottone. Beata lei, che può
fare tutto quello che vuole...
Inaspettatamente, scorge un essere
androgino emergere con movenze aggraziate dal tronco di un albero
secolare. Ha una liscia pelle verde lucido che ricorda le foglie, e
sarebbe completamente nudo (O nuda? Non le è chiaro) se non
fosse per il lungo mantello di serici capelli fucsia da cui è
avvolto. Possibile che…
La voce del capocuoco la richiama.
“Odiris, hai ancora da lavare qualche stoviglia”, le dice
ironico, indicandole le incombenti pile di piatti e posate che
l'aspettano sul bancone.
“Ma… Maestro, guardate... Non vi
sembra un mormorante, quello laggiù con la Regina?”.
A quell'annuncio, un coro di
esclamazioni soffocate si leva da tutta la cucina. I mormoranti, di nuovo??! Gli
odiosi esseri artificiali di cui il tiranno Phobos si circondava per
evitare ogni contatto con il popolo di Meridian?
Kurkus cerca di soffocare il suo
turbamento, e fa un gesto di fermarsi ad alcune sguattere che
accennavano a venire a guardare. “Tornate ai vostri posti! E Tu, Odiris, non… non…
non sei qui per lavorare, ma per… Voglio dire: non sei qui per
chiacchierare, ma per lavorare!”, e conclude indicandole
platealmente le pile di stoviglie.
Mentre Odiris gli obbedisce di
malavoglia e raggiunge a testa bassa il suo patibolo di zuppiere, il
cuoco non può fare a meno di sbirciare furtivo dalla finestra
sul cortile.
Folgori di Imdahl, è vero!-
deve ammettere tra i denti -
Un mormorante con Sua Altezza!?!
Quando vede la Regina volgere lo
sguardo nella sua direzione, si ritira spaventato, pregando Dei e
Antenati di non essere stato notato. Cerca rifugio nel suo lavoro:
sul suo bancone ha un quarto di kadal ancora da curare. Sì:
lui non si è alzato da quel lavoro. Hanno visto qualcuno
sbirciare? Può essere stata solo Odiris, non certo lui!
Mentre taglia con prudenza la carne
rossa, un leggero tremito di paura gli scuote le mani esperte.
Nel giardino
Nel
giardino, seduta sulla soffice erba cosparsa di fiorellini dal
profumo inebriante, la regina
sorride mentre alza lo sguardo dal suo sinistro tomo dalla copertina
rigida e nera; quando cambia posizione, fa tintinnare il lucchetto di
bronzo che sigilla agli occhi profani i suoi segreti, redatti nella
lingua arcana di un altro mondo;
all’interno, in testa a ogni pagina campeggia una formula che
potrebbe essere traslitterata in meridiano moderno come ‘Collezione
Harmony’.
Si rivolge divertita all'essere
androgino inginocchiato accanto a lei, intento a scioglierle le
trecce: “Dora, abbiamo spettatori alle finestre”.
“Benissimo, Irene. Siamo qui per
loro, no?”, risponde questa, poi si scosta con fastidio una ciocca
fucsia dagli occhi, ricacciandola sopra le spalle ornate da un motivo
verde chiaro ripetuto, come di nervature di foglie. “Non li
sopporto, questi capelli che vanno dappertutto. Ma almeno mi coprono
un po’ il sedere… La prossima volta lo farai tu, il mormorante, e
io la regina!”.
L’altra cambia discorso: “Guarda
guarda chi arriva!”.
Si volgono entrambe verso Will,
che, apparsa dal niente, incede verso di loro con il passo sicuro e
arrogante del suo ruolo.
Appena arrivata, la Guardiana
torreggia su di loro, senza curarsi di mantenere né la
distanza, né la deferenza prescritte dal protocollo. “Altezza,
andiamo a parlare in un posto più discreto”, ordina
indicando con un cenno del capo verso il folto del giardino.
Poco dopo, cortine di rampicanti dalle
foglie rosso fiamma le celano a ogni sguardo indesiderato.
“Ragazze”, inizia Wanda a mezza
voce, “Sta per arrivare il capo consigliere Korgondor. Manca solo
un mese al climax: questa volta Sua Altezza dovrà
essere veramente sgradevole”.
Irene
coglie subito l’aria. “Dora, non volevi fare tu la regina?”. In
un tremolio, la figuretta di Elyon
si trasforma in quella, assai più alta e formosa, di Irenior.
“Lo sapevo che c’era la fregatura”,
mormora a spalle chine il povero mormorante, per poi
trasformarsi a sua volta nella sempre più fioca Luce di
Meridian.
Poco dopo Irenior, rimasta sola nel
folto del bosco, ha appena ripreso a leggere appassionatamente il suo
arcano volume, quando una folata di vento scuote le chiome degli
alberi.
Guardando in alto, negli interstizi tra
i rami, le pare che una cappa plumbea stia velocemente divorando il
cielo, propagandosi a oscurare gli screzi d'azzurro tra le fronde
agitate.
Una folata più forte scuote
anche le pagine tra le sue mani, e disperde il dolce profumo di
konnestras.
Il tempo peggiora a vista d’occhio,
conclude Irenior facendosi sparire il volume nel palmo. Pazienza,
comunque è quasi giunta l’ora in cui dovrà rientrare
per incontrarsi con Carol.
Sala del trono
L’uomo abbassa lo sguardo, come se
cercasse una macchia sul suo cappotto verde scuro. Ma non è a
questo che sta pensando.
La voce arrogante della regina
lo richiama: “Capo consigliere Korgondor”, scandisce, “Mi avete
ascoltata?”.
“Sì, Altezza. La terza parte
di tutti i raccolti, non più la quarta. Ma… se posso…
perdonate la mia curiosità: cosa Vi spinge ad aumentare le
tasse ai contadini?”.
La Luce di Meridian lo squadra
senza neppure tentare di nascondere il suo disprezzo. “Per
vettovagliare l’esercito, consigliere. Entro pochi giorni vi farò
avere istruzioni relative alla nuova leva obbligatoria”.
Lo sguardo dell’uomo si fa
esterrefatto. “Nuovi reclutamenti? Ma perché?”.
La regina risponde, ostile:
“Consigliere, quando io deciderò che dovrete saperlo, lo
saprete! E ora eseguite! O volete seguire la sorte del vostro
predecessore inetto e infedele?!?”.
“Altezza, perdonate. Sarà
fatto senza discutere. Che la Luce sia con Voi”.
Gli occhi di Elyon lampeggiano
d’ira. “Vuoi fare del sarcasmo, vecchio idiota? IO sono la Luce!
E ora vai ed esegui, te lo dico per l’ultima volta!”.
Il consigliere, profuso in un inchino
umiliato, lascia la sala del trono camminando all’indietro.
Fuori dal locale, si volta verso le
scale senza osar rivolgere lo sguardo né alle aliene Guardiane
nell’anticamera, né ai soldati sul pianerottolo, che restano
incerti se tributargli o meno il saluto marziale. Stranamente,
l’udienza è stata a porte aperte, quindi anche loro hanno
ascoltato con simulata indifferenza la sua umiliazione.
Dietro di lui, gli alti battenti si
richiudono con un insolito tonfo, che lo fa sussultare come un calcio
nel fondoschiena.
Inizia a discendere lo scalone, cupo e
pensieroso. Come può essere cambiata così in pochi mesi
la loro giovane e beneamata Regina? E le Guardiane, eroine della
riscossa contro Phobos?
Sente, alle sue spalle, i soldati
scattare sull'attenti e percuotersi il petto.
“Capo Consigliere”, lo chiama dal
pianerottolo una voce cortese e conosciuta.
“Principessa Vera, non vi avevo
vista”, le risponde cercando di riprendere il contegno. Si chiede
se lei abbia attraversato il battente già chiuso: non si
meraviglierebbe più di niente, ormai.
“Ero lì accanto. Ho sentito
tutto”.
L’uomo annuisce a testa bassa. Meglio
non esporsi con commenti, né lì, né altrove.
“Vi accompagno giù per le
scale, consigliere. Facciamoci quattro passi”.
Dopo aver disceso in silenzio qualche
rampa del lungo scalone a chiocciola, Vera inizia: “In primo luogo,
mi dispiace moltissimo per come Elyon vi ha trattato quest’oggi”.
“Fa niente”, mente l’altro con
sussiego.
Lei continua: “Purtroppo lei è
spesso intrattabile, dopo aver passato un po’ di tempo in
giardino”. Si schiarisce la voce per sottintendere qualcosa di non
detto.
“Non sentitevi in obbligo di
giustificarla, Principessa. Ero un po' stupito per le istruzioni che
Sua Altezza mi ha dato, ecco tutto! Sono certo che avrà dei
validi motivi!”.
Vera annuisce come pensierosa, poi si
accosta di più e sussurra: “Ha stupito anche me. Non mi
aveva mai parlato di coscrizione, prima”.
L’uomo annuisce mogio. “Andrò
a riferire in consiglio, come mio dovere”.
“Penso che passerò anch’io,
tra poco. Prima, però , voglio cercare di farla ragionare”.
Accenna a voltarsi indietro, verso la sala del trono. “A dopo, Capo
Consigliere Korgondor”, dice svanendo nel consueto baluginio.
“A dopo”, fa lui salutando con un
cenno speranzoso lo spazio ormai vuoto.
Un attimo dopo, Vera torna a
materializzarsi nella sala. Dopo aver controllato che il portone sia
ben chiuso, si rivolge alla regina, seduta sul trono con aria
abbacchiata, con la silenziosa compagnia di Will. “Brava
Irene, bravissima!”.
“Non sono Irene!”, sbotta l’altra,
ancora più depressa. “Lei è stata così furba
da defilarsi per tempo. Io sono… bah, inutile, chiamami pure come
vuoi…”.
“Scusa, Dora!”, le dice venendole
vicino per cingerle le spalle. “Sei stata perfetta, perfettissima!
Non sapevo che sapessi essere così odiosa!”.
“Neanch’io”.
Nonostante le ampie vetrate, l’interno
della grande sala sprofonda velocemente nella penombra. Will,
guardando preoccupata dal finestrone, chiede: “Vera, sei tu che
stai facendo cambiare il tempo?”.
“Sì, Wanda. I meridiani sanno
che l’umore della regina può influenzare l’atmosfera sulla
città, così un paio di bei temporali contribuiranno a
inquietarli quasi quanto una nuova tassa”.
“Sempre colpa mia, insomma”,
bofonchia Elyon.
“Resisti, Dora! Ormai è
questione di un solo mese!”. Vera si porta davanti alla
finestratura, osservando le spettacolari nubi scure che, dall’alto
della torre, pare quasi di poter toccare allungando il braccio. “Un
mese di maltempo rimarcherà il crepuscolo di Elyon
l’arrogante, settima Luce di Meridian: troppo infantile,
capricciosa e inadeguata al suo ruolo. Prima ha violato un quasi
tabù, creando con la magia una subordinata che la sollevasse
dal peso del governo, e poi ha cominciato a rodersi d’invidia per
la sua crescente popolarità”. Con un sorrisino compiaciuto,
conclude: “Ancora un mese al suo canto del cigno. E sarà un
canto assai stonato!”. Detto ciò, svanisce in un tremolio.
“E’ andata al Consiglio”,
commenta Will avvicinandosi alla regina.
“Odio questo ruolo infame!”,
ribadisce lei, tra i denti, sostenendosi il capo avvilita.
“Dai, Dora, in fondo ti sei
risparmiata il teatrino del campo di prigionia, che sembra la parodia
sfigata di un Gulag”.
“Almeno questo”, esala l'altra.
Wanda la osserva un attimo: non ha mai
visto una delle sue nuove compagne così abbattuta, e non può
fare a meno di essere toccata dalla sua pena. “Vieni, cara: ti
porto a vedere una cosa che ti piacerà”. La prende per mano,
tirandola in piedi.
“Dove?”.
“Agli archi di crescita. Vedrai, è
una novità assoluta!”.
L’altra sbircia dubbiosa il cielo
verso sudovest dalla grande finestratura. “Uscire proprio adesso?
Il tempo si sta mettendo assai male”.
“Tranquilla: con il teletrasporto,
saremo di ritorno tra pochi minuti!”.
Cantiere alla periferia sud di Meridian
“Architetto Paochaion, il tempo si
sta guastando”.
Pao annuisce preoccupata, osservando il
cielo in rapido cambiamento. “Fate completare l’ultima colata,
capomastro, poi per oggi abbiamo finito”.
Mentre gli operai si danno da fare a
gettare secchie d'impasto bianco dentro la cassaforma, la ragazza
osserva in alto, socchiudendo gli occhi per proteggerli dal forte
vento.
Il cielo sta assumendo una cupa
tonalità grigio-viola, mentre gli spicchi limpidi ancora
visibili tra le nubi dense sembrano, per contrasto, più
verdini del solito turchese.
Per qualche istante il sole, penetrando
sotto le nuvole attraverso questi squarci, le colora con spettacolari
aloni iridescenti, poi anche questi spiragli si chiudono, e il viola
cupo regna incontrastato.
Il primo fulmine guizza: bianco,
abbagliante, ramificato come se volesse impadronirsi dell’orizzonte.
La sua luce disegna ombre nette sugli edifici e i pendii in distanza;
quando si è estinta, il mondo sembra un po’ più buio
di prima.
La pioggia inizia improvvisa, e in
pochi secondi raggiunge un’intensità tale da sovrastare le
voci.
“Tutti al riparo!”, grida il
capomastro, ma non c’era bisogno di ordinarlo.
Un minuto dopo, Pao e tutti gli operai
sono al riparo al chiuso, nella baracca, ascoltando il forte scroscio
sul tetto di legno. Un po' d'acqua piovana comincia a filtrare dentro
attraverso le giunzioni della copertura, e gocciola sugli occupanti.
“Crede che questa pioggia rovinerà
la nuova colata?” chiede lei, di malumore, al capomastro.
“Niente che non si possa riparare con
un nuovo getto”, risponde lui alzando le spalle. “Mi preoccupa di
più la tenuta di questa baracca”, aggiunge, scrutando le
giunzioni scricchiolanti, messe a dura prova dalle forti folate.
Un altro bagliore è seguito a
breve da un frastuono che sovrasta perfino il fortissimo battere
della pioggia sulla copertura.
La porta si scuote. Qualcuno sta
battendo per entrare.
“Aprite”,
grida una voce da fuori con una nota di umida disperazione.
Un attimo dopo, entrano tre figure
fradice e grondanti.
Una, in particolare, ha qualcosa di
familiare: una gran capigliatura candida incollata sul viso
verdazzurro, sotto il cappuccio, e una borsa che tiene stretta al
petto in un commovente tentativo di proteggerla dalla pioggia. “C’è
l’architetto Paochaion?”, emette con un filo di voce.
“Terry?”, fa Pao, stupita.
“Ciao Pao”, la saluta lei,
tirandosi giù il sottile, inutile cappuccio di tela. “Eravamo
venuti qui per provare l’autogru virtuale, ma temo che oggi non sia
giornata”. Estrae dalla borsa a tracolla un oggetto che Pao
riconosce come una console per videogiochi. “Spero che non sia
entrata acqua; se no, addio!”.
“Ma chi sono quelli che ti hanno
accompagnata?”, chiede Paochaion accennando a due uomini fradici
che hanno deposto sul pavimento grosse borse altrettanto fradice.
“Ho dovuto far trasportare tutto
l’occorrente: un conversore neuroenergetico, acqua magica, tre
occhibelli…”.
“Occhibelli?”.
“Sono delle statuette particolari,
adattate a generatori della materializzazione. Sostituiscono gli
occhi di Vera, che avrà ben altro da fare”. Si riguarda la
console. “Temo proprio che possa essere entrata acqua. Ha
cominciato a scrosciare che eravamo già fuori dall’abitato”.
“Ma Terry, perché non ti sei
teletrasportata?”.
Theresion le fa cenno di parlare piano,
e le bisbiglia all’orecchio: “Non voglio mostrare questi poteri,
altrimenti potrebbero associarmi più facilmente a chi-sai-tu.
Lasciamo che sia Vera a fare sfoggio di magie strabilianti, che fa
parte del suo copione”.
L’altra la ricambia con un’occhiata
ironica. “Fammi capire: sei venuta per creare dal niente
un’autogru che solleverà cinque tonnellate, giocando con una
console e tre statuette, e ti fai scrupolo di lasciar vedere che sai
teletrasportarti?”.
“E’ diverso”, ribatte Theresion
un po’ piccata, ma comincia seriamente a chiedersi chi sia la più
sciocca tra loro. Meglio cambiare discorso. “Cosa avete fatto,
finora?”.
Pao sorride orgogliosa, poi si affaccia
a una finestrella sfidando la corrente che le fa turbinare le sottili
treccine della sua frangia. “Abbiamo colato quasi tutte le
strutture dei primi sei portali di teletrasporto. La loro magia sarà
compito di Vera, naturalmente. Poi vorrei liberare il terreno e
cominciare i primi elementi del mercato, e per questo l’autogru…”.
Un forte lampo le illumina il viso,
subito seguito da un frastuono esplosivo. Per un attimo, loro tutti
sentono un pizzicorino ai piedi.
“Lune sincrone!”, fa un operaio che
stava guardando da un’altra finestrella. “E’caduto a quattro
passi da qui! Ha spaccato in due un albero appena fuori dal
recinto!”.
“Sarà il caso di tornare
subito a palazzo”, dice Paochaion un po’ impressionata.
“Adesso? Aspettiamo che spiova, no?”.
Pao le fa un gesto sbrigativo. “Io mi
teletrasporto. Tu, se vuoi, puoi restare qui e goderti la tempesta in
prima fila. Ma preferirei che venissi con me”.
Theresion ascolta lo scroscio
assordante sul tetto e i cigolii della costruzione sferzata dal
vento. “Mi tenti, Pao!”.
Capannone degli archi di crescita
Le grandi sagome degli archi incrociati
spiccano, scure e curve, contro la luminosità ormai tenue che
traspare dalle coperture, interrotta da arabeschi ripetitivi che
ricordano le diafane ali delle guardiane.
Sotto gli archi, tra i vaghi luccichii
che contornano forme non sempre riconoscibili, compare un ulteriore
baluginio dal quale si materializzano due figure umane. I grandi
mantelli scuri che le avvolgono prendono ad agitarsi nella corrente
d’aria che pervade quel luogo con qualsiasi tempo.
Una folata abbatte il cappuccio della
più piccola, lasciando riconoscere la Regina in un
abito e un luogo del tutto inusuali per lei.
Scruta nella penombra con gli occhi
socchiusi, cercando di riconoscere le sagome degli oggetti attorno a
sé. Un elicottero, ancora alle dimensioni di una giostrina da
luna park. Generatori elettrici, turbine idrauliche, bobine di cavi
metallici. E tante, tante, tante alette di tutte le grandezze, ma
sempre della stessa forma, oscillano come cime d’albero sferzate
dal vento.
“Impressionante!”, ammette al
termine della lunga occhiata.
“Vero?”, si compiace Will
stringendosi il mantello in vita, infastidita dall'agitarsi al vento
delle inutili alette che ha sulla schiena.
La Luce di Meridian torna ad
osservare i minuscoli bagliori tutt'attorno. “Ma non emetteranno
radiazioni nocive, quegli aloni?”.
“Ma no! Terry è stata qui
parecchie volte, e sta pur benissimo. Vieni di qua”. Fa strada,
passando tra i macchinari più impensabili avvolti dagli
scintillii.
Arriva fino a uno scaffale, dove una
ventina di oggetti sferici, scuri e lucidi sono allineati,
riflettendo debolmente ma nitidamente i chiaroscuri della copertura.
Su questi oggetti, i sinistri lucori sono pressoché assenti.
Will li squadra con occhio
critico, poi ne sceglie uno. “Ecco, questo è maturo per
essere colto!”.
“Finalmente!”, fa l’altra con un
lampo di gioia, prendendolo dalle mani della compagna. Se lo rimira
da tutti i lati: assomiglia a un caschetto da motociclista con la
visiera. “Sembra piccolo. Deve crescere ancora?”.
“No, va bene così leggero. Non
protegge molto dagli urti, ma integra un sacco di incantesimi e
talismani”. Indica la visiera iridescente: “Questa è
trattata in modo da fermare tutte le influenze psichiche non volute.
Non corriamo più il rischio di essere ipnotizzate, finché
la visiera è abbassata. Inoltre, nessuno potrà rendersi
invisibile ai nostri occhi con il trucco delle pulsazioni
teleipnotiche”. Indica i lati, dove si intravedono per trasparenza,
inglobate nella matrice di resina verde scuro, alcune piastrine
argentee disposte tutt'attorno a mo' di corona. “Queste sono
impermeabili alla telepatia, a meno che i pensieri non vengano
trasmessi intenzionalmente”. Accenna a una catena di sottilissimi
anelli che corre tutt’attorno, che fa capo a un cristallo posto sul
frontale. “Questo codifica i pensieri, li comprime e li trasmette
in brevi impulsi, cosicché non possono più essere
intercettati da altri”.
“Fantastico!”, si delizia la
Nemesis sotto mentite spoglie, poi viene disturbata da un dubbio:
“Ma… ma se uno di questi cadesse nelle mani sbagliate, sarebbe un
disastro!”.
“Non troppo. Sono tutti disattivabili
a distanza dalla nostra centrale operativa. Da lì si può
sempre sapere dove si trova chi li indossa, e cosa pensa. In caso
estremo, la Nemesis che lo indossa potrà essere
teletrasportata via da un’altra che le fa da angelo custode a
distanza, nella centrale operativa”.
“Fantastico!”, esclama
entusiasticamente la regina. Si sfila la corona fasulla e
prova ad infilarsi il casco, ma questo si blocca a cavallo delle
orecchie. “Però… è scomodo, strettissimo! Ahi…
Aiutami, non riesco neanche a toglierlo!”.
“Eccomi!”. Will la aiuta,
tirando delicatamente dall’alto finché il caschetto si
sfila.
“Ahi! Credo proprio che abbia bisogno
di crescere ancora un bel po’”, si lamenta la regina
strofinandosi le orecchie, poi si rinfila la finta corona, ma ciò
non la aiuta più a tenere a posto capelli e trecce, ormai
definitivamente scompigliati dalla corrente d'aria. Alza gli occhi
verso la copertura, sentendo il rumore della pioggia battente sulle
membrane diafane; ora nota che i loro sottili telai vibrano sotto le
folate irregolari.
“E’ perché quei caschi sono
fatti sul calco della testa delle Nemesis”, spiega Will
accostandosi e alzando la voce. “Il cranio è diverso da
quello di Elyon, ma è uguale a quello della nostra nemica
Will”. Per dimostrarlo, la guardiana si infila il casco senza
grosse difficoltà, a parte i capelli rossi che il vento le ha
spinto sul viso. “Visto?”.
La regina annuisce convinta.
“Non vedo l’ora di finire questa recita, per poterlo indossare!”.
D’improvviso, un forte lampo si
riflette sulla visiera, e proietta nel capannone macchie di luce
verde e azzurrina, separate da una complessa e sottile trama d’ombra.
Per un momento, gli scintillii si intensificano anche su tutti gli
oggetti sotto gli archi.
Togliendosi il caschetto, Will
osserva il cielo facendo con una smorfia di disappunto, come
rendendosi conto di un problema. “Ahi, Dora, temo di averti
trascinata in un piccolo guaio”.
“Perché?”, chiede
preoccupata l’altra.
“Perché, qui dentro, le
coperture ci schermano dal potere di Vera”.
Quando afferra tutte le implicazioni,
la regina esala: “Oh, no!”, lasciando cadere le spalle
sconsolata. Per potersi teletrasportare a palazzo, devono prima
lasciare questo luogo e il debole riparo che esso pur offre da
questo fortunale.
In quello, un fulmine colpisce in pieno
la copertura. Nel frastuono, lo scintillio elettrico si diffonde
lungo le sottili nervature nere. Per qualche secondo, i baluginii
sugli oggetti si trasformano in vere aure luminose.
Le due sentono un breve formicolio,
come di corrente elettrica, nelle gambe.
Will scambia un'occhiata
preoccupata con la sua compagna. “Altezza, spero proprio che
tu non avessi ragione, sulle radiazioni”.
Sotterranei del palazzo reale
La luce grigia che viene dalle bocche
di lupo vicino al soffitto si è gradualmente attenuata. La
penombra, appena mitigata dalla fosforescenza verdina dalle pareti,
ha avvolto il grande locale sotterraneo.
Per un attimo, il bagliore attenuato di
un lampo rischiara il locale, creando giochi d’ombre inquietanti, e
un tuono rimbomba smorzato.
Irenior alza gli occhi: il tempo si sta
mettendo proprio male, là fuori.
Si guarda in giro. Con questa penombra,
i trattorini allineati lungo le pareti sembrano gusci di insetti
davanti ai quali brillano, come occhi fissi e vuoti, le parabole dei
fanali. I vomeri di diversi aratri, rivolti verso l’alto, sembrano
pungiglioni lucenti di grossi scorpioni meccanici usciti da qualche
anime di fantascienza a minacciare il mondo.
Questo posto è inquietante.
Irenior vorrebbe far accendere i pannelli bianchi in alto sulle
pareti, ma per qualche motivo non rispondono mai alla sua volontà,
come se ricambiassero la sua antipatia per quel luogo e per il ruolo
di esperta in agraria che le è stato affibbiato suo malgrado.
Per ingannare l’attesa che si
prolunga più del dovuto, Irenior inizia a fantasticare sulle
bellissime cose che potrebbe fare, se solo le fosse concesso di
accompagnare Carol nei suoi viaggi di lavoro sulla Terra; ma Vera ha
temuto che non sarebbe più tornata indietro, e forse non aveva
tutti i torti: negozi colmi di ogni bontà e ogni bellezza,
strade piene di vita e di splendidi ragazzi…
Ricorda vagamente che anche lei aveva
un ragazzo prima di quella loro fuga improvvisa, ma non riesce più
a richiamare il suo viso e il suo nome, né le sensazioni che
le dava stare con lui. E’ certa, però, che fosse bellissimo.
Pochi dubbi che la Grande Sorella abbia messo lo zampino nella sua
memoria, come al solito senza chiederle alcun consenso.
Invece ricorda bene Michael, l’uomo
di Vera. Era stata proprio Irene a spingerla tra le sue braccia,
tanto era troppo grande per lei stessa. E ora Vera non si ricorda
neanche più di lui… Certe volte non le sembra del tutto
lucida. Per esempio, perché ostinarsi a negare che quello che
Carol opera per andare sulla Terra è un teletrasporto e
insistere che è un 'salto dimensionale', quale che sia la
differenza tra le due cose? Forse per nascondere che è
qualcosa alla portata di tutte loro?
Un debole baluginio davanti a lei la
distoglie dai suoi pensieri; subito dopo, la luce abbagliante di due
fari materializzati dal nulla le fa socchiudere gli occhi.
“Ehilà, polpetta! Ti piace
stare al buio?”, la saluta Carol scendendo dal Land Rover
rappezzato, mentre i pannelli luminescenti alle pareti inondano il
locale di luce bianca.
Dall’esterno, un tuono sembra
rispondere a quella domanda ironica.
“Per Giove”, fa Carol, “Pioggia a
Midgale, e temporale anche qui!”.
In tutta risposta, Irenior le chiede
indispettita: “Ma come fai tu ad accendere i pannelli, biondona?”.
“Devi pensarlo in meridiano”, le
risponde in sua vece Nemesis Dodici, scendendo dal posto di guida.
“Ciao Diana! Niente nuove bozze sul
paraurti, stavolta?”.
“Neanche una”, risponde con
orgoglio, poi va ad aprire il portellone posteriore.
“Dilla tutta, Diana!”, la pungola
Carol, “E il fanalino del furgone?”.
“Che furgone?”, chiede Irenior
seguendole fino dietro al fuoristrada.
“Quello con cui ci muoviamo a Midgale
e dintorni per andare a comprare gli oggetti più ingombranti”,
risponde la Nemesis. “Li facciamo caricare nel vano prima di
rimpicciolirli. Carol non può certo farlo di fronte ai
venditori”.
“Immagino”, ridacchia Irene un po’
invidiosa, e recita: “Scusi, avrebbe sei motocarri di giornata? Sì,
sei soltanto. Sa, di più non me ne stanno in borsetta”.
Mentre attende un plauso che nessuna delle altre le tributa, le
osserva sollevare senza sforzo diversi trattorini, aratri ed erpici
grandi come giocattoli e allinearli con cura lungo la parete, a
rispettosa distanza l’uno dall’altro.
Poi Carol si avvicina e fa un gesto
come benedicente, pronunciando parole inudibili.
Subito dopo, tutte le attrezzature
cominciano a crescere a vista d’occhio, mentre un rumore di stridio
di gomme sul pavimento risuona tra le pareti nude del grande locale.
Irenior chiede: “Biondona, come mai
queste macchine crescono così velocemente, mentre quelle di
Vera sono quasi tutte sotto gli archi da un anno buono?”.
“Perché quelle di Vera sono
state create piccole, no?”, risponde questa come cosa ovvia. “Così,
per crescere, devono acquistare massa dall’aria, e questo comporta,
tra l’altro, reazioni di fusione nucleare. Queste qui, invece,
hanno già un credito di massa, perché sono state
rimpicciolite solo per essere trasportate”. Mentre osserva gli oggetti
completare in breve la loro crescita tra stridii lamentosi, aggiunge:
“Scherzi a parte, non è che trasportare dei grossi oggetti
rimpiccioliti sia tanto meno rischioso che lasciar guidare Diana.
L’incantesimo del rimpicciolimento è instabile, e gli
oggetti tendono a riprendere spontaneamente la loro grandezza
originale. Ti lascio immaginare se succedesse mentre li portiamo in
macchina!”.
A Irenior viene da sorridere. “Immagino
i titoli dei giornali!”.
“Non so se riusciremmo più a
leggerli”, le risponde Carol con una smorfia di disappunto, “Spero
che il gioco valga la candela, almeno”.
“Ma certo!”, la rassicura Irenior.
“Con queste attrezzature, potremo far coltivare parecchi campi di
scolza per farci del biocarburante!”.
“Si dice colza”, la corregge Carol,
“Meno male che sei tu l’esperta in agraria! E poi, cosa ci faremo
con tutto quel carburante?”.
Ammiccandole, Irenior le risponde:
“Ovvio: ci faremo andare i trattorini!”.
Altopiano sopra Meridian
Scortato da due soldati cupi e
silenziosi, Gathrop cammina a capo chino sotto la pioggia sferzante.
Quando lo hanno prelevato nel suo negozio di tappeti, ha protestato
la sua innocenza fino a sgolarsi. Ma sembrava che a loro non
interessasse neppure se fosse colpevole o meno di qualcosa, né
lui, né gli altri prigionieri ammanettati con lui alla stessa
fune. Non importava neppure alla guardiana dalla pelle giallina che
procede in testa alla colonna, mentre vento e pioggia si aprono
attorno a lei come deviati da una cupola invisibile.
“Ma dove ci portate?”, chiede
lamentoso un altro prigioniero, i vestiti fradici incollati al corpo
esile.
“Lo saprai tra poco”, grugnisce
infastidito un soldato da sotto il cappuccio del mantello.
Gathrop immagina già dove
andranno: da settimane in città si bisbiglia con timore di un
tetro luogo recintato sull’altopiano, a meno di un’ora di marcia
dal palazzo.
La sinistra costruzione è già
visibile in distanza come una sagoma scura, offuscata dalla pioggia.
Avvicinandosi, si
può distinguere una rada palizzata intrecciata di rovi,
due torri di sorveglianza vuote che oscillano agli schiaffi del vento
e una serie di baracche di legno.
Al loro ingresso, quando i cancelli si
aprono per farli entrare, un’altra guardiana li studia ostile
attraverso la cortina di acqua piovana deflessa attorno a lei.
I due soldati dapprima tentano di
sciogliere i nodi delle funi ormai gonfie d’acqua, poi ci
rinunciano con stizza e li recidono con le spade mal affilate; infine
spingono di malagrazia i prigionieri in un capanno, che chiudono
dall’esterno con un’asse di traverso alla porta.
Grondante e timoroso, Gathrop si guarda
attorno. Questo luogo è già affollato, e riconosce
diverse persone sedute sulle panche, raccolte attorno alla fioca e
calda luce di due lanterne a olio.
Un uomo calvo e dalla pelle azzurrina
emerge da un angolo in penombra. “Anche tu fra noi, Gathrop?”.
“Golupos!”, lo saluta riconoscendo
il suo amico, “Da quanto tempo sei qui?”.
“Da stamattina”, risponde tra i
denti, spingendolo verso un angolo più libero della baracca
che scricchiola sotto il vento. Il rumore dello scroscio rende
difficile capire le parole.
“Perché ti hanno portato
qui?”, gli chiede Gathrop.
L’altro fa una smorfia quasi
d'indifferenza. “Probabilmente non lo sanno neanche loro. Sembrano
arrestare la gente a caso. Forse non ti hanno neppure letto i
pensieri: se dovessero arrestare tutti quelli che sono scontenti di
come si stanno mettendo le cose, farebbero prima a cingere di rovi
intrecciati e di torri di guardia l’intera Meridian”.
“Ma tutto ciò non ha senso!”,
si lamenta a mezza voce il commerciante.
L’altro si accosta ancora di più,
e sussurra: “Però non è quell’orrore che può
sembrare. Più che altro è una farsa. Appena scende la
notte, le guardiane se ne vanno, e i soldati si ritirano nel posto di
guardia a giocare a dadi, chiudendo un occhio e mezzo. E’ molto
facile evadere da qui: se non gli passi proprio sotto il naso non si
voltano neanche a guardarti, e le recinzioni hanno varchi che nessuno
si è mai dato la pena di chiudere”.
“Davvero?”, fa stupito Gathrop. “Mi
pare impossibile!”.
“Credimi, te lo dico perché
sono già evaso tre volte in tre settimane”.
Lo guarda scettico. “Eppure sei
ancora qui!”.
“Si, ma non ci sono mai rimasto una
notte intera. E poi, anche quando mi hanno arrestato di nuovo,
sembrava che a nessuno importasse neppure che ero già evaso, e
non hanno preso alcun provvedimento in più”.
Gathrop scuote il capo, confuso e
incredulo. “Ma è assurdo! Come si spiega?”.
L'altro si stringe impercettibilmente
nelle spalle. “E’ difficile spiegarsi il casino degli ultimi
mesi. Io penso che neppure i soldati credano in quello che stanno
facendo”.
“E le guardiane?”, chiede il
commerciante sottovoce, come timoroso di pronunciare quel nome.
Ancora un impercettibile alzata di
spalle. “Sono le stesse guardiane che hanno combattuto contro di
loro ai tempi di Phobos. Immaginati quanto saranno entusiasti, i
militari, di dover obbedire ai loro ordini!”.
Gathrop lo scruta dubbioso: “Ma… mi
sbaglio, o una volta proprio tu mi avevi detto che sia la Regina che
le Guardane sono delle impostrici? Cioè, che non sono quelle
vere?”.
L’altro mette le mani avanti. “Io?
Mai detta una cosa del genere! Forse eri tu a sostenerlo, o forse
Caleb. Ma lo sai che lui aveva dei motivi personali”.
Gathrop cerca di ricordare: lui, avere
sostenuto una teoria così strampalata? Impossibile! Ma, da
buon commerciante, si guarda bene dal contraddire il suo
interlocutore, e preferisce cambiare discorso. “Ma come mai la
Regina e le Guardiane non hanno creato una qualche barriera magica
attorno al campo?”.
Golupos scuote il viso, perplesso. “Non
so… forse alla Regina non interessa davvero… forse ha dato
l’ordine e poi se ne è dimenticata, oppure non le hanno mai
detto delle evasioni”.
“O forse non riesce più”,
biascica un altro interlocutore che si è avvicinato, una
persona china e dal viso liscio a striature nere, nascosto sotto un
cappuccio marroncino ancora asciutto. “Forse qualche vizio o
qualche maledizione ha appannato i suoi poteri, oltre alla sua
lucidità”.
I due, insospettiti, si zittiscono e
distolgono lo sguardo: il discorso si sta facendo pericoloso.
Il terzo intervenuto sorride
impercettibilmente sotto il cappuccio, poi si sposta ad ascoltare la
conversazione di un altro gruppetto.
Dopo un po', Golupos va a sedersi in un
angolo libero di una panca.
Gathrop scruta fuori da una finestrella
chiusa da una griglia metallica mal fissata. E’ triste: la bella
favola della Luce di Meridian, la reginetta benevola dai poteri quasi
divini, si sta lentamente trasformando in una cupa farsa.
Le voci dei soldati, all’esterno, si
allontanano, mentre il cielo temporalesco scivola sempre più
su tonalità vicine al blu scuro.
Nella baracca dei soldati, la luce
arancione delle lanterne riverbera sempre più evidente nella
sera.
Gathrop torna ad accostarsi a Golupos
seduto, si accoscia accanto a lui e gli sussurra: “I soldati si
sono ritirati a giocare a dadi. Mi mostri come si può uscire
di qui?”.
In quel momento, dalle finestrelle
entra il sinistro bagliore di un fulmine che cade poco lontano. Il
boato del tuono lo segue immediatamente, scuotendo la debole
struttura della baracca.
“Abbi pazienza, Gathrop”, fa
l'altro, invitandolo con un cenno a sedere lì accanto, “Ci
saranno momenti migliori per questo”.
Taverna La campanula d’oro, periferia sud di Meridian
L’omone calvo dalla pelle azzurrina,
seduto a un tavolo della locanda, occupa quasi due posti sulla panca.
Come se attendesse qualcosa, indugia a lungo davanti al suo grosso
boccale di malto e latte speziato che ormai ha smesso di fumare.
Guarda fuori dalla finestrella. Il
palazzo reale, lontano sulla rupe oltre il centro città, si
vede deformato attraverso i vetri irregolari e la pioggia. L’uomo
nota che, quando muove la testa, sembra che l’immagine del maestoso
edificio esegua una danza fantasiosa e si stacchi dal suolo.
Nel locale entra un nuovo avventore.
Sotto il cappuccio fradicio si intravede la pelle di color verde e
una corta barbetta grigio ferro che dà una sagoma quadrata al
viso. Vathek si chiede, sbirciandolo con discrezione, se sia colui
che aspetta di incontrare.
L’uomo si siede al tavolo accanto al
suo. Dopo aver ordinato con voce roca e irriconoscibile del succo di
melopea caldo, estrae un mazzetto di carte da gioco gonfiate
dall’umidità e inizia un gioco solitario.
Vathek lo osserva con la coda
dell’occhio: l’avventore sconosciuto inizia tre volte una
partita, e per tre volte la interrompe quasi subito, rimescolando le
carte.
E’ proprio il segnale convenuto. E’
lui!
L’omone, senza più guardare
l’avventore, gli avvicina il più possibile il suo testone, e
apre la sua mente alla debole, furtiva comunicazione dell’altro.
‘Ciao,
vecchio mio’.
‘Ciao,
Caleb’.
‘Niente nomi! Che novità mi
racconti?’.
‘Che le cose in città vanno
sempre peggio, Ca…. Sempre in più ritengono che Elyon sia
impazzita o succube delle guardiane. Non ha ancora fatto spargere
sangue come Phobos, ma il suo agire appare ancora più
irrazionale e capriccioso. Corre voce che perfino i vertici
dell’Esercito comincino ad averne abbastanza di certi ordini
insensati e contraddittori’.
Caleb attende a rispondere mentre il
locandiere gli porta al tavolino un grande boccale fumante. ‘Non
so dove vogliano arrivare, quelle lì. Ma tu, hai continuato a
ripetere a tutti che la vera Elyon è in esilio?’.
Vathek lascia finire il rimbombo di un
tuono prima di rispondere.‘Negli ultimi tempi non è che
si possa ripetere liberamente una cosa del genere. Ho continuato a
pensarlo, sperando che lo captino’.
‘Continua.
L’ultima cosa a morire è il pensiero’.
‘Belle parole. Però
all’inizio di questa faccenda l'ho detto a tanti, dell’esilio.
Sul momento mi sono sembrati convinti, ma poi, a distanza di
settimane, tutti avevano cambiato idea’.
‘Perché?’.
‘Mi
hanno obiettato in tanti che tu non sei una fonte… come dire…
obiettiva, disinteressata'.
Caleb storce il viso, amareggiato. ‘
Il veleno di quelle streghe ha attecchito!’.
‘Forse, o forse li hanno
manipolati uno per uno. Comunque i più credono che questa
Elyon sia quella vera, cambiata dopo undici mesi di lavaggio del
cervello da parte delle Guardiane e di trip di konnestras nel suo
giardino. Insomma, non pochi sospettano che l’Oracolo di Kandrakar
sia diventato il vero padrone occulto della città’.
L’avventore incappucciato ha uno
scatto di nervosismo. ‘Ma è insensato! Perché
dovrebbe?’.
‘Nessuno
mi ha dato una risposta convincente. Però è nell’aria’.
‘Plagiati
da Vera e dalle sue tirapiedi!’.
‘Calma, non pensare così
forte. Comunque Vera ha curato molto la sua immagine pubblica.
Presenzia al consiglio, guarisce i malati… Ha stupito tanto la sua
sincerità, quando ha ammesso pubblicamente di essere stata
creata da Elyon’.
‘Non
che potesse negarlo. Era ben noto che la Regina Adariel non avesse
altre figlie’.
‘Però sarebbe stato
credibile che qualcuno dei maschi Escanor avesse figlie segrete sulla
Terra, che sarebbero sempre definibili come cugine o sorelle di
Elyon’.
‘E
di Phobos’.
‘Già… La profezia’,
pensa Vathek, guardando ancora dalla finestra. Ora che è quasi
buio, il temporale sembra sul punto di esaurirsi. Piove ancora, ma
almeno il vento non sbatte più le gocce contro il vetro.
Caleb sospira, sempre fingendosi
assorto nel suo solitario a carte. ‘Non vedo l’ora che
quest’anno fatidico passi, e che Elyon, quella vera, torni a
mettere fine a questa parodia’.
‘Un
anno… mancano ancora sette mesi. La famosa profezia dice che sarà
proprio Elyon a mettere fine alla tirannia?’.
‘Veramente
dice solo quando finirà, non come’.
‘Te lo chiedo, Cal… Te lo chiedo
perché temo che, se le cose vanno avanti così, forse
la città si rivolterà e si libererà da sola. Se
fosse così, poi la vorrebbero ancora per regina?’.
Posta questa domanda, Vathek si volge
con circospezione e guarda Caleb a lungo, attendendo una qualche
risposta. Vede un ultimo lampo illuminargli il viso e gli occhi
assorti, che solo ora riconosce con sicurezza come quelli dell’amico.
Il silenzio viene riempito solo da un
tuono lontano.