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Autore: manymany    17/03/2011    2 recensioni
Missing Moments sulla madre di Ben!
In questo capitolo conosciamo la madre di Ben(protagonista della storia L'Odore del Passato), la sua vita travagliata e il suo amore immenso per il figlio. Un amore così intenso la cui dimostrazione più grande è l'abbandono.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'L'odore del passato'
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Questo é un missing moment di L'odore del passato. Fa riferimento al capitolo 24 " La verità" e racconta la storia della madre di Ben. Vi auguro una buona lettura!



Somewhere  over  the  rainbow



Il primo giorno brutto della mia vita me lo ricordo come se fosse accaduto ieri, rivedo la nonna che mi infila un vestitino blu notte, quello della domenica e piangendo mi dice: “ La mamma è volata in cielo, per stare accanto a Gesù.”
Da lì forse ho iniziato a vedere nella religione un nemico. Perché Gesù si era portata via proprio la mia mamma? Perché mi puniva portandomi via la cosa più cara che avevo?
Avevo quattro anni e non sapevo dell’esistenza di cose come tumori e morte. Da quel giorno tutta la mia vita era cambiata. Da quel giorno avevo smesso di essere una bambina. Da quel giorno ero diventata semplicemente Giada. Una piccola donna. A quattro anni. Da lì a poco anche la nonna Maria, la mamma della mamma, era volata via e io ero rimasta sola con mio padre, un uomo che non conoscevo. Lui aveva i miei stessi occhi verde intenso ma era un estraneo per me. Faceva il camionista quando la mamma era viva e io lo vedevo solo per pochi giorni al mese, quando aveva dovuto prendersi cura di me aveva trovato lavoro in una fabbrica del paesello in cui vivevamo. Eravamo rimasti soli. Io e lui. Un uomo che non sapeva come crescere una bambina e una bambina che non sapeva come trattare un uomo.
Non avevamo mai avuto un vero rapporto, lui era sempre stato chiuso in sé stesso ma dopo la morte di mia madre la situazione era peggiorata. La mia infanzia era scivolata via lentamente, non avevo assaporato più quella cosa meravigliosa che era la spensieratezza, l’affetto, il sentirsi amati e coccolati. Non ero più una figlia. Ero Giada e basta.
Ricordo ancora quella sera maledetta, la sera che per circa un anno avevo reputato come la più bella della mia vita, era il venti luglio del 1983.
C’era la festa di paese e avevo potuto stare a spasso tutto il giorno con la mia vicina di casa, mi ero comprata una gonna bellissima e cortissima che mio padre non mi avrebbe mai permesso di indossare ma l’avevo presa lo stesso in un gesto di ribellione. Io non ero una bambina, non lo ero mai stata, o quanto meno non lo ero più dall’età di quattro anni ma lui si ostinava a proibirmi cose, come se fosse lì solo per quello, per negarmi le cose che volevo fare  o possedere. Si accorgeva di me solo quando doveva vietarmi qualcosa, ogni sua frase rivolta a me iniziava con un “non”.
Quella sera alla festa del paesello in cui ero nata e cresciuta e da cui sognavo disperatamente di scappare, avevo conosciuto Mario ed era stato l’inizio della mia fine.
Lui era bello. Molto bello a dire la verità, anche adesso non posso negare il fatto che un uomo come lui non l’ho mai più visto. Alto, occhi grigi, un viso da angelo. Ma d’altronde si sa anche Lucifero era un angelo all’inizio.
Era un bel po’ più grande di me, aveva circa venticinque anni e io mi ero sentita lusingata dalle attenzioni di quell’uomo bellissimo ed esperto. Non un ragazzino ma un uomo che voleva me.
Si era avvicinato mentre me ne stavo seduta su un muretto chiacchierando con Marzia e da subito mi aveva affascinato, il suo sorriso che mi stregava, i suoi occhi che mi guardavano come se fossi la cosa più bella che avessero mai visto.
Mi aveva chiesto di ballare e io avevo accettato. Avevo ballato stretta a lui, mentre lo pseudo cantante intonava o forse è meglio dire stonava la mia canzone preferita in assoluto: questo piccolo grande amore.
Quella era una delle canzoni preferite di mia madre, me la cantava la sera prima di mettermi a letto, accarezzandomi la fronte e riavviandomi i capelli dietro le orecchie. Aveva una voce d’angelo e un profumo che non saprei identificare se non con il profumo di mamma. Un odore che avrei riconosciuto tra milioni. Era il primo odore che avevo annusato e nonostante lei non ci fosse più da anni certe sere prima di addormentarmi potevo avvertirlo ancora, insieme alla sua voce che mi sussurrava: “ tu sei il mio piccolo grande amore”.
Le stesse parole che mi aveva detto Mario qualche tempo dopo e che io avevo interpretato come un segno del destino. Era lui quello giusto per me. Ma mi sbagliavo, mi sbagliavo di grosso.
Per settimane mi era stato dietro, nonostante mio padre lo avesse minacciato più volte. Ma lui era ostinato e io troppo cieca per seguire l’unico divieto giusto di mio padre.
Mi portava fiori, cioccolatini, mi invitava al cinema e a ballare e io in qualche modo trovavo il modo di andarci, ubriacata da quegli occhi grigi e da quel sorriso stupendo. Ci eravamo visti di nascosto per  un mese e mezzo poi lui aveva sganciato la bomba. Era settembre e lui disse di dover tornare nella grande città in cui si era trasferito per studiare e lavorare, mi propose di seguirlo ma io ero indecisa. Sebbene il rapporto con mio padre non esistesse lui era tutta la mia famiglia, l’unico che mi fosse rimasto. Poi aveva pronunciato quelle parole “ tu sei il mio piccolo grande amore” ed io avevo immaginato che fosse un segno. Che mia madre volesse spingermi a seguirlo così ero scappata con lui. In una città lontana, immensa, in cui non conoscevo nessuno, in balia di un uomo che con il tempo si era rivelato l’opposto di quello che avevo immaginato.
Arrivati nel suo territorio, i sorrisi, i fiori, le parole dolci erano sparite. Mario si era trasformato in un essere spietato e senza cuore, mi costringeva a fargli da serva, mi usava come gli pareva e piaceva in ogni senso. Poi aveva iniziato a farmi assumere droga. Mi ero opposta con tutte le mie forze, avevo lottato, ero fuggita, ma lui mi aveva ripresa, picchiata e costretta. Mi ero trasformata nell’ombra di me stessa, un essere tremante e dipendente da una sostanza chimica che  mi uccideva il cervello. Oramai non potevo più farne a meno.
Ma il fondo lo avevo toccato quando Mario mi aveva costretto a prostituirmi. Anche lì avevo resistito, ero fuggita, per essere trovata e picchiata, ero scappata di nuovo ma ancora una volta lui mi aveva portato indietro e mi aveva ridotto a un mucchio di ossa spezzate, più volte avevo tentato di uccidermi ma niente, quella vita maledetta non voleva lasciarmi, dovevo continuare a vivere e a morire dentro.
Ero fuggita per non subire i divieti di mio padre, che era morto poco dopo la mia partenza in un incidente sul lavoro, ed ero finita infondo all’inferno con un Lucifero spietato che aveva ucciso la mia dignità, la mia gioventù. Controllata a vista, costretta a subire le sue violenze e quelle dei clienti che trovavano eccitante il mio resistere e ribellarsi.
Era l’Agosto del 1986 quando avevo scoperto di essere incinta, avevo tenuto il segreto più che potevo. Ero certa che il padre fosse Mario perché era l’unico che non badava a fare attenzione ed ero anche più che certa che mi avrebbe costretta ad abortire.
Una prostituta incinta non rende bene, lo diceva sempre. Ma qualche mese dopo inevitabilmente se ne era accorto, mi aveva picchiata fino a svenire, mi aveva lasciata sanguinante e distrutta nella speranza che quella vita mi abbandonasse e poi ad andarsene era stato lui.
So che non è una cosa bella da dire, so che è una cosa ignobile e tremenda ma quando ho saputo che era morto ho pianto di sollievo, non di tristezza, no, ero felice perché potevo tenere il mio bambino che nonostante le botte si ostinava a crescere dentro di me. Quell’essere invisibile mi aveva insegnato in pochi giorni il significato più puro della parola amore. Lui era il mio riscatto, la mia rivincita, lui doveva essere la mia occasione di ricominciare ma la maledizione che pesava sulla mia vita non voleva abbandonarmi.

Il giorno della nascita  del mio bambino è stato il più bello e il più brutto della mia vita.
Ricordo il dolore e poi quella gioia immensa, ricordo la prima volta che ho stretto quel fagottino urlante a me, ho sentito il suo cuore battere svelto, l’ho visto calmarsi tra le mie braccia fino ad addormentarsi beato. Lui sentiva in me lo stesso odore che io avvertivo in mia madre.
Ero sua madre.
Lui era mio figlio.
Avevo provato una gioia così profonda e così perfetta che ero stupidamente convinta che niente e nessuno potesse intaccarla. Avevo chiamato mio figlio Benedetto, confidando in quel Dio che mi aveva portato via mia madre e che non mi aveva impedito di finire nel degrado più assoluto. Con me non era stato buono ma mi ero convinta che con un bambino tanto bello non potesse essere che buono.
In ospedale quella sera si era presentato Oscar, l’acerrimo rivale di Mario, colui che si diceva fosse il mandante del suo omicidio. Era arrivato mentre stavo allattando Benedetto. Mi aveva guardato schifato e mi aveva ordinato di sbarazzarmi del bambino prima di dover provvedere lui.
Il sangue mi era gelato nelle vene.
Non era più solo un problema mio, non c’era più solo la mia inutile vita in ballo. Adesso c’era Benedetto, dovevo proteggere lui, difenderlo dal male che mi girava intorno. Così una volta uscita dall’ospedale, con il bambino  stretto al petto ero andata alla Polizia, avevano ascoltato la mia storia, mi aveva sorriso, incoraggiata.
Era un bluff.
Mi avevano dato della drogata e avevano tentato di portarmi via il bambino così ero fuggita. Avevo preso tutti i soldi che mi erano rimasti e mi ero nascosta, vivendo nell’ombra ma di nuovo ero stata ritrovata. Oscar mi aveva portata in casa sua, ordinandomi di sbarazzarmi del bambino e di ricominciare a fare per lui quello che ero per Mario. Benedetto aveva sette mese quando fui costretta a separarmi da lui. Dopo l’ennesima minaccia avevo capito che tenere il bambino con me era pericoloso nonché profondamente egoista.
C’era un istituto di suore poco lontano a dove abitavo e mi era sembrata l’unica soluzione. Lo avevo lasciato davanti alla porta e mi ero appostata dietro una macchina aspettando che lo trovassero. Lo sentivo piangere e quello che restava del mio cuore andava in mille pezzi.
Cercava me, il mio odore e io lo avevo lasciato.
A distanza di dieci secondi facevo un passo per andarlo a riprenderlo, poi pensavo alle parole di Oscar e tornavo dietro la macchina, piangendo.
Avevo visto una donna vestita da suora, aprire la porta richiamata dai pianti del bambino, si era chinata e lo aveva portato dentro, mi ero lasciata scivolare a terra sull’asfalto umido, piangendo tutte le lacrime che avevo, stringendo così forte i pugni finché le unghia non scavarono dei buchi sui palmi. Ma niente faceva male più della lontananza dal mio bambino.
Niente, nemmeno le botte di Oscar e dei vari clienti. Niente poteva ferirmi di più del ricordo del viso di mio figlio.
Qualche mese dopo avevo trovato il coraggio di tornare in quell’istituto, ero fuori di me, progettavo di fuggire di nuovo, volevo andare lontano con il mio bambino e ricominciare una nuova vita, non sapevo ancora come fare sapevo solo di non poter stare senza di lui, ma gli assistenti sociali rifiutarono di farmelo vedere, picchiai i pugni contro i tavoli, la testa contro i muri, urlai come una pazza, mi gettai sul pavimento, riuscii ad ottenere solo il ricovero in un ospedale psichiatrico, dove rimasi per qualche mese.
Uscita da lì però mi sentivo una donna nuova. Quella era davvero la volta buona per ricominciare, mi ero disintossicata dalla droga avevo tutte le intenzioni di trovarmi un lavoro. Quando mi assunsero come cassiera in un minimarket tornai all’istituto. Non feci questioni, chiesi di parlare con la direttrice, Suor Paolina, le raccontai tutto di me. Le chiesi di vedere mio figlio, giurai su di lui che non avrei fatto pazzie, che non avevo intenzione di portarlo via dal centro, volevo solo ricominciare a vivere, preparare un futuro per lui, fino a che il giudice non si fosse accorto dei miei progressi e mi avrebbe permesso di tenerlo con me. La suora mi ascoltò pazientemente poi mi guidò fino a un nido in cui c’erano diversi neonati. Lo riconobbi subito, scoppiando in lacrime. Aveva quasi un anno e se ne stava in piedi nella culla pronunciando suoni senza senso. Mi avvicinai e lo guardai nei suoi occhi verdi così simili ai miei e lui mi tese le braccine, razionalmente sapevo che era un gesto istintivo, non poteva riconoscermi ma il cuore mi mancò un battito. Sapeva chi ero. Sapeva che ero sua madre.
Per quasi due anni tornai in istituto una  volta a settimana, come aveva stabilito il giudice, Suor Paolina era un angelo e aveva messo una buona parola su di me, mi permetteva di stare con il bambino più di quanto fosse permesso, mi offrì un posto in cui stare quando il padrone di casa senza spiegazioni mi sfrattò.
Il mondo iniziava a diventare un posto più bello, la primavera stava per arrivare, Benedetto aveva quasi tre anni, mi riconosceva ormai, mi correva incontro e si addormentava solo in braccio me. Non mi chiamava mamma, non mi chiamava per niente, ma ero l’unica con cui voleva addormentarsi la sera, era verso di me che correva quando si faceva male o quando aveva paura.
Poi l’ultima botta.
Rientrando nella mia camera dopo aver messo a letto Benedetto avevo trovato una busta sul comodino. Pensavo fosse di Suor Paolina, ogni tanto la suora mi lasciava qualche brano di vangelo sul letto la sera per farmi riflettere e per mettere pace tra me e Dio ma non era di suor Paolina, purtroppo.
Quando vidi il contenuto della lettera sbiancai e temetti di morire all’istante. Fotografie di me e Benedetto al parco. Il bambino con la testa cerchiata di rosso e dietro ognuna di esse c’era scritto. “ Se non torni al tuo posto la parte cerchiata cesserà di stare al suo di posto”.
Per tutta la notte non avevo fatto altro che piangere, ero andata al dormitorio, avevo preso Benedetto dalla culla e l’avevo portato a letto con me. Lo avevo stretto mentre dormiva, avevo respirato il suo profumo di talco e di colonia per bambini, avevo pianto e mi ero rassegnata.
Rassegnata al fatto che non me lo meritavo, che non avrei potuto vivere accanto a lui, che non avrei potuto vederlo se non da lontano, che non sarei mai potuta essere una madre per lui. Mai. Dovevo lasciarlo andare. Se davvero lo amavo, e lo amavo sopra ogni altra cosa, dovevo sparire dalla sua vita prima che fosse troppo tardi, prima che i miei errori ricadessero irrimediabilmente su di lui, prima che pagasse con la sua vita il basso prezzo della mia.
L’alba era arrivata e mi aveva trovata distrutta ma decisa. Avevo aperto un cassetto della scrivania e avevo preso un foglio a quadretti iniziando a scrivere di getto.

Suor Paolina,
le lascio il mio bambino, questa volta per sempre. So che le ho chiesto di rimandare le pratiche di adozione ma adesso mi rendo conto che ho sbagliato, lui merita una famiglia vera. Io non sono in grado di dargliela nonostante io mi sforzi non ci riesco, è impossibile, il passato è inciso sulla mia pelle come un tatuaggio che è impossibile da cancellare e mio figlio pagherebbe il peso dei miei errori più di quanto non stia già facendo, non c’è sicurezza che io possa dargli, suo padre era il mio protettore, un uomo senza scrupoli, morto per un regolamento di conti quando io ero ancora incinta. Non c’è stato amore nella mia vita e voglio che la sua ne sia piena. Voglio che abbia tutto quello che io non ho avuto. So che le sembrerà strano e che non può capirlo, so che non lo capirà nemmeno lui, ma lasciarlo andare è il gesto d’amore più grande che io possa fare. Spero che Benedetto sia felice. Ho scelto questo nome perché spero che qualcuno da lassù lo protegga e gli dia la forza per vivere una vita che non è stato facile nemmeno da neonato. Le lascio la cosa più cara che ho. L’unica cosa di valore che io abbia mai avuto. Addio. Giada.



Un bacio e poi un altro e poi altri cento, separarsi da lui di nuovo, è la cosa peggiore che mi possa capitare, adesso che conosco il suono della sua voce, della sua risata, adesso che so quale è il suo cartone animato preferito, che conosco il modo in cui gli piace dormire, stretto al suo coniglio bianco, adesso che lui è ancora di più parte di me, lasciarlo è come morire. Ma non c’è altra scelta. Canticchio l’altra mia canzone preferita, una di quelle che mia madre mi cantava per farmi addormentare. Con "Questo piccolo grande amore" non ho avuto fortuna, ma su questa non ho dubbi. Contiene una promessa, una promessa che spero con tutto il cuore che un giorno possa realizzarsi.
“Forse un giorno ci rincontreremo, forse un giorno accarezzerò i tuoi capelli, forse un giorno mi chiamerai mamma. Forse.”



Mancano pochi giorni a Natale, ti vedo scendere da un pulmino bianco davanti al cinema. Quanto sei cresciuto. Niente mi impedirebbe di venire da te adesso, Oscar non mi tormenta più, non sa che farsene di una come me. Adesso potrei venire da te, stringerti per mano e portarti via. Potrei se non fosse che a breve sarei costretta a dirti addio, questa volta per sempre. Solo che questa volta a soffrirne saresti solo tu.
Non c’è più tempo per noi.
Ti guardo girarti intorno, fissi la gente stranito. Non posso fare a meno di chiedermi cosa ti turba tanto. Vedo i tuoi occhi verdi, simili ai miei non solo nel colore. Hai la mia stessa espressione dopo la morte di mia madre. Nemmeno tu sei più un bambino, come me sei cresciuto troppo in fretta, come me hai dovuto affrontare la realtà prima del tempo. Una lacrima mi scende lungo la guancia. Non sono riuscita a proteggerti. Non sono riuscita a darti quello che volevo e che meritavi.
I tuoi occhi si muovono nervosi per la sala, si fissano su quelle madri che stringono per mano i loro figli e mi si stringe il cuore in una morsa. So cosa stai cercando. Non ti ricorderai di me ma sai che io in qualche modo ci sono, non resisto all’impulso di avvicinarmi, ti passo accanto, sfioro i tuoi capelli, come se fosse una casualità. Ti sento pronunciare a bassa parola una parola, la sussurri a te stesso come se stessi assaporandone il sapore.
 “ Mamma.”
Il cuore mi si riempie di gioia e di speranza. Mi allontano canticchiando ancora quella canzone, quella che è la nostra canzone, un giorno mi ritroverai sopra l’arcobaleno.



Somewhere over the rainbow
Way up high
And the dreams that you dreamed of
Once in a lullaby ii ii iii
Somewhere over the rainbow
Blue birds fly
And the dreams that you dreamed of
Dreams really do come true ooh ooooh
Someday I'll wish upon a star
Wake up where the clouds are far behind me ee ee eeh
Where trouble melts like lemon drops
High above the chimney tops thats where you'll find me oh
Somewhere over the rainbow bluebirds fly
And the dream that you dare to,why, oh why can't I?

Well I see trees of green and
Red roses too,
I'll watch them bloom for me and you
And I think to myself
What a wonderful world

Well I see skies of blue and I see clouds of white
And the brightness of day
I like the dark and I think to myself
What a wonderful world

The colors of the rainbow so pretty in the sky
Are also on the faces of people passing by
I see friends shaking hands
Saying, "How do you do?"
They're really saying, I...I love you
I hear babies cry and I watch them grow,
They'll learn much more
Than we'll know
And I think to myself
What a wonderful world

Someday I'll wish upon a star,
Wake up where the clouds are far behind me
Where trouble melts like lemon drops
High above the chimney top that's where you'll find me
Oh, Somewhere over the rainbow way up high
And the dream that you dare to, why, oh why can't I? 


TRADUZIONE

Da qualche parte sopra l'arcobaleno
proprio lassù, ci sono i sogni che hai fatto
una volta durante la ninna nanna
da qualche parte sopra l'arcobaleno
volano uccelli blu e i sogni che hai fatto,
i sogni diventano davvero realtà

un giorno esprimerò un desiderio
su una stella cadente
mi sveglierò quando le nuvole
saranno lontane dietro di me
dove i problemi si fondono come gocce di limone
lassù in alto, sulle cime dei camini
è proprio lì che mi troverai
da qualche parte sopra l'arcobaleno
volano uccelli blu e i sogni che hai osato fare,
oh perchè, perchè non posso io?

Beh vedo gli alberi del prato e
anche le rose rosse
le guarderò mentre fioriscono
per me e per te
e penso tra me e me
"che mondo meraviglioso!"

Beh vedo cieli blu e nuvole bianche
e la luminosità del giorno
mi piace il buio e penso tra me e me
"che mondo meraviglioso!"

I colori dell'arcobaleno così belli nel cielo
sono anche sui visi delle persone che passano
vedo degli amici che salutano
dicono "come stai?"
in realtà stanno dicendo "ti voglio bene"
ascolto i pianti dei bambini
e li vedo crescere
impareranno molto di più
di quello che sapremo
e penso tra me e me
"che mondo meraviglioso!"

un giorno esprimerò un desiderio
su una stella cadente
mi sveglierò quando le nuvole
saranno lontane dietro di me
dove i problemi si fondono come gocce di limone
lassù in alto, sulle cime dei camini
è proprio lì che mi troverai
da qualche parte sopra l'arcobaleno
ci sono i sogni che hai osato fare,
oh perchè, perchè non posso io?


Ecco il missing moment sulla madre di Ben che avevo promesso. E' stato davvero difficile da scrivere e non ne sono per niente soddisfatta, avrei voluto fare di più, riuscire a essere meno superficiale a essere ancora più profonda ma credo che a riguardarlo troppo e a correggerlo farei ancora più danni, è una cosa spontanea, che ho faticato a scrivere, mi sono talmente immersa in Giada che sono rimasta con una sensazione strana come di malessere, non mi prendete per pazza per favore, per me questa storia è come un'ossessione ormai, soffro e gioisco con i protagonisti. Non so a voi la sentenza, spero che l'apprezziate anche se è tremendamente triste, lo so! Beh non so che altro dire, in caso aggiungo in seguito. A presto. Manu.
  
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